L’umanità dei suoi personaggi si è spesso espressa su due piani, quello del bene e del male. In questo caso Jeanette è un personaggio puro, senza macchia e, alla fine del film, senza paura. Può essere questo atteggiamento una risposta al timore che attraversa la Francia scossa dal terrorismo?
Mi piace riferirmi all’umanità delle persone ordinarie. Qui avevo a che fare con un vero mito francese, capace di contenere in sé tutto ciò che è il mio paese. Se prendessimo in esame gli schieramenti politici, si vedrebbe che Jeannette è amata tanto dall’estrema destra che dalla sinistra. A me però interessava la Jeannette bambina, quando ancora era una persona comune e il germoglio della sua icona si trovava già dentro di lei. Da questo punto di vista, il film dimostra proprio questo, e cioè che la grazia comincia alla fine della vita profana, dell’esistenza ordinaria. Nessuno ne è privo, però io volevo raccontare la fase di germinazione, quando appunto la grazia inizia a fare i primi passi dentro la protagonista.
L’interesse verso i bambini attraversa tutto il suo cinema (per esempio con P’Tit Quinquin). I giovani sono spesso al centro della sua opera, forse perché le offrono la possibilità di guardare il reale da una prospettiva priva di sovrastrutture?
Perché è la fonte della miseria e della violenza. Quello dei bambini è il terreno primario, il luogo dove tutto è ancora possibile. Ciò che mi affascina è che nella gioventù si trovino allo stesso tempo la peggior vigliaccheria e la migliore santità per cui ognuno può decidere se diventare santo o diavolo. Questa cosa succede anche quando siamo vecchi perché il nostro bambino interiore continua a essere lì. Gli studiosi dicono che ogni cosa si decide entro i dodici anni, per cui l’uomo che ne ha sessanta e come un bambino di dodici. Si accorge di invecchiare solo perché si guarda allo specchio, altrimenti penserebbe di essere ancora un giovinetto.
Jeannette è un icona della cultura francese, ma il suo stile di vita è uguale a quella di un bambino siriano o libanese che fa il pastore e vive le sue giornate immerso nella natura. In questo senso Jeannette – L’enfance de Jeanne d’Arc è anche un film universale.
È la storia di tutti quelli che vanno in Siria e poi fanno esplodere le bombe, qui è là. Ed è un po’ l’ambiguità di Jeannette, che è una brava persona, ma è anche una matta scatenata perché riesce a cacciare gli inglesi in nome di Dio, e a me quelli che agiscono in nome di Dio mi sembrano tutti matti.
Capita infatti che la stessa bambina innocente e pura possa essere anche quella che, manipolata dagli adulti, diventi uno strumento di morte.
Ma il cinema serve proprio a questo. In realtà la settima arte deve fare un lavoro di catarsi. Jeannette – L’enfance de Jeanne d’Arc lo fa rispetto alle persone che fanno coincidere la violenza e il sangue, facendosi esplodere in Europa e uccidendo degli innocenti. La sua visione ci impedisce di farlo ma il problema è che la gente di questo tipo non va al cinema.
Jeannette dice che per fermare la guerra bisogna ammazzare la guerra. Volevo chiederle: anche per lei non ci sono alternative in questo senso?
Secondo me il cinema è l’unico modo di uccidere la guerra. Noi siamo dei potenziali guerriglieri, tutti noi, per cui ognuno è chiamato a epurarsi da questo istinto omicida attraverso il cinema, la musica, la cultura. Non bisogna dimenticare che siamo tutti assassini, tutti molto pericolosi. Io non lo sono perché riesco a fare arte, ed è ciò che mi protegge, come per lei la sua cultura, che le impedisce di essere un poco di buono.
Però anche l’arte può essere pericolosa.
Si, ma è un pericolo mistificato dall’arte, per cui è una forma di illusione. Hadewijch (2009), per esempio, non era un film pericoloso, perché eroicizzare il male era la catarsi necessaria per liberarsene. Il problema delle persone che mettono le bombe è che non hanno cultura, sono dei cretini. Tutti quelli che la sfuggono sono pericolosissimi perché considerano il reale come una sorta di spettacolo. Oggi, quest’ultimo non coincide con il cinema ma con la televisione. Non esiste più separazione tra realtà e finzione, per cui si guarda la TV come se ciò che mostra esistesse davvero.
Lei guarda spesso la realtà attraverso gli occhi delle persone umili come Jeannette, capaci di reagire alle sollecitazioni esterne senza mezzi termini. Questo le consente un’osservazione scevra da ogni infingimento. Il fatto che le sue storie siano collocate nella natura, tra boschi, dune e stagni, mi sembra che vada in questa direzione, così come la corrispondenza tra ambiente e personaggi.
Nel cinema la natura corrisponde all’interiorità dell’essere umano. Quando la piccola Jeannette salta nella sabbia è come se balzasse sulla nostra testa. Il reale nel cinema è trasfigurato. La rappresentazione della realtà sullo schermo non è mai qualcosa di esterno ma è l’interno esteriorizzato. D’altronde quando si vede un film lo si fa all’interno di se stessi, non nel mondo circostante.
Il suo è un cinema antagonista. Negli anni novanta si opponeva all’ottimismo dei tempi, presagendone lo spettro della fine. Nelle sue ultime opere, invece, mi sembra accada il contrario, con barlumi di speranza che si oppongono al dilagante pessimismo attaule. Anche la scelta della forma musicale sembra andare in questa direzione.
Ha ragione, è un mezzo di lotta sempre più esacerbato contro il reale. La miscela tra tragico e comico è un modo per affrontare il nostro tempo che è oramai disincantato dal cambiamento delle abitudini politiche. A questa disfunzione ne corrisponde sempre, e dico sempre, un’altra di ordine estetico. Se si guarda lo stato del cinema italiano in rapporto alla grandezza passata, questo è proporzionale a quello della politica perché è lei che ne influenza l’estetica. A tal proposito si potrebbe dire che avete l’estetica che meritate. E la cosa ovviamente vale anche per la Francia e per gli altri paesi.
La composizione delle sue immagini è essenziale, direi quasi scarna, eppure in Jeannette l’ambiente bucolico è ritratto con un equilibrio da cinema classico. Volevo chiederle quali erano dal punto di vista estetico i riferimenti del suo film.
Si, in Jeannette c’è qualcosa di estremamente accademico, di classico che è rappresentato dalla presenza della natura, poi ci sono suggerimenti poetici abbastanza elaborati che sono un modo per trasfigurare il paesaggio naturale. Si tratta di confrontare il reale classico e la tragicità poetica: il tragicomico è uno dei modi di essere moderni. Il comico serve a deridere il reale perché l’esistenza è ridicola, poi c’è sempre la speranza che le cose cambino, che è comunque un concetto classico. Io non sono disperato. Bisogna essere lucidi ma pieni di speranza.
Per fare un cinema così libero a cosa si deve rinunciare? (Sempre se si deve rinunciare a qualcosa).
Non frequento la gente di cinema francese e siccome non li frequento non giro con loro. Non mi innamoro delle attrici francesi, quindi quel mondo non mi protegge e non facilita il mio lavoro. Spero di averle risposto (ride).
Carlo Cerofolini
(pubblicata su Taxidrivers.it)
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