domenica, novembre 01, 2020

IlL MIO CORPO. CONVERSAZIONE CON MICHELE PENNETTA

Nel raccontare l’incontro di due solitudini, Il Mio Corpo di Michele Pennetta narra il senso di rifiuto vissuto da Oscar e Stanley, protagonisti di una storia di quotidiana emarginazione. Vincitore del premio Rosetta ad Alice nella Città


Volevo partire iniziando a parlare con te del tema dell’integrazione. Al di là della scena finale, le immagini de Il mio corpo riescono a unire persone di cultura diversa più di quanto riesca a farlo la società. Oscar e Stanley sono entrambi esuli dalla propria famiglia e più in generale dalla società che li ha lasciati ai margini. 

 In realtà, come dici tu, sono due persone che per quanto lontane, anche dal punto di vista geografico, si ritrovano a vivere nello stesso territorio La cosa che fin da subito mi ha affascinato, e per la quale ho deciso di mettere in risonanza i loro destini, è che entrambi hanno lo stesso sentimento di rifiuto – inteso nel senso più ampio del temine – impresso nei loro volti. Un sentimento derivato dalla consapevolezza di vivere una vita già decisa da altri. Nel caso di Oscar, dai genitori; in quello di Stanley dallo Stato, nella veste dei funzionari che lo rappresentano. Come dice la nonna al bambino, è un destino che si replica da sempre, comune a quello dei migranti, anche loro destinati a reiterate il viaggio che li vede lasciare i loro paesi per venire in Italia, luogo da cui verranno rigettati e  costretti a errare senza una meta. Parliamo di una condizione e di un concetto che si ripete all’infinito.

Parli di significati e dunque ne approfitto per agganciarmi a quello espresso dal titolo. In senso marxista, Oscar e Stanley sono spogliati da tutto tranne che del loro corpo, attraverso il quale passa la ragione della  stessa esistenze. La loro condizione lavorativa non gli permette di emanciparsi dal punto di vista economico e dunque sono l’esempio dell’uomo concepito da Karl Marx. Il mio corpo torna  a questa parte del suo pensiero per mostrarne l’attualità.

Certo, sono completamente d’accordo con te. Quello è stato il concetto del marxismo nella visione del corpo come strumento ed è la cosa che mi ha veramente colpito rispetto alle esistenze di Oscar e Stanley, nel senso che ho ritrovato dei concetti letti solo nei libri di storia. Il titolo in parte deriva da lì e cioè dal corpo inteso come strumento di sopravvivenza. C’è poi un lato più religioso e sacro per cui il corpo è inteso come sacrificio della persona.

Rispetto alle immagini, privilegi quelle in cui i protagonisti sono in continuo movimento. Questo da una parte rimanda alla precarietà della loro condizione e all’irrequietezza che ne deriva, dall’altra alla spinta nel ricercare l’altro.

 Esatto. I personaggi sono in continuo movimento e questo ribadisce anche il concetto sulla ciclicità del destino umano. Attraverso il fatto che le vite di Oscar e Stanley sono entrambe in perenne movimento, cerco di annullare il concetto dell’altro, nel senso che l’altro sono loro e gli altri siamo noi. Mettendo in relazione i mondi dei due personaggi, ho la speranza di far capire per primo a me e poi gli altri che viviamo nello stesso suolo e camminiamo sulla stessa terra.

Il mio corpo narra l’incontro di due solitudini. I campi lunghi a cui  spesso ricorri le restituiscono, attraverso un paesaggio isolato, deserto e spoglio.

A livello formale, il film è frutto di dieci anni di ricerca e di riflessione, rispetto a cos’è per me un documentario; su quale sia il limite tra realtà e finzione e su come utilizzare gli strumenti del cinema per arrivare al documentario, cercando di  trasmettere il mio punto di vista attraverso la forma. Nei film precedenti ho capito di cosa avevo bisogno per poter tradurre quello che vedevo e  per capire come volevo che fosse. Con Il mio corpo ho cercato di fare un documentario in cinemascope, un formato che di solito non gli appartiene.

Non a caso, dal punto di visto del paesaggio, sembra di guardare un western.

Proprio così, l’intenzione era quella di trasmette allo spettatore di trovarsi di fronte a un western contemporaneo.

La prima parte del film è più narrativa, la seconda privilegia un andamento più’ contemplativo. Partendo da qui, volevo chiederti: come regista, in che misura intervieni sulla realtà e quanto invece lasci che si manifesti davanti alla mdp.

 Prima di girare, come sempre succede, ho fatto un grande lavoro con i personaggi, nel senso che ho passato del tempo con loro per farli abituare alla mia presenza e per capire io quali situazioni da loro vissute mi piacerebbe seguire e quale drammaturgia  potrebbero avere.

La stessa cosa si ripete all’arrivo della troupe, in questo caso formata da sei persone. Con loro abbiamo trascorso un mese senza girare, in cui passavamo solo del tempo con Oscar e Stanley.  Tale vicinanza ha fatto sì che certi momenti, che sembrano messi in scena, in realtà non lo erano. Come nella scena del risveglio. Noi siamo entrati alle cinque di mattina e il fatto che Oscar fosse abituato a noi ha fatto sì che quando apre gli occhi guardi dietro e non verso la mdp.

Poi, certo, ci sono stati dei momenti in cui ci prendevamo del tempo per osservare bene le cose, stando pronti a captare quello che ci serviva senza imporre agli attori di comportarsi in un determinato modo. Questo ci ha permesso di non girare molto ma solo quando era necessario. Il lavoro è stato lungo, ma molto del tempo è stato speso nella preparazione e nell’attesa. Il materiale filmato non era molto: la selezione come ti dicevo è stata fatta a priori, prima di girare. Alcuni aspetti della loro vita, come l’assenza della madre, li ho scoperti mentre filmavo. Riguardo a quest’ultimo aspetto, ho voluto enfatizzarlo attraverso la scena del ritrovamento della statua della Madonna, che ho creato apposta e non è stata frutto del caso. Dunque, se vuoi, ne Il mio corpo ci sono degli elementi reali ed altri simbolici, che ho cercato di inserire utilizzando gli elementi della messinscena.

    Carlo Cerofolini (Pubblicata su taxidrivers.it)

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