martedì, maggio 08, 2018

ERMANNO OLMI: LA SPERANZA SENZA ILLUSIONE


Se, come crediamo, il grado d’autorevolezza di una Civiltà che voglia dirsi tale si misura anche dal modo in cui essa considera e tratta i cosiddetti ultimi (o, come fa aggio al Capitale, le vittime della Storia), allora è indubbio che il Cinema di un autore come Ermanno Olmi s’impone, al di là delle intuizioni e dei fraintendimenti, degli slanci e delle stanchezze, dei richiami ideologici e delle insofferenze a quegli stessi richiami, come una sorta di personale progetto di Civiltà, elaborato a partire da una vicinanza spontanea - quantunque sollecita - alla condizione umana messa di continuo a confronto con le sfide e gli interrogativi che ne caratterizzano l’itinerario nel mare magno del divenire. Troviamo, in tal modo, il rapporto non di rado aspro fra Tradizione e Modernità. Quindi la consapevolezza lucida di dover instaurare un dialogo non conflittuale con il Tempo, reimparando a viverlo invece che limitarsi a utilizzarlo. E, ancora, la ricerca d’un respiro vitale più ampio nell’avvicinamento graduale ma deciso alle dolcezze nascoste come pure alle durezze innocenti della Natura. Così, una religiosità del quotidiano esaltata dall’attenzione riservata ai piccoli gesti, alle variazioni minime delle abitudini e dei mestieri che, nell’armoniosa monotonia d’una ripetizione non subita ma esercitata, nella schiva abnegazione d’una minima misura aurea, si sacralizzano. Stessa cura emerge nello sforzo di delimitare un terreno comune tra generazioni sempre più divise e rese vicendevolmente sospettose dalla freddezza in apparenza equanime della Tecnica e del Denaro, o nel progressivo imporsi di un qual scetticismo misto a pessimismo che pure non esclude la possibilità di riscatto da una condizione in cui sembra dover prevalere sempre quella continuità inesorabile che giustifica l’umiltà rassegnata figlia d’una cronica insipienza…

Del resto, già dai primi corti della seconda metà degli anni Cinquanta (La pattuglia di Passo San Giacomo, 1954; La diga sul ghiacciaio, 1955; Il pensionato, 1956; Manon: finestra 2, 1956) l’occhio di Olmi s’aggira in un panorama materiale (l’ordine post-bellico, il progresso tecnologico, l’industrializzazione, nello specifico quella del Nord del nostro paese) e umano (contadini appena inurbati, pensionati, operai, giovani affascinati e confusi dalle nuove frontiere) che individua senza esitazioni il campo d’applicazione su cui intende cimentarsi, secondo uno schema inteso a far convivere la descrizione, spesso impietosa, delle trasformazioni indotte da una prassi orientata al primato dei processi produttivi sulle aspettative individuali (o, peggio ancora, al vincolo di stretta dipendenza che farebbe derivare le seconde dai primi) - Il posto, 1961; La circostanza, 1974 - e il puntuale riemergere, qua e là pure con toni fiabeschi o allegorici, retorici o edificanti - E venne il giorno, 1965; Cammina, cammina, 1983; La leggenda del santo bevitore, 2001 - di una dimensione che in quelle stesse logiche s’ostina a non esaurirsi - Centochiodi, 2007 - Una pretesa, in altre parole, che rilancia sull’esperienza umana come concentrato contraddittorio di spinte a cui non è comunque preclusa la via d’un’ipotetica quanto travagliata riconciliazione; il distacco crescente dal ruolo di meccanismo marginale e/o subalterno nel sempre più complicato e controverso arazzo della Storia (L’albero degli zoccoli, 1978); l’opportunità (e la responsabilità) di un dialogo finalmente aperto, compassionevole e leale con qualunque pari interlocutore.

Si delinea, di conseguenza, nel corpus di un’opera che ha virato nel tempo il suo umore di fondo da una tonalità meditativo-contemplativa di matrice neorealista a una misurata dissonanza venata di disincanto e attonita aspettazione memore della lezione teatrale - Torneranno i prati, 2014 - passando per sapidi bozzetti - Racconti di giovani amori , 1967 - disagi interiori - I fidanzati, 1963 - apologhi esemplari - Il tempo si è fermato, 1959 - estetismi agresti - Rupi del vino, 2009; Terra madre, 2009 - l’impronta netta di una testimonianza che è innanzitutto un’indagine rigorosa ma affettuosa, critica ma stupita, su noi stessi - a dire una comunità, un popolo all’indomani d’un’immane catastrofe (la Seconda Guerra Mondiale, appunto) - ovvero su ciò che siamo stati, su ciò che avremmo voluto essere (Il mestiere delle armi, 2001) e, forse, su ciò che non potevamo non diventare.
[Ermanno Olmi, 24/07/1931 - 07/05/2018]
TFK

Nessun commento: