L’Amant Double
di François Ozon,
con Marine Vacth, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset
Francia, 2017
genere drammatico, thriller
durata 110’
François Ozon è un regista poliedrico che ama cambiare registro stilistico le cui tappe, nella sua ormai lunga filmografia, vanno dalle commedie (Ricky, Potiche) ai film in costume (Angel, Frantz), dai drammi (Sotto la sabbia, Il rifugio, CinquePerDue - Frammenti di vita amorosa) fino al thriller (Amanti Criminali, Swimming Pool, 8 donne e un mistero). Accomunano queste opere la ricerca del gusto per il pastiche, le svolte psicologiche improvvise, una messa in quadro classica, la cura dell’immagine pulita ma mai patinata, utilizzando la saturazione e la desaturazione dei colori secondo l’impronta emotiva della specifica pellicola.
L’Amant Double, ultimo suo lavoro in ordine di tempo, è un thriller claustrofobico, un duetto tra la Chloé (Marine Vatch, già vista in Giovane e bella) una ragazza problematica che si innamora del suo psichiatra il dottor Paul, per poi scoprire che ha un fratello gemello omozigote Louis (interpretati da Jérémie Renier, attore feticcio dei fratelli Dardenne) dalla personalità perversa.
Opera di chiara influenza hitckockiana nell’impostazione della messa in scena, L’Amant Double può essere una felice sintesi de Le due sorelle di Brian De Palma e Inseparabili di David Cronenberg con cui ha molti punti in comune, non solo per il tema affrontato – i gemelli come divisione della personalità, la metamorfosi psichica che tracima nell’assimilazione della carne – ma anche per alcune sequenze: come la scena in cui Chloé fa l’amore con i due fratelli e il suo corpo si sdoppia, in una rappresentazione onirica in cui la mente influenza l’esteriorità dei corpi; oppure, quando la ragazza si trova di fronte una se stessa ammalata e silente nella casa di Madame Schenker (Jacqueline Bisset), vecchia fiamma dei due fratelli . Alla fine, si può anche citare un’altra pellicola con cui ha elementi di contatto come La metà oscura di George Romero, dove il “fratello” gemello è stato cannibalizzato all’interno dell’altro.
Senza andare oltre, lo spettatore comprende la complessità tematica dell’opera di Ozon che riesce, con scarti della macchina da presa, a inquadrare la protagonista in molti primi piani con controcampi su specchi e finestre, moltiplicatori della sua immagine. Chloé si raddoppia nel volto di Paul/Louis, in un gioco labirintico del montaggio che confonde, mischia i punti di vista. La soggettività scopica della ragazza si scompone, attuando un transfert della sua situazione nei confronti del proprio analista.
L’incipit è un primo piano di Chloé su sfondo neutro mentre mane anonime le tagliano i lunghi capelli liberando uno sguardo spento e fisso sullo spettatore che diventa anch’egli “doppio” del personaggio, rendendo partecipe il pubblico della mutazione allucinogena della protagonista, immergendolo immediatamente nell’atmosfera misteriosa di L’Amant Double.
Il regista francese effettua un esercizio di stile postmoderno, costruendo un vero e proprio mélange citazionistico, ribaltando continuamente ruoli e punti di vista, in un accumulo di inquadrature all’interno di spazi dalle scenografie algide e fredde. In un’atmosfera ospedaliera, dove la macchina da presa diventa un bisturi nella mano di Ozon, vero e proprio mad doctor onnisciente, che taglia in profondità la visione: l’immagine è delimitata da precisi raccordi tra sguardi e corpi che si scindono e si riproducono come frame-cellule impazzite. Così come L’Amant Double, corpo-film estraneo, abortito, assimilato, moltiplicato, ritorna a essere unico dopo la sua totale visione. E il titolo non rappresenta solo la messa in scena di un amore malato, ma l’”amante doppio” metaforicamente è anche il cinema stesso, in un rapporto gemellare tra regista e lo spettatore attraverso il corpo filmico.
L’Amant Double risulta così una pellicola disturbante, un’opera che tratta in modo originale temi e stilemi (ri)conosciuti, rendendo complice la visione dell’autore e di chi la osserva. E alla fine, come la protagonista, ci si sente svuotati e compiuti nello stesso momento, specchiati nell’ultima inquadratura. Come vedere se stessi nella profondità dello sguardo della macchina da presa.
Antonio Pettierre
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