mercoledì, dicembre 20, 2017

IL RACCONTO DI UN MONDO SENZA PIETA': INTERVISTA A FABIO MARTINA REGISTA DE L'ASSOLUTO PRESENTE



Il titolo del film nel circoscrivere l’esperienza umana al momento presente allude alla dimensione esistenziale dei protagonisti, al vuoto che impedisce loro di collocare ciò che fanno in una prospettiva che non sia quella contingente.
Il titolo è tratto da una frase che Umberto Galimberti aveva pronunciato nel corso di un’intervista che rientrava all’interno del materiale raccolto nel percorso di gestazione del film. Tra le altre cose Galimberti diceva che i giovani vivono in un assoluto presente, disinteressati sia del passato che del futuro. Riguardando il video tape di quell’incontro, ci siamo resi conto che queste tre parole coglievano in maniera esatta ciò di cui volevamo parlare nel nostro film e cioè la condizione esistenziale dei giovani d’oggi e anche di noi stessi.

L’affermazione di Galimberti è in qualche modo in contrasto con molte discipline new age che invece esortano a concentrarsi solo sul presente per liberarsi dall’ansia e migliorare le proprie performance.
Infatti è un gioco a più livelli che abbiamo scelto proprio perché il concetto si presta a una duplice interpretazione, negativa o positiva a seconda dei punti di vista. In quest’ultimo caso la frase ha un’accezione costruttiva che è appunto quella di cogliere l’attimo e di viverlo intensamente. A noi invece interessava il primo aspetto, quello negativo, poiché volevamo raccontare una condizione esistenziale a cui stiamo assistendo e che va avanti da circa una ventina d’anni in Italia e non solo. Una dimensione in cui noi tutti siamo inseriti e nella quale  a mancare non è solo una proiezione verso il futuro ma anche la memoria di ciò che siamo stati. Detto questo, aggiungo che in qualche modo il film ha assecondato l’ambiguità evocata dal titolo.


Se ci pensi la narrazione del cinema contemporaneo, con personaggi raccontati solo al presente e per questo privi di una profondità anche biografica, rimanda continuamente alla condizione vissuta dai tuoi protagonisti.
Sono d’accordo. Se vogliamo fare dei nomi penso a Gus Van Sant e al Michael Haneke de Il nastro bianco in cui viene raccontato il momento precedente allo scoppio della prima guerra mondiale e, in particolare, il clima di cattiveria in cui la mancanza di valori religiosi e persino d’amicizia tra bambini porta all’esplosione del conflitto bellico. Ecco: io mi colloco un po’ in questo tipo di cinema europeo perché anche Van Sant pur essendo americano si ispira a Bela Tarr e ad altri cineasti del vecchio continente.

Tu però riesci a fare del tuo titolo un manifesto di ciò che è il tuo film a partire dalla descrizione dei personaggi, raccontati esclusivamente attraverso il loro situazione contingente.

E’ stata una scelta. Volutamente non li abbiamo dotati di una biografia ma ci siamo limitati a guardarli come se fossero parte di un esperimento entomologico dove osserviamo questi piccoli insetti aspettando che succeda qualcosa che sia in grado di farci capire se sono dei mostri oppure no. La risposta è che, ovviamente, non lo sono,  perché ciò che pensano e fanno è il prodotto di ciò che siamo noi. Il film nasceva dall’intento di raccontare il vuoto delle coscienze prodotto da anni di dilagante capitalismo. Un concetto che riprende Pasolini nella visione di un capitalismo che uccide qualsiasi valore umano.

Nella sequenza che introduce i titoli di testa racconti la violenza con una cura estetica che la rende quasi astratta. Era questo un modo di anticipare l’orizzonte amorale dei personaggi
Mi fa piacere che tu me lo abbia detto perché sei il primo ad averlo notato. Si, era esattamente così. Mi interessava fare in modo che quella violenza non fosse ostentata. Non volevo che fosse una brutalità fisica ma che fosse percepita in modo da permettere allo spettatore di entrare in questo mondo che, come tu dici, è amorale, ossia caratterizzato da un vuoto che non è materiale ma emotivo. Nella sequenza in questione il carrello e la camera a piombo mi sono serviti per  raggiungere l’astrazione capace di ricrearlo.

Anche il pavimento, con i disegni a mosaico, va in questa direzione.
Il pavimento non lo abbiamo scelto a caso perché la forma a mosaico che vi è disegnata serviva per evidenziare una frammentarietà ricercata anche nel montaggio del film.

A proposito di montaggio, nel tuo film la narrazione assume le forme di un flusso che si muove su diversi piani temporali. Era questo un modo per rappresentare il deragliamento psichico dei personaggi.
Si, la discontinuità mi serviva per spezzare la cronologia del tempo narrativo e immergere i personaggi in un tempo coscienziale. Il film è anche un tentativo di entrare dentro l’interiorità dei tre protagonisti per mostrare esattamente quello che sono, ciò che pensano. La sfida è arrivare a conoscere perché l’hanno fatto, cosa li ha spinti ad assalire il giovane, lasciandolo a terra morente. E’ questa la traccia e allo stesso il motivo trainante di tutto il film. La frammentarietà rispecchia anche un certo tipo di modernità propria del cinema contemporaneo ma ha anche una valenza narrativa, derivata dal fatto che se uno si macchia di determinati comportamenti percepisce il tempo in maniera differente dalle altre persone.

La precisione geometrica delle linee architettoniche e la predominanza di superfici riflettenti comunicano una bellezza fredda e asettica. Anche qui mi è sembrato che la messinscena voglia riflettere il vuoto esistenziale dei personaggi.
Si, abbiamo lavorato in questa direzione. Gli ambienti dovevano essere il più possibile spogli e privi di oggetti, per riprodurre visivamente il vuoto morale dei personaggi. Tra l’altro, non avendo un budget molto alto, questa procedura è risultata molto adatta alle nostre economie. Con il direttore della fotografia Giorgio Carella ci siamo concentrati molto sul bianco che rappresenta un po’ il colore de “L’assoluto presente”. Anche se l’inizio è caratterizzato da luci notturne e dai colori del neon, il bianco rimane dominante. Una tonalità che ritroviamo nella sequenza finale, con l’assoluto presente incarnato dal vero protagonista del film che, in quanto fotografo, è immerso nel bianco del suo studio. Associare questo colore al personaggio in questione mi ha permesso di aggiungere un surplus di senso all’azione più cattiva di tutte, quella in cui il ragazzo strappa il disegno del suo interlocutore. Non è un caso che sia lui a essere  protagonista della scena centrale del film e di quella conclusiva in cui il pianto finale ne testimonia la consapevolezza di aver commesso una mostruosità, di aver prodotto il niente attorno a sé.

L’inizio del film è molto alla Michael Mann, con lo skyline notturno della città e il suv che lo attraversa nel silenzio più assoluto.
Il film è collocato a Milano in un preciso momento della sua storia, quello in cui la metropoli si stava estendendo verso l’alto. Da qui, per esempio, la scena in cui si ritrovano a parlare al 39mo piano e anche il motivo per cui inquadro spesso i grattacieli. I milanesi si ricordano come nel 2008/2009 la città crescesse verso l’alto, con grattacieli che spuntavano da ogni dove mentre ci si chiedeva dove stesse andando la città e dove i suoi cittadini. Il film è la descrizione di un momento storico che abbiamo vissuto e insieme la fotografia degli anni berlusconiani in cui il presidente del Milan diceva pubblicamente in televisione che le donne dovevano sposare uomini ricchi. Anche se lo abbiamo vissuto, non l’ho mai visto raccontare con lucidità. Penso che questo film tenti di farlo in modo interessante e coraggioso.

Volendo semplificare, dico che il tuo film conferma una differenza che esiste tra il cinema milanese e quello romano. Il primo è ambientato all’interno della città e in quella city che ne costituisce il centro – penso per esempio a Il mio domani di Marina Spada – mentre il secondo è più limitrofo, spesso chiuso all’interno delle borgate. Sei d’accordo con questa definizione.
Si, sono d’accordo. La collocazione della storia nel centro della città va in direzione opposta a quella di tanto cinema realistico e a un tipo di cinema lontano dalla maggior parte del pubblico. Se uno ci pensa lo spettatore medio vive all’interno della città. Quando vado all’Anteo vedo molti film che parlano di realtà periferiche, distanti anche geograficamente dal baricentro metropolitano. Io, invece, desideravo raccontare qualcosa che facesse parte del mondo dello spettatore, con problemi che non sono propri della periferia ma relativi agli ambiti in cui viviamo noi. Se la città, nella sua trasformazione, si sta sfaldando dal punto di vista dei valori questo per me è significativo e lo rifletto nello stile. Se hai notato nel Suv ho inserito tre punti di vista, ognuno dei quali corrispondente a uno dei personaggi. In più scelgo di non farli mai vedere insieme all’interno dell’auto, creando una frammentazione capace di rimarcare la separazione esistente tra di loro, corrispondenti a tre inquadrature differenti. La durezza del film per lo spettatore deriva anche dalla vicinanza che esso ha rispetto a ciò che vede.

