venerdì, aprile 17, 2015

TOP OF THE LAKE

"Top of the lake".
- Il mistero del lago -

di: J.Campion, G.Davis.
con: E.Moss, P.Mullan, J.Joe, D.Wenham, H.Hunter, T.Wright, J.Ryan. K.Chapman.

Serie TV in sei puntate.
- NZ/GB/USA 2013 -



Le stilettate vibrate in disparte (non per questo meno dolorose) da Ducasse/Lautreamont, arrivano a permeare del proprio puntuto disincanto perfino gli angoli meno in vista di quel paradiso inattuale che e' la Nuova Zelanda, se "scendendo dal grande al piccolo, ogni uomo vive come un selvaggio. La grande famiglia universale degli esseri umani e' un'utopia degna della logica più mediocre". In effetti, una delle prime constatazioni possibili in merito ad un'opera come "Top of the lake" - mini-serie televisiva in sei episodi di 45 minuti circa ciascuno, scritta e co-diretta da Jane Campion assieme a Garth Davis (l'ipotesi della dilatazione delle vicende non e' comunque da considerarsi così aleatoria) - e' proprio quella in base alla quale la propensione alla convivenza dell'animale sapiens non solo risulta irrigidita in una sorta d'ipocrita e rancorosa vicinanza, modellata senza alternative sull'andirivieni degli opportunismi contingenti ma palesa a riprese 



sempre più serrate e, paradossalmente, tanto più se relata al paesaggio naturale - nell'intrecciarsi guardingo delle occhiate, come nella sfinita insofferenza dei gesti più minuti, per non parlare delle violenze più plateali e crude - le fattezze di una ritualitàartificiosa, meramente sedimentata dalle circostanze, pressoché spoglia, cioè, di ogni spontaneo trasporto o di quella che un tempo (in uno slancio che lo scomodato Ducasse avrebbe senza remissione esecrato) si sarebbe potuta definire empatia di specie.

Del resto, la stessa nomenclatura toponomastica (i fatti si svolgono nella contemporaneità in un aggregato urbano al centro di una wilderness tanto rigogliosa quanto, di fatto, inattingibile, a nome Paradise), non fa alcun mistero circa la propria essenza ambigua di luogo al tempo evocativo, quasi approdo insperato, e fucina inesauribile d'interdipendenti nefandezze secrete da un'umanità difficile dire se più inconsolabilmente afflitta o dannata in saecula saeculorum da una verminosa abiezione con venature schizoidi, tale, nel caso, da rendere addirittura palpabile il portato antifrastico del titolo originale, ribadendo, d'altro canto e con maggiore vigore, l'adagio per cui, davvero, nothing is quite what it seems.




Sulle tracce (secondo il più classico dei canovacci polizieschi, scomparsa/ricerca/ritrovamento) della tredicenne Tui/J.Joe, irresistibile carne precoce, crocevia caldo di attenzioni centripete da parte di un  microcosmo adulto votato/forzato alla sterilità rabbiosa, arranca il detective Robin Griffin/E.Moss, percorrendo in parallelo e a ritroso le stazioni di un destino analogo nella ferocia incomparabile eppure sempre uguale - Tui, violata e gravida, sparisce dopo una deposizione semi-muta alla Centrale di Polizia; Robin, in un passato neanche così remoto, viene violentata in gruppo al termine delprom sotto gli occhi non sapremo mai bene quanto sul serio inermi o ambiguamente complici del fidanzato del tempo/fiamma mai spenta a cui concedere pian piano il beneficio del dubbio, John Mitcham/T.Wright - a sancire con l'annientamento delle prerogative della giovinezza l'immersione nel cinismo ricattatorio del mondo-dei-grandi, ogni gesto in equilibrio precario sul discrimine che separa l'obiettività professionale dal coinvolgimento privato.
 Robin, ragazza la cui perspicacia e grazia poggia su un substrato ineliminabile di tristezza irreconciliata e inquietudine presaga caro a molte figure muliebri dell'universo campioniano - in particolare quelle degli albori cinematografici di "Two friends", "Sweetie" e "An angel at my table" - coglie, nel progredire del lavoro di scavo tra le pieghe di vissuti sfuggenti (incluso il suo e quello della sua famiglia), proprio i segni inequivocabili (e avvilenti) della dissoluzione dell'idea stessa di comunità, a dire il disfarsi quasi nulla fosse del suo tessuto connettivo di base - un'affettività magari superficiale ma sincera - a cui si sovrappongono, in un incistarsi patologico, succedanei o ibridi appena abbozzati, presto abortiti e, peggio, inefficaci e alla lunga deleteri: clan patriarcali puerilmente dispotici, chiusi in se stessi fino alla prevaricazione e alla demenza (Matt Mitcham, padre di John - interpretato da Peter Mullan con la consueta ma sempre impressionante aderenza fisicaprimordiale - fa e disfa i destini della piccola cittadina col piglio di un capo tribù loricato cui si deve in primis sottomissione; colleziona randagi che a capriccio o se scimmiato fredda a fucilate; apostrofa gli altri figli, Mark/J.Ryan e Luke/K.Chapman, con reiterati "Voi siete niente. 



