domenica, dicembre 30, 2012

La regola del silenzio

La regola del silenzio
(The company you keep)
regia di: R. Redford

con: R. Redford, S. LaBeouf, R. Jenkins, J. Christie, S. Tucci, S. Sarandon, N. Nolte. C. Cooper - USA 2012 - 125'


recensione di TheFisherKing

- La Storia -

Alla fine dei '60 Robert Kennedy viene ucciso, Nixon subentra a Johnson, l'impasse nel sud-est asiatico si avvita in una spirale sempre più sanguinosa: all'interno di una galassia protestataria vasta e variegata nasce, come costola scissionista degli "Students for a democratic society" - gruppo di sinistra radicale - l'"esperimento" dei Weather Underground, teorizzatori e praticanti di atti dinamitardi a scopo dimostrativo (nelle intenzioni, contro luoghi e cose ma non contro persone) a contrasto delle politiche governative, in specie quelle che indirizzano il conflitto in Vietnam. Questo e' anche il momento in cui si raggiunge il punto critico dell'opposizione movimentista: il crinale su cui il tentativo di cambiamento - illusione venata di sogno - si spezza per sempre e viene sopraffatto da un'altra illusione - stavolta impregnata di disperazione - quella in base alla quale ciò che tarda ad arrivare attraverso la testimonianza e la mediazione può essere ottenuto col tramite di uno scossone violento. In altre parole, l'arca utopico/innovatrice del "cambiare il mondo e' possibile", affonda, negli Stati Uniti come altrove (tra l'altro non sortendo risultati apprezzabili ne' a breve ne' a lunga scadenza, se e' vero che conflitti e diseguaglianze sociali nei decenni si sono inaspriti e che i "ricchi e ricchissimi", come si dice nel film, ossia il famigerato uno per cento di superprivilegiati, sono oggi ancor più facoltosi e influenti di ieri) quando comincia a vorticare il mälström dell'opzione terroristica.

- La Storia e il film -

Sarà che il periodo in questione - fine anni '60, prima meta' dei '70 - e'
stato probabilmente l'ultimo in cui l'Occidente inteso come grande idea di
società, fra tante contraddizioni, ha cercato di ripensare criticamente se
stesso nella convinzione che l'ossatura teorica attorno a cui era cresciuto (il
concetto d'individuo e di libertà individuale; la possibilità/occasione
d'intrapresa economica; la nemmeno tanto strisciante presunzione d'incarnare il
massimo grado di perfettibilità dell'avventura umana) andava producendo
sinistri scricchiolii: pero', nella nuova fatica del liberal USA per eccellenza
- Robert Redford - a dire questo "La regola del silenzio" che, al solito,
maldestramente rende il ben più sibillino e metaforico originale "The company
you keep", non si riesce proprio più a respirare un'aria da futuro-a-portata-di-
mano, nel senso che i quaranta e passa anni che ci separano dai fatti narrati
più che trascorsi sembrano sprofondati di colpo, tanto e' carente la continuità
psicologica (ideale e sentimentale) e quindi la presa emotiva rispetto alla
simile rilettura polemica che proprio il cinema americano aveva avviato a
ridosso dei fermenti più conflittuali della sua società e di cui lo stesso
Redford era stato senza ombra di dubbio una delle figure più rappresentative.
Le osservazioni di Pakula, di Pollack, di Lumet, come quelle più oblique ma non
meno accorte di Penn, di Ritt, riuscivano a restituire oltre alle circostanze e
a personaggi interessanti e credibili, il clima interiore dei tempi, a dire le
impercettibili fratture nel tessuto delle cose e dei rapporti, rivestendo le
loro opere di una sorta di "preveggente disincanto" che li garantiva in egual
misura dall'esaltazione come dal distacco, regalando, negli esiti migliori, uno
sguardo sul mondo al tempo umano, etico e civile. Di tutto questo in "The
company you keep" c'è solo il guscio, l'intenzione nobile, Redford (il suo
corpo invecchiato ma non ancora orfano del celebre carisma) e poco altro, tipo
fornire una boccata d'ossigeno ad un'idea nel tentativo di storicizzarla
obiettivamente e porla al riparo dalle nostalgie consolatorie; ripresentarla
all'attenzione di un mondo feroce e distratto, forse una volta per tutte
deideologizzato.

