Rispetto ad altri film italiani in Manuel si sente la volontà di tornare alle radici dell’umano per raccontare ciò che dell’esistenza è veramente indispensabile. In questo senso il tuo mi sembra un cinema basico, per certi versi simile alle prime opere di Bruno Dumont. È questa una giusta definizione del tuo lavoro?
Assolutamente si e sono felice che tu lo abbia colto. Io e Simone Ranucci, con cui ho scritto il film, siamo partiti da un’idea generale di sottrazione, pensando, come dicevi tu, di ritornare alla radice. Così ci siamo concentrati su ciò che per noi era importante e quindi sulla crisi del protagonista che, ad un certo punto, si ritrova davanti a un bivio. Per questo motivo molte cose che lo riguardano vengono omesse: non conosciamo, per esempio, per quale motivo la madre è in prigione, come neppure che fine abbia fatto il padre. Ci sembravano cose inutili, ma per escluderle dal film ci abbiamo ragionato parecchio tempo, ritornandoci sopra diverse volte, finendo mese dopo mese per togliere sempre di più. All’inizio, per esempio, si parlava del denaro e del bisogno di lavorare da parte di Manuel, ma alla fine il tutto è stato riassunto nella scena del forno in cui il ragazzo si reca per farsi fare i documenti da presentare all’assistente sociale. Molti dialoghi sono spariti per lasciare spazio ai silenzi. Avremmo potuto scrivere tante cose ad effetto.
Dici bene, perché ognuno degli incontri che scandiscono l’esistenza di Manuel aveva in nuce un potenziale drammaturgico così forte da fare storia a sé all’interno del film. Intendo dire che il materiale a disposizione era talmente enorme e denso da offrirti numerose possibilità di sviluppo sia in termini di caratterizzazione formale che di toni.
Quando hai a che fare con giovani come quelli che ho incontrato preparando il documentario sulla Repubblica dei ragazzi (2015) metti da parte un sacco di storie, di idee geniali e di cose folli da cui potresti ricavare non so quanti film. Molte di queste erano divertenti e singolari ma finivano per allontanarmi dal tema che mi stava a cuore. Avendo incontrato il vero Manuel ne conoscevo i dubbi e i silenzi; sapevo che la mancanza di parole era figlia dell’incertezza su ciò che lo aspettava una volta fuori dalla casa famiglia e della consapevolezza di avere poco tempo per imparare l’essenziale per sopravvivere. Da qui l’idea di creare una serie di incontri che, nell’insieme, costituissero l’apprendistato del personaggio, il modo con il quale egli impara a comportarsi in un mondo che non ha mai conosciuto.
Questo tipo di struttura narrativa era rischiosa perché poteva risultare programmatica, invece sullo schermo la successione dei personaggi che Manuel incontra avviene in maniera del tutto naturale.
Allora ti dico una cosa che non ho mai detto finora e cioè che in realtà quasi tutti gli incontri sono ripresi da esperienze che mi sono successe in momenti diversi della vita. La scena con Franchino, il mendicante che rimane in panne con il motorino e a cui Manuel dà una mano, è stata creata esattamente come l’ho vissuta io mentre mangiando un panino a Civitavecchia ho visto quest’uomo in difficoltà e ho deciso di aiutarlo.
La corrispondenza tra i tuoi incontri e quelli di Manuel vale anche per i sentimenti raccontati nel film?
Guarda, la scena con Giulia Elettra Gorietti è qualcosa che ho sperimentato quando ero più giovane e che ho ritrovato molto in Manuel e in Andrea Lattanzi, l’attore che lo ha interpretato: parlo di quel disagio che si prova di fronte a una figura femminile che, come spesso capita, è più spigliata e determinata di noi. Nella sequenza in questione Manuel mi ha ricordato molto l’Antoine Doinel di Truffaut e, quindi, si può dire che c’era un buon mix di cose personali e di quelle che volevamo raccontare attraverso il film.
Manuel si occupa delle persone più fragili nella consapevolezza di esserlo lui per primo, mentre gli altri non danno la sensazione di volersi mettere nei suoi panni. La disparità di questi rapporti non potrebbe essere anche una visione di ciò che succede nella nostra società?
