lunedì, dicembre 11, 2017

VITAL

Vital
di Shinya Tsukamoto
con Tadanobu Asano, Nami Tsukamoto, Kiki, Ittoku Kishibe
Giappone, 2004
genere, drammatico
durata, 88'




Come sezionare l’animo umano in ottantasei minuti. "Vital" è essenzialmente una ricerca. Uno studio meticoloso dell’anima, dell’essenza della vita, di quei 21 grammi custoditi in ognuno di noi che ci rendono unici e diversi da qualsiasi altro essere vivente. È un tentativo di mostrare come la vita dovrebbe essere e spesso non è. Tsukamoto narra la storia di Hiroshi, un giovane studente di medicina che in seguito ad un incidente, costato la vita alla fidanzata Ryoko, si trova ad affrontare un amnesia momentanea. In cerca del proprio passato decide di riprendere gli studi. Sarà la dissezione del cadavere della compagna durante le lezioni di anatomia a far riemergere in lui antichi ricordi ma anche qualcosa in più. La dissezione del cadavere diventa infatti parallelamente la dissezione della mente del protagonista, dei suoi ricordi, il suo estremo tentativo di conoscere fino in fondo la persona amata. Tutto è seguito dallo sguardo vigile del regista stesso che non a caso si riserva il ruolo del guardiano dei corpi. 



Più il film va avanti, più la scomposizione si fa minuziosa e più le immagini diventano in realtà la traduzione visiva di una bellezza idilliaca della vita, dell’anima vista dal cineasta. I colori, i luoghi, i suoni, persino Ryoko stessa intenta nella sua danza mai praticata prima si trasformano e assumono un significato ideale, paradossalmente più vivo, più caldo rispetto alla fredda e piovosa vita quotidiana che fa da cornice alla vicenda. Tsukamoto sottolinea questa opposizione grazie ad uno splendido lavoro sulla fotografia e sull’architettura degli spazi. La dicotomia tra il mondo reale e quello metafisico dell’anima diventa un contrasto tra gli opprimenti interni dell’obitorio, delle case e gli splendidi paesaggi naturali delle visioni di Hiroshi, tra l’autolesionismo di Ikumi, il suicidio del giovane professore e l’armonia dei due giovani amanti. Ryoko non è ancora pronta a dissolversi e lo esprime nei suoi movimenti. Il corpo diventa custode di conoscenze che vanno ben al di la della semplice anatomia umana e per questo va analizzato accuratamente. Tsukamoto lo pone al centro del film, non ha paura di mostrarlo nei minimi particolari senza comunque mai scadere nell’orrido ma anzi innalzandolo poeticamente quasi fosse un dipinto di Rembrandt. In questo suo utilizzo della carne, del doppio che indaga se stesso il regista riprende un certo cinema di Cronenberg depurato però da un eccessivo nichilismo e arricchito da una vena di illusione che attraversa tutti i personaggi. Il film non da risposte ma pone pesanti domande su misteri a cui nemmeno l’uomo può togliere dei dubbi. In definitiva Tsukamoto studia Whitman e lo traduce in immagini. “Chiedeva forse qualcuno di vedere l’anima?” (Walt Whitman)

Andrea Ravasi

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