martedì, settembre 04, 2007
Paradiso + Inferno
A partire dai 70, le tematiche legate alla tossicodipendenza hanno offerto al cinema nuove possibilità di interpretazione del reale. La sistematicità della loro riproposizione hanno creato un genere cinematografico molto amato dagli addetti ai lavori che in esso hanno trovato la possibilità di esprimere l’intera gamma creativa e di esorcizzare i propri fantasmi personali. Su questa scia si inserisce il lavoro del regista australiano Neil Armfield che al suo esordio sfoggia tutti i clichè del genere, adattando per lo schermo il best-seller (nel suo paese) “Candy” dal nome della giovane protagonista qui replicato dall’insulso binomio “Paradiso + Inferno”. Segnati da un esperienza famigliare che è alla base della loro inadeguatezza, i due protagonisti trovano nella tossicodipendenza il collante della loro relazione.; il film li presenta come angeli caduti intenti a confermare la propria condizione in squallide stanze di periferia e nei santuari del senso a pagamento, alimentando un ghetto esistenziale che assomiglia ad un tunnel senza uscita. Nostalgie da paradiso perduto lasciano il posto a tormenti senza estasi tra crisi di astinenza ed i letti sfatti dagli afflati amorosi. Il regista mette a frutto i trascorsi teatrali, puntando tutto sulla presenza degli attori, vero punto di forza dell’intera operazione. Perfettamente calati nel ruolo, riescono a far vivere sullo schermo l’intimità del loro sentimento e l’incapacità di dare una svolta alla loro vita.; e se Heath Ledger continua un percorso attoriale coerente e mai scontato, Abbie Cornish si impone con una recitazione insieme fisica ed emotiva, per un personaggio che lotta con tutte le sue forze per tenere in vita il suo sogno d’amore. Rivolto al pubblico dei più giovani, il regista evita di soffermarsi sugli aspetti più crudi della vicenda, preferendo un taglio poetico che fa assomigliare il film ad una versione acida di Romeo e Giulietta, ma allo stesso tempo, quasi avesse paura di seguire il suo scopo fino in fondo, ne appesantisce la visione con una fenomenologia della dipendenza che anestetizza l’impatto emotivo della storia. La confezione non riesce da sola a riscattare un insipienza di fondo che relega il film ad un giusto anonimato.
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