lunedì, dicembre 10, 2012

Itaker - Proibito agli italiani

Itaker
di Toni Trupia
con Francesco Scianna, Michele Placido
Ita, 2012


Dopo essere stati protagonisti in prima persona di un esodo che dagli inizi del Novecento ha visto migliaia di connazionali lasciare l'Italia in cerca di fortuna e di lavoro, negli ultimi trent'anni si è assistito ad un'inversione di tendenza, con i flussi migratori convergenti sui territori della nostra penisola. Un processo naturale e in qualche modo prevedibile, ma comunque capace di risvegliare i ricordi di un trauma da quel momento riconsiderato alla luce di questo inedito accadimento. Un ripensamento che il cinema ha metabolizzato con uno sforzo che, salvo rare eccezioni ("Così ridevano" di Gianni Amelio e "Nuovomondo" di Emanuele Crialese) si è impegnato soprattutto a raccontare le storia dei nuovi "stranieri" e le difficoltà di un' integrazione tutt'altro che scontata. In tal senso, "Itaker" di Toni Trupia rappresenta in questo periodo un corpo anomalo non solo dal punto di vista estetico, con i panni della miseria di nuovo associati a volti ed accenti casalinghi, ma anche contenutistico, nella considerazione che le situazioni del film si riallacciano ad una pubblicistica che aveva avuto il suo massimo fulgore in un cinema d'altri tempi.

"Itaker" (termine usato dai tedeschi in senso dispregiativo per definire la nazionalità dei nostri compatrioti) narra le vicende di Pietro, un bambino di nove anni rimasto improvvisamente orfano, e di Benito, un magliaro dai trascorsi malavitosi, uniti dal viaggio che li sta portando in Germania, una terra promessa dove il primo spera di ritrovare il padre che l'aveva abbandonato, ed in cui il secondo ha intenzione di rifarsi una vita con un'attività finalmente onesta. Una volta arrivati le loro aspettative vengono frustrate dalla durezza della fabbrica in cui Benito lavora, e da una serie di difficoltà che spingono il ragazzo a riallacciare i rapporti con Pantanò, il boss locale per il quale inizia a lavorare nella speranza di realizzare i suoi sogni di gloria.

Giunto al suo secondo film Trupia si confronta con il passato rievocandolo da un punto di vista personale, e all'interno di un racconto che si affida ai personaggi secondari per ricordare le vicissitudini e i sacrifici di chi negli anni Sessanta fu costretto ad immigrare. Una manciata di figure sofferte e sofferenti che sbarcano il lunario lavorando come muli, a cui il lungometraggio concede uno spazio minimo, qualche inserto di breve durata, quel tanto che basta per contestualizzare l'ambiente attorno al quale si muovono Pietro e Benito, su cui invece "Itaker" si concentra. Trupia ce li mostra dapprima attraverso il conflitto che si sviluppa tra di loro, quando Benito è costretto in assenza del genitore ad occuparsi del bambino; successivamente, nell'alleanza sancita con una sequenza di sapore chapliniano, nella quale Pietro finge un pianto disperato e sofferto per intenerire gli acquirenti a cui Pietro sta cercando di piazzare stoffe di seconda qualità. Un sodalizio che si colora di contorni drammatici e persino violenti, quando sulle orme de "Il padrino" (1972) il film cambia strada, assumendo le forme di un "romanzo criminale", per le conseguenze scatenate dal tentativo di Benito di fare le scarpe a Pantanò. Se Trupia è bravo a confrontarsi con un budget limitato, rinunciando all'affresco epocale, sicuramente più costoso, a favore di un contenitore sentimentale e melò, è altrettanto vero che "Itaker" così facendo non riesce ad essere né lo specchio di come eravamo, né una metafora di come siamo diventati. Un'opera spuria che il regista dota di buona compattezza, soprattutto dal punto di vista delle performance recitative, con Francesco Scianna ("Baarìa", 2009) sufficientemente guascone per incarnare la quintessenza del maschio italico, ma penalizzata da orizzonti di tipo televisivo tanto nelle immagini, didascaliche e piatte, quanto nella scrittura, che semplifica le differenze psicologiche ed alimenta il luogo comune. Così se da una parte fanno impressione i rimandi iconografici della fabbrica e degli annessi alloggi, simili in modo inequivocabile alla Germania dei lager e del Terzo Reich, non può non lasciare perplessi il ritratto unidimensionale del popolo tedesco, perennemente imbronciato nelle poche volte che compare sulla scena, o di quello italiano, ridotto ad un coacervo di orgoglio e di passione, con le donne in un modo o nell'altro a fare la differenza tra felicità e disperazione. Offerto ai festival di Roma e di Torino "Itaker" secondo le dichiarazioni rilasciate da Michele Placido, qui anche in veste di produttore, è stato in entrambi i casi rifiutato. In qualche modo ne capiamo le ragioni.

(pubblicata su ondacinema.it)

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