mercoledì, ottobre 24, 2012

On the Road

On the Road
di Walter Salles (Stati Uniti/Francia 2012)


La scrittura è intimamente legata al viaggio. L’atto di prendere una penna e cominciare a scrivere implica di per sé un trasformazione emotiva che doppia in maniera figurata, attraverso il richiamo di un certo stato d’animo, o il ricordo di una particolare esperienza lo spostamento geografico del viaggiatore. D’altronde anche il cinema ha spesso utilizzato l’esplorazione di nuovi territori come metafora di crescita e di nuove consapevolezze. Un binomio che nella percezione di quanti l’anno conosciuto nella pagine del suo libro appare in Jack Kerouac assolutamente indissolubile. E’ con questo carico di aspettative, e sulla scia di un mito capace di arrivare fino a noi dopo essere passato per l’america della guerra fredda e dell’amore libero, che giunge nelle sale la prima versione filmata dell’opera, diretta dal regista brasiliano Walter Salles, un tipo che si era già assunta la responsabilità di portare sullo schermo Che Guevara in versione giovanile (I diari della motocicletta, 2004).


La storia è quella di Sal, scrittore di belle speranze deciso a girare l’America in solitudine oppure accompagnato dall'amicizia di una confraternità in cui si distingue la figura carismatica di Dean Moriarty, cultore della vita e dei suoi piaceri, assaporati in totale libertà, e svincolati da condizionamenti moralistici. Tra notti alcoliche ed amplessi di ogni tipo l’esistenza dei protagonisti assume le forme di una rivoluzione privata ed esistenziale, prefigurando il passaggio di quella linea d’ombra che separa l’età dell’innocenza da quella della consapevolezza e della maturità.

Ambientato negli anni appena successivi al secondo dopoguerra “On the Road” non fa mistero di ambire ad un pubblico giovanile e neofita, affidando il progetto del film al richiamo di una faccia come quella di Kristen Stewart nel ruolo quasi cameo di Marylou, moglie promiscua e vacua di Dean, oltre a quelli meno conosciuti ma efficaci di Sam Riley (Sal) e Garrett Hedlund (Dean). E' molto probabile che sia proprio la voglia di farsi comprendere da una contemporaneità lontana anche dal punto di vista antropologico dal vitalismo con cui i protagonisti cercano di affermare la propria identità, ad appiattire i significati di un opera che è stata il manifesto di un nuovo modo di concepire l'esistenza rispetto al mito del sogno americano.

Con una fotografia che non perde un momento per abbellire l'ambiente con un'iconografia prelevata a piene mani da Edward Hopper, e con la morbidezza di colori (Eric Gautier, già artefice della fotografia di "Into the Wild" diversamente da quest'ultimo un "on the road" perfettamente calato nello spirito del tempo) che appartengono alla nostalgia ed alla memoria, il film di Salles non riesce a storicizzare la vicenda, impedendo ad uno spettatore ormai avvezzo a qualsiasi tipo di trasgressione, di comprendere fino in fondo cosa volesse dire per la borghesia americana dei primi anni 50, condividere gli stessi spazi della gente di colore, ballare la loro musica, parlare di sesso e praticarlo apertamente nella nazione dei Ku Kux Klan e di Doris Day. A questo si aggiungano poi le conseguenze di una regia compassata, fatta di inquadrature in cui tutto appare ordinato e pulito, curato al millimetro per far risaltare la fotogenia degli attori e del paesaggio naturale. Non c'è mai un brivido o un guizzo di vitalità in questo "On the Road" targato Coppola, che produce il film dopo anni di falliti tentativi. Tutto fila a tal punto che anche il broncio assente ed etereo della Stewart, qui alle prese con un topless che non lascia il segno, e la fisicità convenzionale e sfrontata di Garett Hedlund in un ruolo da bello e maledetto, non riescono mai a diventare le fibre di una carne realmente viva.

3 commenti:

Unknown ha detto...

ragazzi venite su nonsoloci.blogspot.it....

tfk ha detto...

La distanza che separa lo spirito della narrativa di Kerouac dalle intenzioni del film di Salles può essere misurata sul terreno accidentato di due sentieri che corrono vicini ma che non finiscono mai per confluire l'uno nell'altro. Da un lato la - per molti versi - inimitabile leggerezza e "ingenuità" delle pagine di Kerouac in grado di mostrare il mondo mano mano che esso viene scoperto riscrivendolo. Ingenuità intesa come capacita di ribadire ad ogni occasione l'inclinazione di un occhio e di un cuore ad una prolungata e strenua meraviglia; uno stupore sincero, avido di conoscere e sentire la realtà percepita come scrigno senza fondo di promesse e di segreti. Dall'altro, l'assenza del contrasto incarnato da quell'"altro" mondo, quello ordinario e soffocante dell'America tra Truman e Eisenhower di fine anni '40, dalla cui ipocrisia e soddisfatta omologazione Kerouac cercava di sottrarsi. La mancanza di una compensazione tra questi due piani su cui insiste la stessa materia, proietta lo sforzo letterario in una dimensione quasi leggendaria, mentre retrocede la prova cinematografica nell'ambito della rappresentazione anodina, in fondo sterile, in cui tutto il potenziale eversivo - e lo era davvero ai tempi - inerente la promiscuità razziale e sessuale, la fascinazione per espressioni culturali tenute a margine o misconosciute, la fruizione senza freni e senza precauzioni di alcol e droghe, la rinnovata certezza di poter ancora una volta coniugare arte e vita, finisce per disinnescarsi nella messa in scena reiterata di banali stereotipi, esattamente ciò che oltre mezzo secolo di esperienza umana ci ha stratificato addosso come una gabbia mentale che e' sempre più difficile eludere. Esattamente ciò contro cui Kerouac si e' sempre ribellato.

Anonimo ha detto...

il libro di Kerouac era un libro che descriveva e faceva sentire, il film di Salles fa solo vedere, ma anche qui, in questa azione dimezzata, risulta fallace a causa di uno sguardo che non si ribella ma adotta le stesse armi di chi le immagini le manipola rendendole commestibili ed innoque..ecco "On the Road" è un film innoquo, non riesce ad entrare in dialettica con l'animo dello spettatore..tutto nel film appare mediato, non diretto, e questo a mio parere è il vero controsenso di un film che mette in scena la perdita delle inibizioni e del controllo..

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