La vicenda dei cosiddetti "Weathermen" (debitori del nome da un verso del
brano di Dylan del '65, "Subterranean homesick blues", che recita: "You don't
need a weatherman to know which way the wind blows", più o meno: "Non ti serve
un meteorologo per capire che aria tira"), attivi all'incirca fino al '76,
s'inserisce in una più ampia transizione - entro cui convivono delusione,
stanchezza, rabbia, senso d'impotenza - che avrebbe giocato un ruolo non
secondario, con l'esaurimento della spinta ideale e lo stemperarsi o la
difficoltà a reindirizzarsi dell'entusiasmo giovanile, nell'affermazione della
risacca conformista degli anni '80. Nella finzione/ricostruzione uno di loro,
Jim Grant (Redford), reinseritosi semiclandestinamente nel tessuto sociale, di
professione avvocato, vedovo con ragazzina a carico ma soprattutto con
un'accusa ancora pendente di rapina a mano armata e omicidio, per via delle
ricerche avviate da un reporter ficcanaso di un piccolo giornale locale, Ben
Shepard (LaBeouf), e' costretto a mollare il tranquillo tran tran ormai
considerato certezza e a rimettersi sulle tracce del proprio passato - che,
come insegna Faulkner, "non e' mai del tutto passato" - riannodando per
necessita' antiche frequentazioni, lottando contro il tempo e i segugi dell'FBI
per rintracciare l'unica persona in grado di dimostrare la sua innocenza. Se
gli attori, misurati e precisi al punto da sembrare più gente chiamata a
rivivere esperienze personali che professionisti della recitazione (a tutto
svantaggio - absit iniuria verbo - delle nuove leve, a dire soprattutto di uno
come LaBeouf, a cui neanche il cote' da giornalista d'inchiesta riesce a
fornire panni meno incolore di quelli del petulante tampinatore) aggiungono
fascino e credibilità, e' il meccanismo in cui essi vengono calati, la
struttura che dovrebbe tenere insieme gesti, espressioni e parole, a latitare:
la fuga di Redford, ad esempio, ora trafelata ora come in credito col tempo,
non ha la scansione di una caccia all'ultimo respiro ma più quella - esiziale
per il ritmo - di un pellegrinaggio forzato, ad ogni stazione del quale si
rievocano/riepilogano con accenti più perplessi che dolorosi, più infastiditi
che partecipi, luoghi e persone come fossero oramai null'altro che forme e
fantasmi, in sequenze e inquadrature spesso pericolosamente in bilico sulla
piattezza televisiva, un po' History channel, un po' "procedural".
Significative di questa "difficoltà" di fondo sono pure le parole pronunciate
dalla Sarandon durante il suo iniziale colloquio con LaBeouf ("Abbiamo
sbagliato ma avevamo ragione", che suona più come una sorta di fuga in avanti
fuori tempo massimo che come un'amara constatazione dei fatti); o quelle
rivolte in extremis dalla Christie a Redford quando se lo trova davanti dopo
decenni ("Come sei invecchiato", a denunciare involontariamente la lontananza
spirituale, se possibile ancor meno colmabile di quella cronologica, da tutto
ciò che non si può più sul serio vivere ancora). Allo stesso modo, la parte
relativa al lavoro d'investigazione giornalistica (a cui viene giustapposta, e
con la stessa rapidità negato ogni esito significativo, una storia sentimentale
da un lato e un segreto a lungo sepolto dall'altro) non ha l'urgenza di verità,
la veemenza e anche lo slancio e l'ingenuità dei prototipi a cui vorrebbe
rifarsi (e qui le spalle non ancora larghe di LaBeouf su cui si dovrebbe
caricare l'onere del passaggio di consegne tra generazioni caro alla poetica
redfordiana, hanno poco da rimproverarsi): e' al contrario utilizzata come mero
espediente da contrapporre alla linea più (presunta) "action" della trama.
Così, "The company you keep" propugna intenti lodevoli ma non ha la forza di
rendercene partecipi. Ci fa assistere all'azzardo di mettere le mani
sull'orologio della Storia ma non consente un coinvolgimento immediato e
sincero. Quando l'elicottero dell'FBI fa la sua entrata in scena rievocando col
suo frullare i rotori di quelli che riversavano truppe in Vietnam, forse
un'epoca si chiude davvero e per sempre. Cosa resta ? Magari la cosa più bella
del film: il "Condor" che torna a casa. Ad aspettarlo non più la CIA, non la
Rivoluzione ma una persona da crescere e da amare.

TheFisherKing

1 commento:

nickoftime ha detto...

girato con una banalità da prodotto televisivo di qualche anno fa, ma sotto questo punto di vista il linguaggio cinematografico di Redford dopo il promettente esodio ha sempre mostrato una certa tracotanza verso qualsiasi foirma di evoluzione, "Le regole del silenzio" si dimostra sorpassato quando mostra apertamente la sua natura di "film con messaggio", continuamente pronto a salire sul leggio per fare una lezione di storia confezionata come un bignami per le nuove generazioni..parlare del passato fa bene, è addirittura salutare, ma farlo nel modo in cui lo fa Redford significa banalizzarlo, rendendolo inutile..