Non avete niente, dentro", per poi scazzottarcisi; non esita a rivendicare la primazia del possesso su Tui, ennesima sua prole: "Lei e' mia. Solo mia"); istituzioni ingessate in un formalismo tanto ottuso quanto paravento d'indicibili brutture (il Serg. Al Parker/D.Wenham, impettito e salutista, coordina le ricerche con un orecchio alle direttive trasversali e interessate di Matt, un occhio bramoso alle fragilità di Robin ed entrambe le mani immerse in torbidi retroscena che pulsano sottotraccia e che, chi più chi meno, finge d'ignorare); improbabili ginecei le cui rivendicazioni libertarie e autarchiche stagnano a mollo in un'irresolutezza e un livore che e' scomodo guardare in faccia (un pugno di donne anzitempo sfiorite, a vario titolo ferite e confuse, sotto l'egida discreta ma esigente di GJ/H.Hunter - guru/fattucchiera dalla grigia capigliatura fluente e dalla fulminante persistenza di sguardo - si barcamena alle prese con un'esistenza brada, arrangiata dentro container abbandonati, fatta di frequenti abluzioni adamitiche nelle acque del lagofatale, punto di fuga fisico e congetturale di ogni intreccio; di sistematiche perorazioni/abiure/rimpianti, a mo' di collettive sedute di autocoscienza, dei propri trascorsi immancabilmente marchiati dalla mascalzonaggine maschile: e di pianti sfrenati, lunghi abbracci sororali, infinite tazze di te')...

Tui e Robin, nel diluirsi calmo di un tempo abilmente sospeso tra palese rassegnazione al presente e strisciante attesa febbrile per un evento futuro, finiscono, così, con lo specchiarsi - più stupefatte che atterrite, più esauste che avide di vendetta - nei frammenti sparsi del medesimo piccolo mondo (scoperta metafora di quello che tutti ci accoglie/sovrasta/schiaccia) che agonizza in una perdizione, tutto sommato, si' crudele ma pure idiota, di sicuro malvagia eppure non meno smidollata - così passivamente ferina com'è, irresistibilmente attratta da ammorbanti scipitezze - alla quale entrambe oppongono quella meravigliosa (e stavolta autentica) determinazione tutta femminile che non arretra di fronte al quieto vivere, all'assuefazione alla menzogna, all'eventualità di mettere a rischio la propria stessa incolumità. Atteggiamento che le pone, di diritto, verrebbe da dire, ben al di la' - e su questo lo sguardo avvertito e leale della Campion non ammette favoritismi - delle convenienze momentanee (se Robin accoglie di nuovo John e' perché decide scientemente di farlo, assumendosene gl'ipotetici rischi); delle opportunità e dell'ufficialità (Robin, come Tui dal canto suo, andrà a fondo nei risvolti di una storia che nella ragazzina oggetto-del-desiderio individua il suo elemento catalizzatore ma non l'unica pedina di una scacchiera ben più complicata); delle illusorie consolazioni (la possibilità del mondo a parte rabberciato dall'altra meta' del cielo in riva al lago e' solo un appiglio instabile come un altro, a cui neanche le spassose ovvietà diffuse con enigmatico tono oracolare da GJ - che non a caso mollerà baracca e burattini per cercare aria nuova in Islanda (!) -, tipo "La morte non esiste. Gli atomi prendono solo a rimescolarsi liberamente", possono fornire spessore superiore a quello di un'evanescente chimera).

Forse - osservano ancora Campion e Davis - e' solo nel silenzio (quel silenzio che predispone all'ascolto, come fu per Ada, la musicista muta di "The piano") che e' praticabile instradarsi verso la chiarezza (Robin assembla pezzi significativi del rompicapo criminoso dopo ampie parentesi trascorse in riflessioni solitarie); ridurre le distanze dal paesaggio/organismo vivente, divenuto ostile perché oramai estraneo nella caricatura inerte di dispensatore di materie prime (Robin insegue l'equilibrio interiore perduto per il tramite di frequenti corse nella natura selvaggia; Tui, letteralmente, torna nel ventre di Madre Terra); avvertire il presagio della bellezza, la sua misteriosa prossimità (il profilo tagliente delle montagne blu, i boschi e le felci senza tempo, acqua e cielo a completare e a contenere quelle e questi) prima di dover prendere atto che - ed e' ancora Ducasse a ricordarlo - "il corpo non e' più che un cadavere che respira... e il rasoio, aprendosi un varco attraverso il collo, proverà che nulla, infatti, e' più reale".
TFK

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