sabato, giugno 30, 2018

L'ALBERO DEL VICINO


L'albero del vicino
di Hafsteinn Gunnar Sigurdsson
con Steinþór Hróar Steinþórsson, Edda Björgvinsdóttir
Islanda, Polonia, Germania, Danimarca, 2017
genere, drammatico
durata, 89'


Alla domanda se sia possibile mettere in scena un film sulla fine del mondo senza l’utilizzo di effetti speciali e sottraendo lo spettatore alla solita ecatombe di vite umane si potrebbe rispondere invitando alla visione de L’albero del vicino, il nuovo lungometraggio di Hafsteinn Gunnar Sigurdsson, candidato all’Oscar per il miglior  film straniero. Trattandosi di un film proveniente dall’Islanda, la storia del conflitto tra vicini di casa scaturito da futili motivi non renderebbe merito, per la numerosità dei precedenti, alle caratteristiche di una cinematografia capace di distinguersi per la stralunata particolarità  delle sue narrazioni.

In effetti, con L’albero del vicino, pur essendo il risultato di un contesto umano e sociale a dir poco unico, con l’alienazione dei personaggi che sembra la diretta conseguenza dell’isolamento geografico del territorio islandese, appare chiaro che l’intento del regista è fare di questo microcosmo un campione esportabile in ogni dove, per il fatto di ricalcare per filo e per segno il non senso della follia che attanaglia il genere umano. Senza causa apparente, che non sia quella della mancata potatura dell’albero colpevole di nascondere il sole all’abbronzatura della bella Eybjorg, il battibecco tra le parti in causa si trasforma in una guerra senza esclusioni di colpi, la quale, senza volerlo, finisce per coinvolgere anche coloro – persone e animali – che gli sono estranei.

Seppur sotto forma di metafora, L’albero del vicino ha dunque l’ambizione di preconizzare le sorti dell’intero ecumene. Per farlo Sigurdsson utilizza un minimalismo scenico e concettuale opposto alla grandeur delle intenzioni dichiarate in premessa: sulla carta personaggi e ambienti ridotti al minimo, scarso movimento della mdp, dialoghi che volano basso, mantenendosi sempre su livelli di anonima ordinarietà, non farebbero mai far pensare all’escalation di mestizia e brutalità che attendono l’ignaro spettatore. L’arma vincente, come si diceva, non ha niente a che vedere con questioni di opulenza visiva, bensì con la predisposizione a lavorare sulle psicologie dei personaggi, incalzati da un crescendo di nevrosi e situazioni tragicomiche (alla maniera di certo cinema scandinavo, per esempio di quello di Ruber Ostlund), che il montaggio di Kristjan Loamfiara mantiene sempre sopra il livello di guardia. Da non sottovalutare, nella considerazione complessiva dell’opera, le interpretazioni a fior di pelle dell’intero cast. Consigliato.
Carlo Ceofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)


mercoledì, giugno 27, 2018

DEI

Dei
di Cosimo Terlizzi
con Luigi Catani, Andrea Arcangeli, Martina Catalfamo
Italia, 2018
genere, drammatico
durata, 90


Si dice che esistano sei gradi di separazione attraverso i quali è possibile collegare un individuo a cose e persone. Lasciando ai sociologi il compito di dimostrare il percorso che ha portato alla formulazione delle predetta teoria, non c'è dubbio che almeno per le idee esista uno territorio comune al quale il nostro immaginario si rivolge e da cui esso attinge per sostanziare la propria ispirazione. Non stupisce dunque che mentre si guarda un film o si leggono le pagine di un libro possa nascere la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di già accaduto, che abbiamo vissuto in prima persona o per conto di altri. A volte si tratta di percezioni sfuggenti, senza una logica capace di dargli sostanza, talvolta, invece, è possibile stabilire traiettorie comuni che permettono di risalire alla scintilla creativa che unisce i percorsi di universi apparentemente disgiunti e però, almeno per un attimo, più simili di quanto si possa pensare. Una cosa del genere è accaduta durante la visione di "Dei", il nuovo film di Cosimo Terlizzi, artista multidisciplinare arrivato al cinema di finzione dopo un lungo lavoro di sperimentazione artistica e documentaria. Una delle caratteristiche più evidenti del film è quella di possedere uno sguardo autenticamene personale rispetto alla convenzionalità della struttura da romanzo di formazione, scelta per raccontare le vicissitudini di Martino, ragazzo di campagna il cui desiderio di libertà e di conoscenza è chiamato a emanciparsi dai retaggi e dalle sicurezze del proprio contesto famigliare. Con ciò non si vuole mettere le mani avanti rispetto a quanto si sta per dire, poiché sottolineare i punti di contatto tra l'opera di Terlizzi e l'ultimo libro di Paolo Giordano ("Divorare il cielo") - evidenti nei luoghi dell'azione (la Puglia, con l'entroterra rurale contrapposto agli spazio metropolitano), nel rapporto tra i personaggi (l'amicizia del protagonista con un sodalizio preesistente) e soprattutto nella visione panica della vita - non significa volerne sminuire la portata, quanto piuttosto evidenziare una continuità di intendimenti che si realizza utilizzando linguaggi diversi ma complementari, come quelli che riguardano la parola scritta (Giordano) e quella filmata (Terlizzi). 