In realtà non era mia intenzione allargare il discorso nella maniera che dici tu. Penso invece che davanti a una purezza così esasperata come quella di Manuel qualsiasi confronto risulti inevitabilmente molto più duro.
A proposito di confronti, inevitabile è quello tra noi e Manuel, nel senso che il film, alla maniera de Il ladro di bambini di Gianni Amelio, mette lo spettatore nella condizione di domandarsi cosa farebbe lui se si trovasse di fronte al protagonista.
Era esattamente una delle cose che volevamo suscitare nello spettatore, spingendolo a chiedersi come sia possibile che tutto questa succeda a un ragazzo che potrebbe essere nostro un nostro nipote o figlio. Per riuscirci, abbiamo cercato di far parlare il cuore nella consapevolezza di avere tra le mani una materia che poteva sfuggirci e prendere direzioni non desiderate. Per me era anche una questione di responsabilità: avendo vissuto e collaborato per due anni con la Repubblica dei ragazzi mi è venuto naturale assegnare un ruolo di guida ai sentimenti provenienti da quella esperienza. Tieni conto che c’è stata una seconda fase di scrittura scaturita dall’incontro con Andrea; il suo volto mi ha suggerito soluzioni che in un primo tempo non avevo sposato.
Questa non me l’aveva detto nessuno ed è bellissimo. Io poi ho un amico che a casa sua ha un disegno di Pazienza e penso che quest’ultimo possa avermi ispirato. Erano mesi e mesi che cercavo di capire dove avevo già visto il volto di Andrea…
Se ci pensi il personaggio di Manuel potrebbe essere uscito da una storia dell’autore di Zanardi.
Andrea ha questa faccia incredibile; funziona perché i suoi lineamenti sono come dici tu, alieni; hai detto bene, lui è alieno, viene da fuori e la sua fisionomia rimane intatta, non si impregna di altre facce. Vivendo tanti anni dentro questa casa famiglia mi sono reso conto che ci sono tantissime tipologie, tantissimi casi pedagogici, ma soprattutto che vista da fuori questa realtà sembra nel suo complesso tragica, mentre, al contrario, il novanta per cento di queste persone sono bravi ragazzi. Il cinema italiano non aiuta a sconfessare lo stereotipo, raccontandoli quasi sempre attraverso un tessuto di microcriminalità. Certo è che se punti la mdp in superficie viene fuori quella roba lì, ma a me questo non interessa.
Mi ha colpito il contrasto tra la fisiognomica spigolosa e irregolare di Manuel e la tenerezza di certe espressioni. Tu a un certo punto lo fai piangere come un bambino indifeso, rinunciando in ciò a qualsiasi tentativo di ‘eroicizzazione’ del personaggio.
Allora ti dico una cosa. Per trovare la faccia di Manuel ho impiegato parecchio tempo, facendo migliaia di provini. L’unica cosa che ho avuto sempre chiara è che il protagonista dovesse avere una faccia modellabile, di quelle che puoi decidere di portare ovunque vuoi. Andrea è credibile sia come criminale sia come un bambino smarrito.
Esatto, in certi momenti il protagonista è indifeso come un bambino piccolo. I fermo immagine sul suo volto lo mostrano in maniera evidente.
Credo dipenda molto da come il film ti porta davanti a quell’immagine e questo dipende dalle esperienze che fai e da chi hai la fortuna di conoscere. Io l’ho voluto portare dentro un mondo che ho conosciuto in prima persona. Agganciato come sono alla realtà, penso che se se avessi conosciuto una comunità di ragazzi sbandati avrei certamente filmato una crime story. Diversamente, la mia esperienza mi ha spinto verso una realtà molto meno cinematografica e di intrattenimento. Ai tempi de La repubblica dei ragazzi Don Marcello, che era il prete responsabile della comunità, aveva sempre negato la possibilità di girare all’interno dell’istituto perché la televisione e i programmi come quelli di Barbara D’Urso erano interessati innanzitutto a conoscere i motivi per cui i ragazzi erano entrati a farvi parte. Io invece gli dissi che a me interessava solo stare con loro, riprenderli e condividerne il momento, Tant’è vero che se tu guardi il documentario non si vedono mai le facce dei bambini perché per legge non potevano essere riprese. Questo per dirti che dipende tutto da quello che vuoi raccontare. Io capisco che il filone del crime sarebbe stato più attraente, ma era inadatto a replicare la realtà dei fatti.
Per collocazione ambientale, tipologia di personaggi e uso del linguaggio, Manuel potrebbe essere accostato al filone cui hai appena accennato. In realtà se ne differenzia per la peculiarità di cui in parte abbiamo già detto.
Purtroppo quando tu racconti la periferia e senti parlare al cinema o in televisione in romanesco o in dialetto napoletano torni inevitabilmente a Gomorra o a Suburra. Questo all’inizio poteva costituire un problema; ci sono film come Fiore o Cuori puri che devi essere bravo a rendere sul piano dell’action, cosa che io non so fare. Li ho visti e mi sono piaciuti molto, ma non sarei in grado di rifarli. Il mio occhio non cade su questi aspetti.
Per ritornare allo spartiacque che esiste tra il protagonista e il resto del mondo, a rimanere impressa è la frase dell’avvocato, il quale rivolgendosi a Manuel gli dice “Cosa c’entra la speranza, qui contano i fatti”.
È una frase illuminante rispetto al contesto della storia in cui l’esperienza di Manuel, che esce dall’istituto e affronta il mondo, è equiparabile a quella di un neonato immerso per la prima volta nelle nostre abitudini quotidiane. Cose che a noi sembrerebbero normali per lui sono ostacoli molto impegnativi. L’avvocato ha ragione dicendo che nel caso specifico servono fatti e non speranze perché è il mondo che funziona così. D’altro canto se Manuel negli anni in cui è vissuto in comunità non avesse avuto la speranza magari non c’è l’avrebbe mai fatta a uscirne con lo spirito positivo che dimostra di avere di fronte alle difficoltà. Manuel, dunque, è come un neonato che si affaccia al mondo per la prima volta. È anche vero che, se c’è un limite da imputare al progetto legato alla Repubblica dei ragazzi è che funziona talmente bene da diventare un microcosmo autonomo, al punto da isolare i ragazzi dal resto del mondo. In questo modo a 18 anni ti ritrovi come capita a Manuel, cresciuto nel modo migliore ma sprovvisto degli strumenti per capire l’esterno. Quando esci di lì potresti essere molto più velenoso di altri per le esperienze da cui provieni, ma per altri versi anche più fragile e senza difesa. Ritornando alla tua osservazione iniziale, la faccia di Andrea Lattanzi era come un marmo da scolpire. Ci sono facce molto più identificabili, molto più malandrine, adatte al cinema di cui stavamo parlando. La sua sta in una terra di mezzo: molto dipende anche da come guardi il film.
L’essenzialità della messinscena è il segnale di un punto di vista sul mondo esente da giudizi. Questo permette allo spettatore di farsi la propria idea rispetto alla storia.
È proprio così. Quando abbiamo scritto il film con Simone una delle pagine su cui ci siamo bloccati è stata quella relativa al finale, perché non riuscivamo a capire come poteva concludersi la storia di questo ragazzo. Dopo molti ragionamenti, abbiamo compreso che nessuno di noi aveva il diritto di farlo. Un’altra parte che ci ha fatto penare è stata quella dell’uscita dall’istituto.
Tra l’altro quella è una scena che avete realizzato eliminando la tipica enfasi del momento. In essa non ci sono saluti nè consigli da lasciare in eredità a chi rimane.
Nella realtà ognuno vive quel momento in maniera diversa. Ci sono alcuni che fanno una grande festa, e io avevo anche considerato di fare qualcosa di simile per il mio film. Poi ho capito di non essere interessato a sapere come Manuel avrebbe passato la vigilia della sua partenza. Ho invece cercato di capire quale sarebbe stata l’ultima parola prima di andarsene, e quale sarebbe stata l’ immagine del suo congedo.
Addirittura, tu non fai vedere neanche la faccia del prete che accompagna Manuel alla stazione se non inquadrandone a malapena una parte del profilo.
