lunedì, luglio 16, 2012

The son of no one

Restare aggrappati alle proprie origini, tirarne fuori i luoghi oscuri per il bisogno di liberarsene una volta per tutte. Era capitato così la prima volta con un esordio molto sofferto e quindi sincero. Poi una parentesi quasi necessaria, forse  per liberarsi dal peso del ricordo, oppure per assaporare una libertà creativa priva di responsabilità. Accade così che un fenomeno come  "Guida per riconoscere i tuoi santi" (2006)venga doppiato da un ibrido come "Fighting"(2009)sospeso tra aspirazioni artistiche e voglia di botteghino. Una battuta d'arresto paradigmatica per le implicazioni spesso negative connesse con la famigerata opera seconda, superata con la realizzazione di questo nuovo film, sempre indipendente ma questa volta omaggiato da un cast da film di primo ordine con l'attore feticcio Channing Tatum ormai assurto a rango di star, e le attempate quanto gloriose presenze di un peso massimo come Al Pacino e perché no, Ray Liotta, imprescindibile per i ruoli da canaglia. Costruito su un impianto poliziesco ed immerso in un clima di dolente espiazione "Son of no one" attraverso un intreccio di ricatti ed omicidi che coinvolge l'agente di polizia Jonathon Withe, ritorna sul luogo del delitto ed in particolare nel quartiere newyorkese del Queens, per raccontare un' altra  storia di amicizia e di violenza divisa tra passato e presente in cui, come capitava nel film d'esordio, l'emancipazione dell'umanità che ne è protagonista non può prescindere dalla redenzione del sangue.

Mescolando elementi autobiografici (il quartiere dove il film è girato ma anche i personaggi derivano da esperienze realmente vissute dall'autore) con situazioni paradigmatiche del genere a cui il film appartiene (la visione negativa dell'esistenza, il passato che ritorna ed a cui non si può sfuggire, l'istituzione poliziesca come tribù regolata da codici e comportamenti spesso disumani) "Son of no one" non si accontenta di ricalcare le gesta del cinema che lo precede - quello di James Gray per esempio che ricalca non solo nella struttura narrativa in cui il ritorno alle origini è la conseguenza di un movimento fisico e spaziale ma anche per il respiro da tragedia che accomuna il modo di raccontare dei due autori - ma si allunga su temi come quello del rapporto padre figlio, che è centrale nel cinema di Montiel. Tra figure biologicamente leggittimate, il padre padrone interpretato da Chazz Palmentieri  nei primo film,  e mentori di varia natura come quello dello scaltro manager Harvey Boarden che in "Fighting" amministra il giovane pupillo, anche qui è impossibile non dover fare i conti con i condizionamenti paterni o con la loro mancanza . Ed ecco allora accanto ad una propensione realistica testimoniata dalle numerose riprese rubate alla strada ed ai suoi abitanti, la sobria ma non per questo meno significativa apparizione di Al Pacino, portatore non a caso diciamo noi, di un sostrato ancestrale acquisito con le frequentazioni shakesperiane e qui determinante per dare spessore alle motivazioni che stanno dietro alla scia di afflizione che il film si porta dietro.  Con lui nel completo sgualcito del detective Stanford il film si assume il compito di fare il punto sulle contraddizioni dei legami familiari, da una parte rendendo libero il figlio putativo, White appunto orfano di un collega morto in servizio, con una resa dei conti finali neanche troppo sorprendente, dall'altra eliminando anche chi una volta era considerato tale e successivamente è messo alla porta senza tanti complimenti.  Montiel ha qualche difficoltà nel tenere insieme la componente privata ed esistenziale  con quella tipicamente poliziesca, legata alla scoperta del misterioso ricattatore che rischia di rovinare la vita del protagonista e dei suoi colleghi - il film si sviluppa in maniera fin troppo schematica attraverso continui sbalzi temporali dedicati alternativamente all'adolescenza ed all'età matura di White -  e sciupata da personaggi come quello della giornalista d'assalto interpretata da Juliette Binoche, un pò troppo sacrificata nei tempi da cameo alle convenzioni di una dialettica che vorrebbe allargare i propri orizzonti al mondo esterno e che invece per mancanza di una vera contrapposizione rimane confinata nei particolari del paesaggio in cui si svolge.  Detto questo fa piacere ritrovare quel senso di condivisione ed il pathos che l'autore riesce ad ottenere con uno sguardo commisurato all'oggetto dell'indagine. Per maturare c'è tempo, magari a partire dalla prossima volta.

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