venerdì, aprile 20, 2018

IL PIACERE DI DIRIGERE GLI ATTORI: INTERVISTA A VALERIO ATTANASIO, REGISTA DE IL TUTTOFARE


Sceneggiatore di Smetto quando voglio, Valerio Attanasio esordisce alla regia con una commedia all’insegna del ritmo e della qualità degli attori, guidati da un Sergio Castellitto in versione mattatore. In occasione dell’uscita de Il tuttofare abbiamo incontrato il regista chiedendogli del suo film e facendo il punto sullo stato attuale della commedia italiana.



Tu sei prima di tutto uno sceneggiatore, per cui mi interessa sapere in che rapporto ti poni come scrittore rispetto alla realtà.

Se devo essere sincero ciò che scrivo ne è la conseguenza, nel senso che le idee che mi vengono in mente hanno di certo un aggancio con ciò che mi circonda, ma le ragioni per cui si manifestano non sono il frutto di un calcolo preordinato. Per Il tuttofare ho conosciuto persone che vivevano nella condizione del tuttofare, e cioè di Antonio Bonocore –  il praticante in legge interpretato da Guglielmo Poggi -, e senza volerlo mi è venuto in mente la trama del film. Non sarei in grado di costruire una storia in maniera preordinata.

Il tuttofare è innanzitutto un film di meccanismi. E mi riferisco all’unisono con cui il tempo della narrazione si interseca con la modalità di recitazione degli attori. Sembra quasi che sia quest’ultima a tenere alto il ritmo, addirittura a crearlo. Come hai affrontato questo aspetto?

In realtà è stato il fascino di lavorare con gli attori a spingermi verso la regia. Sono loro ad avere la magia di dare vita a ciò che scrivi e che reciti a te stesso – perché io mentre procedo con la sceneggiatura faccio tutte le intonazioni dei personaggi (ride) -. Quando te li ritrovi davanti mentre danno interpretano le tue parole, e, come Sergio Castellitto, sono in grado di aggiungervi sfumature che neppure immaginavi allora la fascinazione si moltiplica. Dopodiché ho cercato di trasmettere agli attori lo stesso tipo di ritmo con cui immaginavo dovessero essere recitate le battute. Una volta inteso ciò che volevo hanno proseguito in automatico. E devo dire che sul set mi sono davvero divertito e sentire le mie parole pronunciate da Castellitto e da Elena Sofia Ricci, è stato davvero gratificante.

Quando hai scritto il film pensavi già a Castellitto?

No, pensavo a quelli che sono gli attori a cui Sergio si è ispirato, a Manfredi, per certi versi Gassman, a De Sica per la sua raffinatezza. È come se avessi avuto in mente le facce del cinema che amo e quando ho incontrato Castellitto anche lui, dopo la lettura del testo, aveva in mente gli stessi nomi.

Te lo chiedo perché è così bravo a entrare nel ruolo dell’avvocato Toti Bellastella da sembrare che tu abbia creato il personaggio apposta per lui, calibrato sulle sue specifiche d’attore.

L’idea era di prendere un grande attore che fosse tale a 360°, abituato a recitare ruoli drammatici oltreché comici. Con lo stesso criterio ho scelto la Ricci che  non è una comica come potrebbe esserlo la Cortellesi.  In realtà ho sempre pensato che Sergio abbia un talento speciale per fare ridere ma che non fosse mai stato davvero valorizzato. L’ultimo ruolo bello che ha avuto in una commedia era in Caterina va in città di Virzì.

Rispetto alle commedie prodotte in Italia avere un attore come Castellitto fa la differenza. Inoltre mi pare che sia la prima volta che venga utilizzato a certi livelli di comicità.

Ne sono contento perché questo era uno dei miei obiettivi. Il tuttofare è anche un modo per dire che gli attori italiani sono bravissimi. Si dice spesso che non c’è ne siano ma la questione è che i grandi interpreti hanno bisogno di un palcoscenico del loro livello. Se a Castellitto non hanno mai proposto un film come il mio –  al di là del suo valore – c’è qualcosa che non va. È chiaro che il più delle volte le scelte cadono sui cabarettisti,  nella convinzione che siano gli unici a ben figurare nel genere in questione. Al contrario, un’artista di spessore è innanzitutto poliedrico, capace come Sergio di confrontarsi con qualsiasi personaggio.

Non a caso nel film lo spettacolo e il divertimento non derivano dagli aneddoti e dalle battute ad effetto ma, trattandosi (anche) di un buddy movie, dalle dinamiche che si instaurano tra i personaggi e dalle maschere create per loro dagli attori. Se poi si volesse entrare nel dettaglio Il tuttofare è capace di raccontare anche attraverso il  modo di indossare i vestiti da parte dei protagonisti.

L’idea era quella che gli abiti riuscissero a sottolineare lo scarto tra il privato e il pubblico dell’avvocato Bellastella. Così, se da una parte i completi di sartoria e l’eloquio forbito utilizzati nel corso delle udienze   servivano per esaltarne la padronanza di sé e l’atteggiamento guascone di chi se sente inattaccabile, dall’altra, l’abbigliamento occasionale e dimesso con il quale lo vediamo nel privato, e per esempio, in occasione della sua scarcerazione mi serviva per rivelarne la dimensione mediocre e truffaldina. E, a proposito del , si tratta di un altro genere che amo. Il gioco della coppia comica mi sembrava legare benissimo con la storia, perché se è vero che a un certo punto l’allievo si ricrede rispetto al proprio mentore, in altri  momenti i due raggiungono un alto livello di complicità.

Alle commedia contemporanea si rimprovera la mancanza di cattiveria e l’incapacità di saper affrontare in profondità i mutamenti della nostra epoca. A questo proposito che idea ti sei fatto?

Rispetto al passato non esiste più la volontà di denunciare certe azioni perché la mia generazione ha metabolizzato l’indignazione verso la disfunzionalità dello Stato. Lo scollamento tra ieri e oggi lo metto in scena anche nel film, quando, al padre che si appella alle regole sindacali, Antonio replica “Papà non se ne può più dei sindacati”. Da come lo dice, si capisce che questo non è il presupposto per scendere in piazza e protestare ma solo l’affermazione di un dato di fatto. Quando parlo con i miei pari età percepisco che si discute di certe ingiustizie non in maniera critica ma solo per fare il punto sulla situazione. Mentre i miei coetanei si sono abituati al tempo in cui vivono, i loro genitori no, ed è da qui che nascono le incomprensioni.


Quindi tale mancanza di carattere altro non sarebbe che il riflesso dell’umore che si respira per le strade e nelle case dei nostri concittadini?

Chi ha vent’anni oggi non critica il nostro tempo perché non ha paragoni con ciò che succedeva nel passato. In questo senso Il tuttofare ha un’impostazione contemporanea; al contrario delle precedenti generazioni il film non si fa promotore di alcuna rivendicazione ed è questa la ragione per la quale Antonio non prende in considerazione le proteste e gli appelli alla legge rivendicati dal padre; rispetto agli ideali e alla lotta si accontenta di essere cosciente di come funziona lo status quo. Da qui il contrasto generazionale, e quindi i fraintendimenti sugli obiettivi che la commedia dovrebbe perseguire.

Forse anche a livello critico esiste questo malinteso, quando si continua a fare paragoni con le opere dei vari Risi e Monicelli. 

Se hai notato, nel film non ci si prende mai sul serio rispetto al tema del precariato giovanile. La scoperta da parte di Antonio che gli altri assistenti sono pagati di più di lui solo perché sono raccomandati non è utilizzato dal film per denunciare la corruzione della società. In questo senso rispecchio ciò che vedo intorno a me, e cioè un sacco di ragazzi che nonostante non ricevano compensi per il lavoro prestato non si lamentano, dando per scontato che per arrivare si debba accettare anche queste cose. Per gli adulti è una cosa intollerabile, per loro un passaggio necessario. Questo è causa di incomprensione. Ai tempi di film come Il sorpasso o La grande guerra in Italia era in corso un processo di crescita al quale bisognava affiancare tutele crescenti anche a livello sindacale, oggi non è più cosi.

C’è poi da dire che i registi di allora avevano fatto la guerra e, in generale, provenivano da un’esperienza esistenziale radicalmente opposta a quella vostra. Senza dimenticare le differenze esistenti sotto il profilo della formazione culturale.

Sono d’accordo nel dire che la società è cambiata, ci mancherebbe, ma preferisco soffermarmi sul fatto che la commedia all’italiana era legata ad altre forme di narrazione. Come sceneggiatore,  più che ai registi mi sono rivolto a figure come Age e Scarpelli e Vincenzoni. Quando scrivevano i loro capolavori si riferivano alla tradizione dei grandi classici della letteratura, caratterizzati da un universalità destinata a sopravvivere alle mode. Citavano spesso la letteratura russa, dalla quale prendevano la struttura sulla quale veniva innestato il contesto in cui vivevano. Questo fa sì che i titoli della commedia italiana degli anni 60 siano diversi da certi film di Scola; i primi sono molto più politicizzati perché nascevano in un epoca di forte ideologizzazione.

Tu invece cosa leggi per fare il tuo cinema?

Sono demodé in tutto, anche nella lettura, quindi ammetto di non avere interessi verso i libri contemporanei. Leggo gli scrittori russi –  soprattutto Cechov su cui ritorno sempre ma anche Gogol – , i francesi, la narrativa italiana dell’ottocento. Apprezzo molto il romanzo picaresco, e quindi Il Don Chisciotte e Lazzarillo De Tormes che ho citato pure nelle note di regia perché era un libro che mi ha colpito tanto e a cui si sono molto ispirati Age e Scarpelli. In essi c’è satira sociale ma non ci si piange addosso. De Tormes, tanto per dire, prende in giro in clero in un modo che ancora oggi risulta davvero moderno.

