martedì, dicembre 05, 2017

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Transformers - L’ultimo cavaliere
di,Micheal Bay
con, Mark Wahlberg, Anthony Hopkins, Josh Duhamel, Laura Haddock, Isabela Moner, Stanley Tucci, John Turturro
USA 2017 
genere, durata, 150’


Il personale universo cinematico di Bay trova, nell’idea di portare sugli schermi il ciclo dedicato ai guerrieri metallici della Hasbro, sintesi espressiva e ragione estetica in tenace (preveggente ?) aderenza con tempi assediati dalla propria stessa accelerazione e di fatto poco avvezzi alle analisi e al ripensamento critico come, per contro, inclini a un insistito rapporto ludico-mercantile con la realtà. Tutto ciò indipendentemente (o a scapito ma è materia opinabile) della coerenza logica e narrativa delle storie (già di suo, a ben vedere,drenata dal contesto fantascientifico-futuribile). Da qui la prevalenza d’un Cinema-per-le-masse serrato e eccessivo (nei ritmi, nei colori, nei suoni, nelle proporzioni), che l’autore allestisce tipo menù al tempo abbondante e calorico con la perversione divertita ma lucida d’uno chef scaltro che agevola l’ennesimo sgarro a un dieta fatta oramai perlopiù di passività indotte e automatismi irriflessi, stante la differenza che il servizio non s’esaurisce con la mera messinscena d’una tavola luculliana per convincimento alla portata di tutti ma spinge, film dopo film, tanto lo schematismo di personaggi e circostanze semplificati fino allo status d’archetipi d’immediata fruibilità, quanto l’invalsa apatia percettiva contemporanea, sollecitandoli sempre un po’ oltre il limite sensoriale della propria consuetudine, obbligando, cioè, sia il primo che la seconda, a una costante ridefinizione dei modelli d’immedesimazione (a dire, di partecipazione emotiva e di comprensione), pena l’esclusione dallo spettacolo.


Parossismo il predetto che, con una sua compassata e inedita fluidità, giunge a saturazione (e a compimento) nel corpus di questo quinto capitolo della saga - tassello di respiro quasi classico in una generale rutilanza - che pare avere trovato un qual equilibrio tra le frenesie monumentali della tirannide digitale, il passo più cadenzato dell’anabasi intrapresa per riequilibrare i destini del pianeta e l’incedere spensierato tra influenze slapstick e umorismo da sit-com maramalda (“Mio padre dice: sparagli. Poi Dio provvederà”), su un comune sfondo epico-avventuroso vieppiù accentuato. Non a caso una delle svolte nello scontro tra sapiens e Decepticon - il lato malvagio e predatore della genìa meccanica proveniente dall’eso-pianeta morente Cybertron e animato da Megatron, dai suoi seguaci e dalla spietata regina/dea Quintessa - viene retrodatata e collocata in una dimensione mistico-favolistica, detta Dark Age, nel V secolo d.C., allorché Re Artù con i suoi paladini e l’apporto decisivo del magico Bastone della Creazione affidato a Merlino (ritratto ironicamente come un pavido ciarlatano ubriacone) riesce a respingere le pretese conquistatrici dei Sassoni (i 12 Custodi transformers del Bastone prendono forma di drago alato e rovesciano le sorti della contesa). Indicativo di tale convergenza tra spinte intra e extra umane è il ruolo via via dirimente - perché fatale - assunto da Cade Yeager/Wahlberg, inventore (“Sono un inventore”/“Ah un inventore. E cosa hai inventato ?”/“Un sacco di cose”/“Tipo ?”/“Tipo un sacco di cose che sicuramente hai sentito”/“Tipo ?/“Belle cose che sicuramente sentirai. Brevetti in corso… Ehi, sono venuto qui per farmi insultare da una principessa iper-istruita vestita da spogliarellista ?” - estratto di dialogo tra Cade Yeager/Wahlberg e Vivian Wembley/Haddock -), artigiano provetto istintivamente attratto dal funzionamento dei meccanismi, dal loro continuo intrecciarsi con l’elemento biologico, dalle loro patologie, nell’episodio precedente eroe ancora riluttante all’interno d’un conflitto che non sembra appartenergli, fin quando gl’intrighi dell’autorità (pressoché sovrapponibile a un super-corpo dei Marines denominato TRF, Forza di Reazione Multinazionale) e un’urgenza superiore non ne minano il precario equilibrio familiare.


Da qui, infatti - ed è uno degli aspetti più rilevanti del film - Yeager emerge, con sempre maggior evidenza e andando a integrare d’una componente simbolica la primaria efficacia dinamica delle immagini, sia come contraltare positivo alle istanze distruttrici del Male (quindi come magnete materiale e ideale delle volontà che vi si oppongono), sia, e più significativamente, come originale anello di congiunzione tra due universi, quello carnale e quello metallico, di fatto pronti a considerare plausibile e prossima la trans-formazione/ibridazione dell’uno nell’altro in una prospettiva ancor più radicale (Yeager verifica su di sé la compatibilità fisica d’un antico talismano composto da una lega metallica senziente) di quella già alternativa rappresentata da un’ipotesi di famiglia allargata costituita intorno al protagonista da individui inadatti o scartati a vario titolo dal consesso sociale e dalla parte più illuminata delle schiere robotiche, ventilando una sorta d’intrigante nuova consapevolezza-dal-basso (“Chiunque può essere un eroe. Basta volerci provare”) da utilizzare a mo’ d’espediente d’ultima istanza contro le prevaricazioni future. Eventualità che Bay ribadisce anche tra la filigrana di prammatica satura di quest’opera, rovesciando a modo suo e per ciò che gli compete il più freddo e cupo assunto di reminiscenza cronenberghiana circa le sorti dell’uomo in un mondo quasi del tutto artificiale, secondo gli estri ingenui e gli strappi dissacratori d’un impertinente ottimismo mutante aperto alla più imprevedibile delle fratellanze.
TFK

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