Molti film anche recenti hanno raccontato una certa gioventù maledetta. Penso a Gioco da ragazze di Matteo Rovere e all’esordio di Andrea De Sica. L’assoluto presente lo fa con dei toni allucinatori e sarcastici che mi hanno fatto venire in mente Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
Questo è sicuramente un film di riferimento. Non l’unico ma certamente un titolo che ho guardato molto. Per onore di cronaca ti devo dire che, oltre ad Haneke, mi sono ispirato al Rossellini di Germania anno zero. Se il finale del film di Rossellini si chiude con il bambino che si butta dal palazzo, qui la tragedia assume l’urlo di dolore di uno dei protagonisti, il quale, dopo aver soppresso le emozioni per tutto il film le lascia venir fuori in tutta la loro tragicità.

Nel pianto della scena finale non c’è consolazione e non si produce alcuna catarsi. Anche negli effetti che ne conseguono. A me la sequenza ha ricordato quella analoga di Vive l’Amour diretto da Tsai Ming-liang.
E’ proprio così, l’opera di Tsai Ming-liang mi è stata d’ispirazione e tu sei il primo che se n’è accorto. Quello è un film dove non c’è consolazione. Con la catarsi, infatti, lo spettatore esce dal cinema dopo aver scaricato il pathos emozionale prodotto dalla storia. Io non volevo che ciò avvenisse perché mi interessava che in mancanza di quella lo spettatore  riflettesse a proposito del tempo che stiamo vivendo. “L’assoluto presente” è volutamente tragico anzi, direi anche, positivo.
Volevo parlare della scelta degli attori: avevi tra le mani un grande interprete come Marco Foschi che pur non lavorando quanto meriterebbe è comunque una faccia conosciuta. In realtà per i ruoli principali hai scelto un cast di attori con facce particolari e fuori dal comune che sono destinate a restare impresse nella mente dello spettatore.

Ti eri accorto che Riccardino (uno dei protagonisti del film) in realtà è interpretato da una donna. Lo avevi capito

Assolutamente no. Avevo qualche sospetto perché durante la visione ero stato attratto dal personaggio ma non credevo che fosse un uomo. Mi viene da chiedere come hai fatto a trovare lei e gli altri, e in che modo avete lavorato sui personaggi.
Per fare questo film ho impiegato dieci anni, in quanto il fatto di produrlo in  proprio ha allungato i tempi necessari a reperire i soldi e scegliere gli attori. Per  trovare gli interpreti giusti ho fatto una ricerca di circa un anno nelle varie scuole di teatro e persino nella carceri, sostituendo il casting con laboratori di recitazione espressiva in cui con gli attori lavoravamo sull’emozione. E’ stato un processo molto lungo, che però mi ha permesso di capire dove stavo andando. In mezzo a quasi cento attori ne ho trovati quattro – perché c’è anche la protagonista femminile – due da Quelli di Grock, due del Piccolo Teatro che sono tra le più importanti scuole di teatro. Con loro ho lavorato intensamente per circa 8 mesi. Inizialmente non sapevano nulla della storia e quasi nulla dei personaggi, perché volevo che si concentrassero solo sulle emozioni. Poi, a due mesi dalle riprese, gli ho spiegato i ruoli e vi ho collocato le emozioni. Una settimana prima hanno letto le sceneggiature ma solo per la  parte che li riguardava: per non fagli sapere dove andasse la storia e cosa avrebbero fatto gli altri personaggi. Questo proprio per chiuderli all’interno del loro mondo e, di conseguenza, per far sì che i conflitti scaturiti dai loro rapporti fossero più autentici possibili. Soprattutto, ho girato in sequenza e non per locations, dando loro la possibilità di vivere la storia.

Nel cinema sappiamo che il tempo è denaro. In questo senso ti volevo chiedere: come hai fatto a conciliare l’esiguità del budget con una preparazione così lunga
Quello fatto per il mio film è un lavoro che non ha business e che non ha motivo di esistere in un sistema mainstream commerciale. L’assoluto presente è a tutti gli effetti espressione della volontà di raccontare qualcosa e di farlo con una disposizione volontaria  che è stata quella mia e di tutti quelli vi hanno collaborato, a cominciare dalla video maker che mi ha seguito durante i laboratori curandone le riprese e che poi è diventata un po’ il mio braccio destro, e continuando poi con gli altri che hanno ricevuto solo il rimborso spese. Tutti però hanno deciso che questo era un lavoro interessante non solo per i contenuti ma anche per la metodologia realizzativa. Mi ricordo che Marco Foschi è venuto nel mio ufficio dicendo che il lavoro che stavo facendo era straordinario e che non lo faceva più nessuno.

Nonostante questo il film è riuscito a trovare una distribuzione e quindi a trovare una sua visibilità.

Il miracolo è che il film esca e che a distribuirlo sia Lo Scrittoio, un gruppo di miei amici che dopo averlo visto hanno deciso meritasse di uscire. Penso che il cinema italiano debba permettere a film come il mio, che usa la via della sperimentazione e che racconta punti di vista diversi sulla realtà, di venire fuori. Se L’assoluto presente servisse da stimolo in questa senso ne sarei felice.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

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