martedì, ottobre 14, 2008

Il matrimonio di Lorna


Due film in uno: nel primo vi sono le certezze e la determinazione della protagonista, un immigrata albanese decisa a sacrificare la sua integrità morale per un bar che vuole aprire insieme al fidanzato. Nulla sembra distorglierla dai suoi propositi, neanche quel marito tossicomane (Jeremie Renier) che ha sposato in cambio di denaro e che presto lascerà al sua esistenza senza futuro. Poi a metà del film, la morte del coniuge, assassinato dai complici (Fabrizio Rongione) di lei fa saltare il banco. E’ un salto netto, vertiginoso, senza preavviso. La ragazza che avevamo conosciuto e forse giudicato non esiste più; Il suo passo è diventato incerto, non lineare, erratico, scandito da traiettorie senza metà ed in sintonia con lo mondo circostante che sembra agevolare questo smarrimento, sostituendo i limiti del contorno urbano e industriale con le aperture e gli spazi aperti della campagna belga.
E’ li che la vediamo per l’ultima volta, sola e delirante, intenta ad accudire un senso di colpa che sembra non lasciarli scampo. Un film disumano se non fosse per quella sequenza centrale, breve ma folgorante, che si inserisce nel solco del prima e dopo della storia: in quella casa che assomiglia ad una camera di albergo si consuma il cuore del film; Lorna (Arta Dobroshi) ha la bellezza di chi torna alla vita e quell’abbraccio all’uomo che l’ha fatta sentire importante con la verità del suo dolore, ha lo slancio di chi ama davvero. La religione dei fratelli Dardenne è tutta lì, in quella fusione di corpi chè è condivisione di umanità, in cui le differenze ci avvicinano a chi ci sta di fronte. Tutto il resto, anche in questo film, è "noumeno".

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