La escludo perché io voglio stare con Manuel. Quando ho fatto il film, ho pensato solo a me stesso e a chi stava con me. Amo un certo tipo di cinema e di scelte registiche, per cui ho pensato che era inutile andare con il controcampo sulla faccia del prete. Magari mi interessava ciò che diceva, ma io volevo stare sulle reazioni di Manuel.
Succede anche nella sequenza ambientata nella biglietteria della stazione. Lì decidi di inquadrare Manuel escludendo il bigliettaio di cui sentiamo solo la voce.
Si, anche il quel caso non vado mai sul controcampo degli altri perché sono concentrato sul protagonista. Il cinema di solito gioca sull’alternanza dei primi piani, mentre nei momenti più importanti io volevo restare con Manuel; volevo vedere come ascolta ciò che gli succede intorno, che è molto più importante della faccia del bigliettaio. Quando quest’ultimo gli dice che i treni sono sospesi perché è stata investita una persona lui reagisce alzando un po’ il sopracciglio che è comunque una reazione che mi sarei perso se avessi inquadrato il suo interlocutore. Poi mi rendo conto che sono scelte difficili.
Senza nulla togliere all’anima del film che rimane sempre fortemente emozionale e riagganciandomi a quanto stavi dicendo, mi pare di poter affermare che Manuel è anche lo studio di un’esistenza contemporanea.
Guarda, in realtà sto continuando un po’ la ricerca che ho fatto con il documentario. Anche nel modo di girare non vedo questo film lontano dai miei lavori precedenti. Tieni conto che sia questo che i tre documentari sono stati girati a Civitavecchia. Manuel è solo l’ultima tappa di una ricerca sul territorio intesa come porzione di spazio capace di far convivere esistenze diverse. Per questo motivo Manuel lo riporto lì. In Francia, dove il film è andato molto bene, volevano sapere il nome dei luoghi in cui avevo filmato; scrivendo che si trattava di Ostia hanno rivelato la necessità di riportare la storia all’interno dei filoni conosciuti e di cui abbiamo appena parlato. Anche in Italia ho sentito parlare del territorio di Roma e di Ostia a proposito del mio film.
Ho letto anche io titoli del genere e paragoni con il filone dei film ambientati nelle borgate. Cosa che Manuel non è.
In realtà il mio protagonista non sa neanche cosa sia una borgata. Pochi hanno capito che non si trattava di quel tipo di realtà. Si vuole uniformare tutto, e a proposito del mio film si è parlato in maniera positiva ma inappropriata di neorealismo. È lecito farlo, ma non era questo ciò a cui noi puntavamo.
Venendo agli aspetti visuali, ho notato che nel tuo film, a fronte di una mdp che rimane costantemente attaccata al protagonista ci sono aperture improvvise che non sono dettate da interesse antropologico o dalla necessità di ricostruire l’ambiente ma piuttosto da una funzione esistenziale che viene fuori dal rapporto tra la figura di Manuel e il vuoto dello spazio che lo circonda. Quando le ho viste mi hanno trasmesso la solitudine del protagonista come pure il peso delle responsabilità che gli piombano addosso.
In termini visivi, questi improvvisi allargamenti di campo hanno un impatto molto forte sulla vista dello spettatore e si traducono in pura emozione.
Durante il montaggio le persone rimanevano un po’ contrariate vedendo queste aperture, ma ho fatto prevalere il mio istinto e me ne sono fregato. Per dirti, sono sempre stato un fan dei film senza musica e invece qui ho sentito la necessita di sottolineare certi momenti con dei suoni creati da me. Di questa libertà devo ringraziare Angelo Barbagallo, perché mi ha permesso di fare il film che avevo in mente. Tutte le scelte sono state appoggiate da lui senza nessuno problema.
Tornando ad Andrea Lattanzi, volevo chiederti come avete lavorato insieme, visto che stiamo parlando di un esordiente.
Si, è il primo film che fa, mentre per me è il primo di finzione. Anche da questo ti puoi rendere conto quanto fosse forte la scommessa produttiva decidendo di caricare su di lui così tanta responsabilità. Quando andai da Barbagallo gli dissi scherzando che volevo fare un film ma che non volevo i soldi (ride), alludendo alle limitazioni artistiche che spesso derivano dall’averne.
