domenica, maggio 19, 2019

INVISIBILI: DELTA

Delta
di, Kornél Mundruczó
con, Félix Laikó, Orsolia Tóth, Lili Monori, Sándor Gáspár
Ung, Ger 2008
genere drammatico 
durata, 92’


Acqua e luce, terra e cielo
è decretato prima che ti muova
E ogni tuo atto o parola
ogni verità, ogni menzogna
muoiono nell’amore che non giudica
- D.Thomas -


Ogni affacciarsi al mondo, per rischiare degnamente l’ordalia circa il proprio senso ultimo, scommette sempre e solo sulla possibilità di una qualche forma di amore. Di suo, il bipede sapiens, ci mette la pervicacia della negazione, quella tensione ottusa e autofaga che ne trasforma la permanenza nell’essere in uno stolido e irredimibile inferno. Tale progressiva e brutale china coinvolge via via i giorni di Mihail/Laikó e Fauna/Tóth, fratelli a lungo separati dalle contingenze e dal bisogno e infine riuniti dal ritorno di uno dei due. Nel caso Mihail, un po’ di soldi in tasca e l’idea - presto colta da Fauna, nel tentativo di sottrarsi una volta per tutte a una consuetudine greve e senza scampo - di costruirsi una casa presso il delta danubiano, nel silenzio clemente di un paesaggio scosso appena da una lieve brezza estiva (e avvinto al cuore di una magia sospesa, che nell’accordo misterioso tra cielo e terra, tra acqua e luce, sembra quasi avanzare una promessa di indolente immortalità): più di tutto, lontano dall’atroce rimestare del consorzio umano. Niente però sarà concesso. Tutto, al contrario, sarà sacrificato al ristabilimento di un ordine al solito metabolizzato ma non compreso e, come qualunque ordine, tanto artificioso quanto spesso inesorabile.

La composta elegia ritratta da Mundruczó si avvale - e non è così scontato - di un punto di vista lucido come pure equanime - e, nei confronti delle due vittime designate, intriso di un qual triste lirismo - al momento di redigere l’ennesimo epicedio sul fallimento del patto sociale, della convivenza (nel particolare fondata su silenzi inscalfibili ma rassegnati, su prossimità violente e sottomissioni secolari, su lacerti di rituali esausti), in rapporto a un’istanza di felicità che, ergendosi a prologo di un’apertura incondizionata ai paradossi e alle contraddizioni dell’esperienza, ovvero, per la gran parte, del desiderio, non arretra di fronte alle stratificazioni culturali o alle limitazioni imposte dalle morali (il rapporto incestuoso che tenta Mihail e Fauna - tra l’altro costruito e restituito con una totale e misuratissima pudicizia - a ben vedere allude più a una rivolta filosofica contro l’ipocrisia e la ferocia di un sistema chiuso in sé stesso - qui, la comunità rurale che vive lungo il fiume - intento al tempo a decomporsi e a pascersi della propria bieca stoltezza - si lavora per ingozzarsi e per bere e ci si ingozza e si beve per ricominciare, domani come oggi, oggi come ieri, a lavorare, in quell’abbrutimento contundente del fare che è il più umiliante e grottesco dei trionfi-della-morte - che all’affermazione di una stravaganza sessuale). Se, in altre parole, suggerisce l’autore ungherese, trovare il proprio posto nel mondo non può prescindere da un investimento emotivo, sentimentale, indipendentemente da chi o da cosa ricade all’interno del suo azzardo passionale, ebbene, la comunità-degli-uomini, assecondando il più miserabile dei riflessi condizionati, rifiuta e rigetta siffatto slancio. Di prassi, cioè, sopprime l’anomalia nell’illusoria certezza di aver ribadito, con l’imposizione dell’Autorità - lo Stato, il ceto/pensiero dominante, la tribù, il clan, i rispettivi imprimatur - la supremazia della propria verità, soprassedendo, per contro, in funzione punitivo-risarcitoria e a mo’ di esempio per la massa, su qualunque arbitrio (l’abuso infame perpetrato dal patrigno/Gáspár su Fauna, infatti e per quanto confinato nella lontananza di un attonito campo lungo, non ci viene coerentemente - e giustamente - risparmiato).

Ancor più stridente si fa, allora, all’interno di uno scenario piegato a una sorta di arresa inesorabilità, il contrasto tra la mestizia della materia narrativa, sempre in bilico tra l’apologo esemplare e il monito inascoltato, e gli strumenti espressivi chiamati a darle forma e spessore. A dire che la mdp si attarda sovente sui visi e sui corpi di Mihail e Fauna intenti ad aprirsi un itinerario individuale e alternativo alla tetra concretezza della terraferma (il pontile di legno proteso, asse dopo asse, chiodo dopo chiodo, sullo specchio liquido del fiume, a raggiungere la casa in costruzione, dimora di una nuova vita); indulge nella contemplazione intima ma avvertita dell’ambiente naturale, compenetrando la dolcezza dorata di pomeriggi luminosi e quieti al respiro sempre mutevole di momenti sorretti e incalzati dalla enigmatica assertività del divenire, come pure insidiati dalla presunzione - tutta umana - di opporvisi per mezzo del rigore apparente delle leggi e delle convenzioni, quasi ciò bastasse davvero a spezzare la fatalità dolente di una tregua che, nell’immediatezza, nell’irriducibilità di un impeto assecondato non marginalmente per contenere la solitudine, trova la nuda sostanza della propria necessità. In tal senso, immagini e dialoghi quasi mai si sposano o si sopravanzano: anzi, talora si evitano, tenendo impermeabili i rispettivi domini, ossia separando, con la relativa assenza, l’ambizione delle prime dall’intransigenza crudele dei secondi. E le parole, qualora spese, trascinano per lo più detriti di quotidiano senza storia (o con un avvenire sentito sempre come precario o impossibile da modificare), quando non rimproverano apertamente, cercano la presunta legittimazione del pragmatismo o rimandano, sic et simpliciter, a esiti funesti. Anche per tale insistita e compiaciuta cecità, forse, ciò che resta, al compiersi di una furia sommaria da affidare alle acque per annegarne presto anche il ricordo, non può che essere - nelle fattezze della piccola tartaruga che Fauna teneva con sé - l’istinto di sparire alla vista, un ritrarsi muto.
TFK

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