domenica, aprile 14, 2019

INVISIBILI: OSLO


Oslo
di, Joachim Trier
con, Anders Danielsen Lie, Hans Olav Brenner, Malin Crépin, Ingrid Olava, Emil Lund
Norvegia, 2011
genere, drammatico
durata, 95’




On s'en va comme des poltrons,
Vivant mal leur écartèlement,
Entre émotion et indifférence,
Entre révolte et dérision,

On a le désir, on se dit il faut agir,
Mais cette lâcheté inavouable,
Nous rend bien trop gouvernables,
- Stereolab -


Chiaro: che Oslo (il titolo del film) dissimuli in sé l’anagramma di solo è e resta un più o meno curioso calembour. E’ pur vero, però, che talvolta le circostanze - in questo caso, linguistiche - si dispongono in modo da favorire una trama di associazioni e ipotesi in grado di adattarsi con insospettabile disinvoltura al contenuto e al tono di una vicenda (qui, un parto dell’ingegno). E’ il  caso del presente lavoro di Trier centrato sulla figura di Anders/Danielsen Lie, giovane di buona estrazione e di indubbio spessore psicologico e intellettuale caduto, per il tipico coacervo di motivazioni contraddittorie a cui, alle nostre latitudini, non è quasi mai estranea quella impalpabile ma abrasiva angoscia propria dell’uomo assediato dalla modernità, nella spirale della tossicodipendenza (quindi in una particolare e penosa variante della marginalità, dell’isolamento), con annessa complicata lunga fase di recupero. Intenzionato a mettere alla prova sé stesso e le proprie debolezze (il film si apre su un abortito suicidio per annegamento) Anders, pulito da quasi un anno di riabilitazione, pianifica di utilizzare un permesso di uscita concessogli dal centro in cui risiede per un colloquio di lavoro (ha una passato nel giornalismo e, a detta di chi ne ha valutato gli articoli, notevoli capacità di scrittura), allo scopo di ricomporre la trama lisa degli affetti - alcuni amici, la sorella, una ex - nel tentativo di integrare con scampoli di vita autentica la necessaria ma arida disciplina indotta dall’allontanamento forzato. La sorte che lo attende e di cui sarà tanto artefice che oggetto si compirà durante un’erratica giornata di fine agosto tra le vie e i giardini di una capitale norrena silenziosa ed enigmatica.


Motivo distintivo dello sforzo dell’autore di origine danese è, in primis, l’accostamento (riuscito) della rappresentazione (discreta e misurata, eppure intrisa di una qual dimessa violenza grafica di preferenza giocata sull’ambivalenza tra l’opaca pienezza dei corpi e degli oggetti e la luce radente, spesso diafana, quasi avara, che li fa emergere alla sensibilità) degli scarti psicologici conseguente alla prassi messa in atto dal protagonista per avvicinare di nuovo il mondo materiale e quello degli uomini i quali, di volta in volta, lo attirano (illudendolo) e lo respingono (frustrandolo), impregnando il substrato emotivo del film di un umore instabile, oscillante tra gli incoraggiamenti di una speranza con fatica e di continuo messa alla prova e le limitazioni concrete imposte da una prostrazione magari quieta e contegnosa nelle insorgenze ma senza tregua. Ne scaturisce la descrizione di un percorso interiore più affine a una rassegnata ma lucida resa all’evidenza (“Se qualcuno vuole distruggersi, la società glielo lascia fare”) che ai consueti - e più remunerativi, cinematograficamente parlando - rosari vittimistici e/o autoassolutori conditi con, in genere, compiaciute discese-agli-inferi. E ciò in buona sostanza perché per Anders (e, in trasparenza, per Trier, come torneremo a constatare nel recente “Thelma”) l’inferno si declina nella più anonima ma affatto indolore e attualissima incapacità (oramai impossibilità ?) di entrare in autentica sintonia con l’Altro - difficoltà, ovvi imbarazzi e fragilità incluse - se non entro schemi comportamentali dal punto di vista razionale forse pure ineccepibili ma drammaticamente inerti sul piano umano (l’editore che dovrebbe ingaggiare Anders insiste in maniera ambigua, anche dopo averne appreso i sommi capi, sui trascorsi che ne hanno interrotto la carriera); formalmente giustificabili ma privi della minima traccia di compassione (la sorella evita di incontrare il fratello e al suo posto invia una amica comune latrice della vecchia frase grimaldello: “Ho bisogno di tempo”); o del tutto assenti (la ex, che Anders ribadisce di amare, semplicemente non risponde alle sue chiamate): implicazioni dirette e pressoché in modo unanime introiettate da un modo di vivere - il nostro, nei gorghi della  palude occidentale - deterministico e feroce, funzionale e indifferente, che tra tante allergie di cui è portatore non tollera al suo interno le componenti difettose, pur continuando ad ambire a ogni brandello della vita materiale e ben disposto a mentire per ottenerlo o, persino e al contrario - grottesco paradosso - a dissolversi di fronte a una promessa evanescente presentata però come nuova e, figurarsi, a portata di mano (le sfuggenti nuvole bianche prodotte da un estintore rubato durante una corsa in bicicletta prima che sorga il nuovo giorno, l’ultimo).

D’altra parte - e a integrazione di quanto accennato - vanno sottolineate talune scelte espressive che il regista orchestra secondo un abile e spesso coinvolgente gioco d’incastro a sottrarre. Ecco, allora, brevi scene di raccordo in campo medio o lungo in pertinente progressione metonimica (prive di dialogo e di sonoro, con Anders in giro per Oslo o alla volta di una delle sue prefissate tappe, precedute e talvolta seguite da frammenti di filmini amatoriali, istantanee e inserti documentaristici commentati da voci diverse che argomentano impressionisticamente circa aspetti complementari del quotidiano - la vita professionale, quella comunitaria mescolata, a volte, a considerazioni di carattere più intimo o a mere aspettative personali - a testimoniare l’universalità in apparenza pacificata ma di fondo coatta di una condizione, quella moderna, alla cui inesorabilità non è prevista alternativa), lasciare qua e là spazio a sequenze più dilatate, costruite su piani ravvicinati in cui il gioco degli sguardi (o la latitanza degli stessi), il ritmo dei dialoghi (la lingua norvegese ha una cadenza per la quale, non di rado, le esitazioni e le sospensioni prevalgono sull’assertività e l’intercalare diretto, senza pause), la sensazione opprimente di un tempo che sembra essere stato concesso solo per venir stupidamente dilapidato (indicativa, a questo riguardo, l’espressione smarrita di Anders proveniente da un insondabile luogo sospeso tra perplessità e sfinimento, che registra e subisce l’assortimento di lepidezze e di placidi orrori di cui il senso comune, qui incarnato da due ragazze sedute a qualche tavolo da lui in un bar con i computer accesi, presume, a mo’ di gioco di società da rotocalco estivo, debba sostanziarsi l’esistenza dell’individuo medio per raggiungere la pienezza: Fare vacanze romantiche; Mangiare un gelato al giorno; Raggiungere e mantenere il peso forma; Nuotare fra i ghiacci con i delfini; Mettere un messaggio nella bottiglia e ricevere una bella risposta; Vincere alla lotteria, et.), finiscono per avere buon gioco anche sulla complessiva prevedibilità ascrivibile a una vicenda che mette da subito le carte in tavola, configurando senza indugi il perimetro in cui si compirà una parabola esemplare, non così distante, dopotutto e in definitiva, vista anche l’ispirazione comune, dal fuoco fatuo per un tanto alimentato dall'Alain/Ronet nell’omonima opera di Malle da Drieu la Rochelle.
TFK

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