Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc
di, Bruno Dumont
con, Lise Leplat Prudhomme, Jeanne Voisin, Lucile Gauthier, Victoria Lefebvre, Aline Charles, Elise Charles
Francia, 2017
durata, 105’
Francia, 2017
durata, 105’
Things they do look awful c-cold
Talkin’ ‘bout my generation
I hope I die before I get old
Talkin’ ‘bout my generation
- The Who -
E’ possibile contrastare i cupi presagi evocati dalla quotidianità con un atteggiamento che sia allo stesso tempo improntato alla leggerezza e intriso di una sorta di disponibilità originaria, di apertura passionale, ossia di una prossimità schietta, non mediata, con il corpo naturale del mondo e quello sociale degli uomini ? Forse sì. Almeno a giudicare dalla traiettoria disegnata dall’ultimo Cinema di un autore come Dumont - da sempre latore di una riflessione tenace quanto tormentata circa le parimenti scivolose ambiguità che individuano il rapporto tra la componente materiale dell’esistenza e gl’indizi che per contro ne adombrano un’ipotesi di trascendenza - che, almeno da “P’tit Quinquin” in poi, ha riservato segmenti sempre più ampi del proprio tragitto alla cura di un’impertinente irrequietezza, scanzonata e paradossale, ilare e disarmata, l’intento apparente, comunque coraggioso e antagonista, di distillare un antidoto alla crassa mestizia dei tempi.
Prova ne è anche questo recente “Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc”, centrato, tenendo presente Le mystère de la charitè de Jeanne d’Arc (1910) di Peguy, sui trascorsi immediatamente antecedenti la prodigiosa ascesa nelle urgenze della Storia da parte di quella che sarebbe diventata la più celebre delle pulzelle. A partire dall’estate del 1425 (nell’imminenza, cioè, del tragico assedio di Orlèans, una decina d’anni dopo la disfatta di Azincourt e concedendosi la libertà di sfasare di qualche anno l’anagrafe del personaggio storico con quella della protagonista chiamata in prima battuta a interpretarlo), Dumont coglie la piccola Jeanne - ancora detta Jeannette, prima che l’arcangelo Michele in persona ne esiga la precoce entrata nell’età adulta sopprimendo il colloquiale vezzeggiativo - una strepitosa Leplat Prudhomme (basta guatarne lo sguardo tanto stupito quanto vigile per sincerarsene), tra dune di sabbia intervallate dalla macchia e da rigagnoli sullo sfondo d’un cielo chiaro e per lo più limpido che annuncia in lontananza il mare, interrogarsi, sola o assieme alla coetanea Hauviette/Gauthier a 8 anni, Lefebvre a 13, circa i tristi destini della Francia e, più in generale, dei cristiani di buona volontà: Finché non ci sarà qualcuno in grado di uccidere la guerra, saremo come bambini che si divertono nei prati a fare dighe e ponti con la terra e il fango della Mosa. Ma la Mosa finisce sempre per passargli sopra, prima o poi (Jeannette). Per uccidere la guerra, bisogna farla. Per ucciderla serve un condottiero. Possiamo essere noi a fare la guerra ? (Hauviette).
Conducendo al pascolo il suo sparuto gruppo di pecore Jeannette chiarisce mano mano a sé stessa l’origine dell’insofferenza patita di fronte alla desolata rassegnazione degli ultimi (Soffro di un dolore sconosciuto, oltre ciò che si può immaginare… E’ l’inferno stesso che trabocca sulla Terra. Che succede, Dio mio ? Che succede ?), inquietudine che la risolverà qualche anno dopo, in piena adolescenza (restituita dalle fattezze di Jeanne Voisin), a proporsi come paladina in armi contro l’invasore britannico.
Fedele alle proprie coordinate territoriali (l’amato Nord della Francia), di messinscena (scabri set naturali in cui la figura umana tenta ogni volta di riannodare i fili d’un dialogo compromesso, se non irrimediabilmente distrutto con il paesaggio, controparte vivente) e narrative (la progressione drammaturgica organizzata più che altro per incisi, parentesi, digressioni più o meno tra loro correlate), il regista di Bailleul si concede qui la torsione capricciosa di un ulteriore ampliamento della gamma espressiva delle immagini introducendo, a integrazione del recitativo tradizionale, inserti cantati/salmodiati - e spesso corredati da abbozzi di danza - che suonano come rimaneggiamenti di inni sacri medievali (E non c’è niente/E non c’è niente/Ciò che regna sulla faccia della Terra/non è altro che la perdizione) alla luce di distorsioni rock, lepidezze metal, ingenuità circensi. Il risultato è un singolare ibrido tra sacro e profano, che del primo conserva il candore primigenio di un entusiasmo spirituale ancora non sottoposto al tornio della formalità istituzionale e del rigore ritualistico (avversione già manifesta, per altro, nella liturgia messa in ridicolo proprio nel succitato “P’tit Quinquin”), in grado di considerare il divino - chiamato in causa da un animale selvatico prescelto e ispirato - confidente privilegiato dei parti di un immaginario in formazione, quest’ultimo animato dal trasporto e dalla devozione ma scevro dell’imbarazzo reverenziale o dottrinale.
Dell’altro rivendica invece la componente ludica e imprevedibile, l’esaltazione interiore tutt’uno con la gioia del corpo, nella placida ma certa riaffermazione della fanciullezza come interludio privilegiato ma tale proprio perché ugualmente e potenzialmente amorevole e brutale, curioso eppure già in sentore di disincanto: in ogni caso - e quello in questione ne è valida testimonianza - ben lungi dalla trita retorica caramellosa che sovente ne ammorba la rappresentazione. Jeannette/Jean, così, nella versione/visione di Dumont, in virtù di un qual vitalismo presago, nei panni dimessi di una Menade accorta che fa dell’istinto e dell’irriverenza baluardi per la conservazione d’una intangibile purezza di fondo, sfugge senza sforzo e di fatto alle ovvie trappole della manipolazione e della mistificazione ideologica collocandosi, rara avis, tra coloro il cui sacrificio personale non sottende rivendicazioni quanto lo slancio spontaneo di un proposito dignitoso.
TFK
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