Naboer
di, Pål Sletaune
con, Kristoffer Joner, Cecile Mosli, Julia Schacht, Anna Bache-Wiig, Michael Nyqvist
Norvegia, 2005
genere, drammatica
durata, 75’
I know you’re a real coo coo
- The Breeders -
L’allucinazione del desiderio mista alla rabbia, alla gelosia e a quel vago ma persistente senso di frustrazione e inadeguatezza oramai ingenito alla nostra permanenza all’interno delle infinite circonvoluzioni della modernità, gioca sempre brutti scherzi. Ne sa qualcosa (o, comunque, ne fa le spese) John/Joner, giovane tipo nordico - siamo in Norvegia - all’apparenza tranquillo e riservato, calco incolpevole di mille altri soggetti simili, quando l’amore della vita, Ingrid/Bache-Wiig, decide di porre fine alla relazione che li lega adducendo ambigue eppure verosimili motivazioni ma, soprattutto, non fa mistero di averne a stretto giro già intessuta un’altra con il fantomatico Åke/Nyqvist, a cui, tra l’altro, rivela particolari intimi dei loro trascorsi, “perché noi abbiamo deciso di dirci tutto”. Ciò non bastasse, il Nostro si imbatte (?) in due coetanee, che a seconda delle circostanze si spacciano tanto per amiche che per sorelle - Anne/Mosli e Kim/Schacht - residenti nell’appartamento attiguo al suo e di cui stranamente mai si era accorto prima. Anne e Kim, con fare al contempo insinuante e inquisitivo, danno a intendere di conoscere molti aspetti della vita privata del vicino, non ultimi circostanziati dettagli del fallito ménage con Ingrid. Sconcertato ma irretito dagli atteggiamenti ammiccanti, provocatori e subdolamente aggressivi delle due, John prende a frequentarle…
Nella claustrofobia fisica e metaforica perimetrata sull’angustia kafkaniamente respingente di vecchie dimore-scrigno i cui serpeggianti corridoi interni ingombri di mobilio sempre sul punto di stringersi addosso a chi indugia troppo nelle sue vicinanze o punteggiati di abiti spesso ammucchiati a casaccio sui pavimenti velano/ostentano un malessere assai più profondo del mero disordine e le cui stanze, altresì arredate con la tipica sobrietà un po’ spenta allineata al gusto austero di quelle latitudini - pulite e silenziose come se nessuno le avesse mai davvero vissute - recitano complici l’inganno borghese del decoro e dell’armonia, Sletaune allestisce, passo dopo passo ma con cadenza serrata (“Naboer” dura una settantina di minuti) e una predilezione nervosa per i volti e i gesti senza domani dei suoi protagonisti, il contesto ideale per l’emersione di tutte quelle intenzioni e pulsioni inconfessabili che il senso comune si rifiuta di associare al rifugio per eccellenza - la casa - ma che qui si esaltano (nei cromatismi uniformi e stanchi; nella crescente minaccia rappresentata dagli oggetti ordinari una volta colti in quella sinistra persistenza che ne mina la familiarità; nell’afflizione senza conforto generata dalla stratificazione di ricordi sedimentatasi nell’intimità di un ambiente conosciuto), come perverso riflesso dei labirinti mentali di uomo distrutto dall’empito deviato della propria passione, in un accorto epperò febbrile accostamento, dosaggio e implosione tra il quotidiano e l’incubo del medesimo. Infatti, John che diffida prima, si avvicina poi e infine desidera con violenza Kim, è lo stesso individuo che ne sovrappone/altera/travisa le sembianze su un’immagine di Ingrid appartenente a un ipotetico passato felice e vieppiù si avvita in un intrico di menzogne estemporanee, rimozioni riparatorie e sensi di colpa tardivi che ne decretano il definitivo e traumatico distacco dalla realtà.
Concentrazionario e ansioso, sottilmente misogino quanto avviluppato in una conturbante membrana morbosa di ascendenza polanskiana, “Naboer” gira attorno al suo nucleo di dolore così meschino e così umano in modo magari riconoscibile nelle atmosfere e negli scarti narrativi ma affatto incoerente per ciò che attiene le intenzioni e le scomode risonanze simboliche evocate, denudando via via fino a farne brandelli la coscienza di un individuo-massa metodico e integrato scopertosi suo malgrado inerme di fronte al tentativo di lenire l’inattesa consapevolezza dell’angoscia più grande - lei sì a rimorchio dei tempi - quella di rimanere soli al mondo.
TFK
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