mercoledì, marzo 01, 2017

AGONIA DELL'IMMAGINARIO II: L'ETERNO RITORNO DI STAR WARS




Pur continuando a considerare il Cinema come una tra le più accessoriate camere di decompressione dellimmaginario collettivo, è difficile negare il suo dibattersi all’interno di quella cattività denominata eterno ritorno, qui nella forma di riproposizione sistematica non solo di temi e scenari ma di itinerari narrativi, di snodi, di soluzioni, anche le più elementari. Va mostrandosi, in altre parole, e quasi nelle forme dell'agnizione unanime di un destino, la trama sotterranea che - ed è un paradosso solo in apparenza - sostenta e depaupera insieme l'enorme involucro di figure/immagini/informazioni che la perspicacia pragmatica della velocità e del consumo, non a caso, ha indicato con il termine di industria culturale. Ossia, e per restare ad uno dei suoi tratti più macroscopici (e sinistri), quella tendenza, invalsa peraltro da decenni, che tentiamo qui di approssimare con l'espressione impossibilità della meraviglia e che coinvolge, tra i tanti eventuali esempi, la stessa monumentalità di un'operazione dell'ingegno che si protrae oramai da quasi otto lustri ("Star Wars, a new hope", retrodata al 1977), rendendo non peregrina la questione se, ai nostri giorni, la meraviglia, giardino segreto dellimmaginario sia, a conti fatti, ancora esperibile.



Senza dubbio, il baratto di quote d'immaginario operato nel tempo (come pure nello spazio: pensiamo, tra le tante, alla relativa uniformità strutturale assunta dagli aggregati metropolitani in giro per il mondo, intravista già nella sua deriva replicante da un visionario lucido come Ballard) in ossequio ad uno stillicidio basato tanto sull’omogeneità quanto sulla ripetizione su scala vastissima di un determinato numero di linee guida, inclinazione che non ha risparmiato paesi diversi per tradizioni, usi e costumi dall’Occidente, via via uniformatisi a questa sorta di prassi irresistibile, pagandone non trascurabili pegni - e in base al quale l'ambiente tecnico, ciò che ci circonda/in cui siamo immersi fino a farne il riferimento e il regolatore unico di tutti gli altri (nonché l'orizzonte ultimo in cui qualunque cosa può ambire a darsi, ossia funzionare-per-uno-scopo, acquisendo per tale via - e solo per essa - un senso), motu proprio, si sarebbe incaricato non solo di reiterarlo, quell'immaginario, sottraendolo alla mistificazione di se stesso nell'impasse di mera sommatoria d’immagini, ma pure di rinnovarlo, in una perpetua delega-in-bianco sulla scelta del mastice delle architetture del profondo proprie di un pubblico addomesticato ad essere (e rimanere) medio, ossia latamente giovane, di fondo aperto ma spesso superficiale, incline agli entusiasmi repentini, come in Sindrome di Stoccolma con la noia, versatile eppure a proprio agio con l'apatia, et. - ha contribuito all'erosione della disposizione alla meraviglia al punto da rendere il relativo ottimismo circa una sua momentanea, per quanto lunga, eclisse e la resa ad una sua irrecuperabile impossibilità, argomentazioni grossomodo sovrapponibili, facce quasi identiche di una moneta, come che sia, dall’avventurosa spendibilità.



In un contesto del genere, la saga di "Star Wars" - uguale osservazione vale, restando nel comparto del fantastico, per quelle di "Star Trek", di "Hunger games", di "Harry Potter” (quantunque le ultime due risolte o sul punto di esserlo) , et. - crocevia in cui confluiscono, a volte un po' alla rinfusa, altre con accorto sincretismo, ascendenze e rielaborazioni molteplici (dal ciclo bretone/arturiano a quello degli eroi nordici; da echi di frugalità shaolin a stilizzazioni e ritualità nipponiche, giù giù fino a semi-caricaturali allusioni naziste; da bandoli shakespeariani a dicotomie dantesche: dal fumetto, alla narrativa sci-fi d'appendice, et.), torna ogni volta, di fatto e senza requie, sui propri passi, persino con recuperati ardori semi-analogici (relitti di astronavi conficcati in biondissime dune immote si stagliano sotto cieli d'un azzurrità ialina; possenti esplosioni alla-vecchia-maniera intercalano gli eventi: e ferraglia, cavi, nastri adesivi, sempre in bell'evidenza...) in aggiunta a quelli (auto)citazionisti, sottraendosi, inoltre e in parte, all’evenienza di giovarsi, scommettendoci sopra, di quegli strumenti di costruzione/riproduzione dell'immaginario da tempo coestensivi al quotidiano e, allo stato attuale dei fatti, leve da tenere giocoforza in considerazione [teniamo a mente e solo per fare qualche esempio, le suggestioni, le implicazioni e le potenzialità evocate da lavori, diversi per estro ed esiti, come ”Source code” di D.Jones, “Under the skin” di J.Glazer, “I origins” di M.Cahill, “Ex machina di A.Garland. O, stringendo sull’attualità recente, “Morgan”, del figlio d’arte L.Scott, “Sense 8”, vicenda seriale di legami immateriali a grandi distanze in un mondo in cui la connessione globale lascia trasparire oramai pieghe trascendenti, a cura delle sorelle Wachowski, nonché la fede ribadita nelle prerogative del racconto come tramite utile alla definizione di mappe interiori alternative per percorsi di consapevolezza, consolazione e redenzione nella (unica ?) stagione di “The OA” del duo Z.Batmanglij/B.Marling]. 