I soldi per esempio ti avrebbero impedito di scegliere Lattanzi per il ruolo di Manuel, perché di solito l’investitore si sente più rassicurato se nel film ci sono attori già famosi.
Li c’era un discorso ben preciso: io avevo necessità di identificarmi con il personaggio; in più, qualsiasi altro volto mi avrebbe ricondotto a film che erano stati già fatti. Venendo dal documentario, capitava che ogni cosa che mettevo su carta il giorno dopo non mi sembrasse reale per il fatto di non averla vissuta in prima prima persona. Cosi, per ritornare alla tua domanda, con Andrea abbiamo fatto un lavoro particolare: intanto lui non ha letto mai la sceneggiatura; l’unico lusso che ci siamo permessi è stato quello di girare in maniera cronologica. Abituato a procedere al buio, senza sapere cosa mi aspetta quando sto per girare, ero terrorizzato dall’avere un programma prefissato, con date di inizio e fine del film. Per rimediare, abbiamo deciso di recuperare parte dell’improvvisazione perduta nel personaggio di Andrea. Lui aveva letto la sinossi, e io ho iniziato a raccontargli la storia di Manuel ma senza farlo accedere alla sceneggiatura, tanto che alla fine di ogni giornata mi diceva “Domani cosa mi succederà?”. Tra l’altro, per intensificare il processo di immedesimazione, lui è arrivato a dormire sul set e nei luoghi dove stavamo girando. In questo modo è riuscito a isolarsi, provando realmente le sensazioni che si vedono sullo schermo.
Direi che i risultati sono stati eccellenti. Penso che anche tu ne sia stato molto soddisfatto.
Da regista ti dico che avevo in mano qualcuno che mi permetteva di osare molto. Avevamo tanti problemi, a cominciare dalla mancanza dei permessi per girare in strada per cui arrivavamo come un armata Brancaleone e in tempo zero facevamo le riprese. Però, una volta che Andrea è entrato nel personaggio tutti quanti ci siamo immedesimati nella sua vicenda e cosi facendo si è verificato il miracolo. Non poche volte è successo che abbiamo dovuto cambiare quello che avevamo previsto. Il film si è modellato sul campo, anche in base alla condizioni metereologiche. Per dirti, Andrea e l’attrice che interpreta la madre (Francesca Antonelli) si sono incontrati per la prima volta solo il giorno delle loro riprese insieme. Avevo dato loro la sceneggiatura, ma alla fine le parole che abbiamo messo sono state le loro. Come in altri casi, il testo scritto è diventato una linea da seguire durante la quale era comunque possibile intervenire e modificarla. E questo perché hai degli attori come Andrea che ti permettono di farlo.
Ho letto che il film ha avuto gran successo in Francia.
Noi dovevamo andare in concorso ufficiale a Locarno o a Torino, poi Barbagallo ha deciso di mandare il film a Jean Labadie, che è uno dei grandi distributori francesi, il quale ha risposto quasi subito, dicendo che voleva a tutti i costi il film per occuparsene in Francia. È stato lui a decidere che sarebbe stato meglio andare al festival di Venezia, dove peraltro il passaggio è stato velocissimo. La cosa clamorosa però è successa due settimane dopo, quando siamo partiti per Montpellier dove c’è un grande festival di cui abbiamo vinto i tre premi principali. Da lì ne sono seguiti altri, cosi come tanti sono stati gli apprezzamenti ricevuti da registi del calibro di Mungiu, che hanno espresso stima nei riguardi del film.
Per quanto riguarda la distribuzione, sai già se il numero di copie è destinato a crescere allargandosi alle città del nord?
La distribuzione è molto mirata, ma per esempio da questa settimana saremo in cartellone anche al Nuovo Sacher di Roma, oltre che al Quattro Fontane, due sale molto prestigiose. Alla fine dovremmo arrivare a circa 30 copie, che è un numero buono per un progetto come il nostro. Sono soddisfatto.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su Taxidrivers.it)
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