giovedì, maggio 10, 2018

IL DUBBIO: UN CASO DI COSCIENZA


Il dubbio: un caso di coscienza di Vahid Jalilvand
con Navid Mohammadzadeh, Amir Aghaee, Hediyeh Tehrani, Zakieh Behbahani, 
Iran, 2017 
genere, Drammatico
durata,104’


Medico legale di un obitorio, Kaveh Nariman una sera tornando a casa investe accidentalmente una famiglia in moto. Uno dei bambini batte la testa ma sembra stare bene, ma a distanza di poche ore muore. Il suo cadavere viene portato all’istituto di medicina legale dove lavora il protagonista per eseguire l'autopsia come di prassi. Il risultato dell’autopsia parla di avvelenamento per botulismo e il padre, truffato nell'acquisto di carne di pollo avariata, non si dà pace. Ma contestualmente anche il medico legale non si dà pace per il dubbio che la morte sia stata causata dall’incidente della sera prima.

Il Dubbio, il Senso di Colpa, l’Egoismo e la Paura di perdere i propri Privilegi sono i veri protagonisti di questa opera che, senza troppi giri di parole, ci mostra gli uomini così come sono, con tutte le loro imperfezioni e le loro bassezze e meschinità. Kaveh Nariman è un medico legale stimato, molto competente nel suo lavoro e che sembra non lasciarsi mai corrompere da niente e da nessuno. Finchè un giorno è lui che si trova dall’altra parte della barricata a voler corrompere altri e soprattutto se stesso e la sua coscienza. E scopre la propria meschinità. L’occasione che svela l’anima del protagonista è quell’incidente in cui fa cadere a terra un bambino, il quale sbatte la testa. Il bimbo accusa dolore in una parte del cranio, Kaveh lo visita, apparentemente insiste perché il padre lo porti in ospedale per un controllo, ma di fatto insiste solo di facciata perché non agisce con quella forza persuasiva che invece avrebbe dovuto adoperare in tali situazioni come medico.

La paura di essere invischiato in problemi burocratici, di avere grane e fastidi lo porta a scaricarsi la coscienza offrendo del denaro al padre come risarcimento, fermandosi perciò in superficie.. In fondo perché insistere se è lo stesso padre del bambino a non volerlo portare in ospedale? Ma quanto costa mettere a tacere la propria coscienza? Kaveh lo sperimenta su se stesso: costa molto, più di quel denaro offerto, costa l’equilibrio e la serenità della sua stessa vita. Lo inizia a percepire non appena sente che è arrivato in obitorio il cadavere di un bimbo, e sentendone il nome lo associa immediatamente a quel bimbo che la sera prima aveva investito e buttato a terra.

Ma non riesce ad assumersi le proprie responsabilità immediatamente e dunque si trincera nel suo silenzio chiedendo ad altri di eseguire l’autopsia richiesta. La diagnosi è che il bimbo sarebbe morto per avvelenamento da botulino. Tutto plausibile viso che il padre aveva comprato carcasse di polli morti spacciati per carne buona e li aveva dati al proprio ragazzo. Ma Kaveh non è soddisfatto di questo risultato, non ci crede fino in fondo, la sua coscienza lo tormenta al punto tale che lo costringerà a riesumare il cadavere ed a eseguire – stavolta lui stesso – una nuova autopsia.

Alla fine l’importante non è capire quale veramente sia stata la causa del decesso del bambino, se l’infezione da botulino o il trauma cranico, perché fondamentale per il medico (e per il regista) è assumersi finalmente le proprie responsabilità, accettare le conseguenze che il timore di prendersi dette responsabilità possa avere sulle esistenze di chi si incontra con noi.

Il tutto si svolge senza una colonna sonora di sottofondo che ammortizzi la sensazione di disagio che accompagna lo spettatore per tutta la durata del film. Non c’è musica che possa lenire quel vuoto disperato che serpeggia dentro di noi, no non c’è panacea alcuna. Il regista ci incita a ritrovare il coraggio delle nostre azioni nonostante tutto e anche se ci costa tanto metterci a nudo di fronte alla società in cui siamo inglobati. A Kaveh infatti costerà molto il suo Dubbio ed il coraggio di esternarlo, così come costerà anche al padre del bambino che ha acquistato carne avariata. La Scelta porta la sua Conseguenza in ogni caso e ognuno di noi deve assumersi il peso di aver aperto quella porta e non altre che erano a disposizione.

Ecco perché non può esservi un “Happy End” alla maniera americana e comunque occidentale, una soluzione chiara e sicura come noi vorremmo per ottenere il netto superamento di ogni stato di incertezza. Invece il regista ci dice che ciò che ci resta a luci spente è solo una lenta inesorabile accettazione della nostra imperfezione e di quel male dell’anima che ogni giorno - tutti i giorni- lentamente ci mette alla prova, scavando solchi insormontabili come fa la goccia che – incessantemente - cade nello stesso punto. Tutti i giorni. Per sempre. 

Ci lascia con una sensazione di disagio profondo e di inadeguatezza, non vuole o forse semplicemente ammette di non avere la forza di risolvere il conflitto e riappacificare le nostre coscienze con il mondo. “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe” : il regista Jalilvand sembra far proprio quel male di vivere montaliano in profonda rottura con quell’”uomo che se ne va sicuro agli  altri ed a se stesso amico..”. Un film difficile, inserito nella categoria del cd “cinema underground”, avulso dal genere del cd. “mainstream”   di tendenza, accattivante, e popolarmente accolto. Ma senz’altro, da non passare inosservato.
Michela Montanari

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