Torna/ritorna, quindi, la galassia oramai quasi vicina-vicina della recente ditta Lucas/Abrams, con intento fatalmente retrospettivo, mantenendosi, per usare una felice espressione, ben al di qua del margine argentato delle nuvole, adagiandosi a volte, cioè, nel cul de sac di un immaginario, il nostro (ricordiamolo, a tutti gli effetti, oggi come oggi, globale) che non solo si limita a sedimentare orizzontalmente strati di sé; non solo si rimira come modello guida (leggi: superiore) e da imitare (leggi: ri-proporre, ri-ciclare, ri-vendere) ma è, manco a ripeterlo, sempre rivolto all'indietro. Per dire: si riprende e si tara il baricentro dei filoni narrativi sulla ricerca di Luke Skywalker, autoesiliatosi in un remoto recesso dei cieli - forse, chissà, lui sì conscio dell'aporia implicita in una condizione che cristallizza, un ciclo via l'altro, il passaggio dell'immaginario moderno da patrimonio fruttifero a trappola in comune, verso lo smarrimento, il naufragio dell'identità indicato anche, nonostante sfumature ulteriori, dalla francofonia di Sokurov - Protagonisti e comprimari (buona parte dei secondi di palese modestia empatica) si acconciano subito deferenti/impotenti a ripercorrere sentieri mai stati così poco selvaggi di un corpus di luoghi, di destini, di contrasti, di amori e di odii di cui essi - e noi con loro - sono/siamo al tempo emissari, testimoni ed ostaggi. 

Tanto, a tal proposito, è con coerenza struggente, perché presago della fine in forma del compimento di una parabola emblematica (sempre al netto, notiamolo anche qui di sfuggita, di strategiche resurrezioni) il nostos di Han Solo/H.Ford a casa, nelle sembianze della Principessa/Generale Leia/C.Fisher ("In fondo, non è stato così male", le dice, riassumendo e suggellando il legame delle loro esistenze), allo stesso modo ed in pacifico controsenso, risulta grossolanamente legnoso e, nonostante lo stato d'abbozzo, poco promettente, l'investimento futuro tra Rey/D.Ridley e Finn/J.Boyega, sulla scorta di un imprinting immaginativo che, marcusianamente, "al di sotto della sua ovvia dinamica di superficie... è completamente statico" (per non dire inerte), ovvero in linea nemmeno tanto riveduta e corretta alle coordinate circa quaranta anni fa segnate e, da allora, indefessamente ricalcate e nei confronti delle quali le supreme ragioni del profitto hanno con l'avvicendarsi dei capitoli giocato il ruolo - talmente era diventato spropositato il loro peso remunerativo ("Star Wars, ep. VII" a qualche manciata di giorni dalla sua uscita già levitava nella stratosfera del miliardo di dollari drenato alle aspettative planetarie) - di ulteriore tirannico fattore inibitorio nei confronti della predetta disposizione alla meraviglia, con le prevedibili ricadute negative sullo stato-dell'immaginario.


Avvince, allora, il lasciar strada al pensiero per cui il miglior modo di trarre ancora nutrimento da un immaginarioagonizzante perché saturo, è quello di disfarsene mano mano, disperdendo tra le sanie in primis la deprimente e sempre più diffusa categoria del credevo peggio (a cui, più o meno unanimemente e tacitamente, è stata accostata l’opera in questione). E se - ma è banale - affidarsi a quella che sembra - ed in parte è - una metanoia ad oggi ben interrata nel campo dell'improbabile, passa per esercizio sterile, per di più ancor oggi contraddetto dai numeri, è pur vero che, oltre alla rinnovata follia di pretendere più da noi stessi al fine di porre le premesse per inaugurare un vortice virtuoso che coinvolga esponenzialmente le coscienze, c'è solo l'insidiosa razionalità tecnica e la sua inesorabile capacità di affastellare orizzonti materiali. Sarebbe, cioè, il caso di soffermarcisi, a questo bivio. Un po', almeno. E che - per una volta - niente sia con noi.
TFK

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