Il fatto di metterla in burla è una caratteristica del film. La rappresentazione dell’avvocato Bellastella è giocata proprio su questo.

È un atteggiamento che ho nella vita. Quando le persone si prendono troppo sul serio reagisco così. Però quando scrivo mi affeziono a tutti i personaggi, bravi o cattivi che siano, quindi anche di un tipo come l’avvocato Bellastella.

Abbiamo parlato dei riferimenti ai grandi autori della commedia italiana, ma ne Il tuttofare ci sono omaggi al grande cinema americano, a iniziare dalla prima sequenza dove ti servi dello stesso espediente messo a punto da Wilder ne Viale del tramonto; per non dire della citazione tratta da Intrigo internazionale.

Ce n’è molto, soprattutto di quello realizzato negli Stati Uniti da maestri europei. Ad esempio L’appartamento ha delle attinenze con il mio film nel rapporto tra il capo e la sua amante. Non l’ha notato nessuno e mi sono dimenticato di scriverlo nelle note di regia, ma il film di Wilder mi ha molto ispirato. Tra l’altro, io sono onnivoro di questi film e in particolare di quelli più vecchi. Se uno guarda un film muto degli anni ’20 vi troverà scelte estetiche più sperimentali di quelle presenti nelle opere contemporanee. I film di Hitchcock del periodo inglese sono tra questi. Nel mio film ho pure tentato di replicare una scena da Vogliamo vivere di Lubitsh, e mi riferisco alla scena del tribunale dove vediamo per la prima volta qual è il risultato dell’operazione a cui si è sottoposto il figlio del camorrista. Purtroppo non ci sono riuscito.

Come era successo con Smetto quando voglio di cui eri sceneggiatore, anche Il tuttofare è una commedia (quasi) tutta al maschile. Parlo anche in termini di occupazione dello spazio nel quale la controparte femminile, ove presente, è meno vistosa e talvolta in disparte. Da cosa dipende questa scelta?

Deve essere una cosa inconscia. Quando penso a una storia la prima cosa che mi viene in mente è un ragazzo che fa una cosa. Rispetto a Smetto quando voglio dove non ci sono personaggi femminili qui non è cosi, anzi , devo dire che mi sono molto divertito nello scrivere il ruolo di Elena Sofia Ricci che nella storia è la moglie di Bellastella.

Da spettatore avrei preferito che la coppia Castellitto/Ricci avesse avuto più spazio.

Non dirlo a me. Durante il montaggio mi sono mangiato le mani perché ho pensato che quella coppia diabolica meritava maggiore visibilità. Però non tutti i mali vengono per nuocere poiché ho capito di poter scrivere anche personaggi femminili. Nei duetti tra di loro, alla fine è lei a prendere il sopravvento e a suscitare le risate del pubblico.

La Ricci è davvero brava e in certi momenti riesce a essere la versione nostrana di Crudelia De Mon. La sua performance mi fa pensare che sia persino sottovalutata dal cinema italiano.

Lei è bravissima, però il fatto di ghettizzarsi per mesi nel ruolo della suora della serie televisiva Che Dio ci aiuti fa si che i registi finiscano per non pensare più a lei. Quando ci siamo visti per la prima volta mi ha chiesto come mai l’avessi chiamata visto che gli altri registi da tempo non lo facevano più.

Tra i meriti del tuo film ci sono quello di rivalutare un attrice come la Ricci, di scoprire una promessa come Guglielmo Poggi e di impiegare in maniera pressoché inedita Castellitto.

Ho constatato che più gli attori sono bravi, più il regista è facilitato nel suo compito; gli si dice una cosa e loro riescono a farla in un attimo. In più se c’è qualche  correzione da fare non c’è bisogno di stargli dietro. Quindi riferendomi alla tua domanda, condividere il set con questi nomi mi ha permesso di vivere con tranquillità ed entusiasmo il mio esordio.

Allen procede più o meno nella stessa maniera, scegliendo attori così bravi e in parte da non aver bisogno d’altro che di lasciarli recitare.

Premesso che Allen è un genio, sono d’accordo con lui. A Sergio ho detto pochissime cose. All’inizio cercavo di spiegargli il personaggio e finiva che fosse lui a parlarmene, questo per dire fino a che punto lo aveva compreso. Poi, magari, gli facevo notare che una certa cosa era troppo caricata e lui, al secondo ciak, la faceva in maniera così perfetta da non esserci bisogno di ulteriori riprese. D’altronde con Castellitto la scommessa era quella di impiegarlo in un ruolo nel quale il pubblico non è abituato a vederlo. Inoltre, nonostante sia anche un regista, sul set non ha mai fatto un passo al di là del proprio recinto d’attore. Ho apprezzato molto la sua misura.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

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