Un connubio, questo, che "Dei" ribadisce a partire dal titolo, nel quale l'allusione alla mitologia greca e al Pantheon di eroi e divinità di cui si nutre l'immaginazione di Martino trovano corrispondenza nelle lezioni universitarie frequentate furtivamente dal protagonista e, di volta in volta, nell'eredità di pensiero dei classici greci e latini che riecheggia nel soliloquio a cui Martino da corso negli inserti onirici che fanno da doppio fondo alla prosaicità degli impegni quotidiani. Dello stesso tenore è la scelta di fare de "Il lupo della steppa" di Herman Hesse, il romanzo che Martino sta leggendo quando incontra Laura, Ettore e gli altri ragazzi della banda, una sorta di controcanto degli avvenimenti raccontati; scelta non casuale, se è vero che alla pari del libro, il film di Terlizzi altro non è se non il racconto di una crisi e del suo superamento, cosi come, alla pari del personaggio immaginato dalla scrittore tedesco, anche in quello pensato dall'autore pugliese la presa di coscienza di un mondo regolato da forze opposte diventa il viatico di una riconciliazione che interessa prima se stessi e poi gli altri. 

Trasportate sul piano cinematografico tali consapevolezze si traducono nell'allestimento di un dispositivo - dialogico e visuale - nel quale la dialettica esistenziale di Martino, diviso tra esigenze di ordine pratico, come quella di aiutare il padre a guadagnarsi il companatico, ed eccessi di sensibilità riconducibili alla tensione che lo spinge alla ricerca della bellezza e dell'armonia, trova una sintesi nella bohémien rappresentata dall'incontro di Martino con gli amici di Laura, la studentessa conosciuta sui banchi dell'università. Emancipati e vitali come i Dreamers bertolucciani gli outsider di Terlizzi non esauriscono le proprie prerogative nella funzione iniziatica svolta nei confronti del nuovo adepto ma sono l'incarnazione dell'energia che tutto crea e tutto distrugge, esseri soprannaturali non per il possesso di poterti straordinari ma per essere super partes rispetto alle regole della morale comune. 



A differenza di certi passaggi in cui la voglia di spiegare sembra prendere il sopravvento sulla capacità delle immagini di riuscirlo a fare, quelli dedicati agli stravaganti ragazzi si distinguono per l'efficacia con cui Terlizzi riesce a mettere in scena la metafora del film. Senza una precisa collocazione spazio temporale e - a differenza del protagonista - privi di una biografia in grado di elevarli allo status di personaggi, gli Dei di Terlizzi come quelli del pantheon greco manifestano le loro credenziali nella voluttà dei desideri, pietosi quando si tratta di prendersi cura di Martino, aiutandolo a trovare la propria strada, crudeli nel chiedere di rinunciare a una parte importante di se (in questo senso è esemplare la scena conclusiva) come posta in palio per ottenere la felicità, alla fluidità dei gusti sessuali, palesata nell'intercambiabilità dei ruoli all'interno del gruppo, e soprattutto a una diversa prospettiva sull'esistenza, riassunta dalla scena in cui gli stessi invitano Martino a guardare la città dal tetto dell'edificio per scoprirne aspetti fino allora sconosciuti. Certo, rispetto alle ambizioni poste in essere nella premessa non tutto riesce ad andare in porto. La sensazione è che le prerogative di commerciabilità del progetto, e quindi l'obbligo di rendersi comprensibile a un pubblico più vasto di quello a cui era sin qui abituato si sia trasformate in un restringimento delle possibilità espressive del regista. A nuocere al film è soprattutto la meccanicità con la quale si relazionano i diversi livelli di coscienza e lo schematismo con cui gli opposti (città e campagna, bene e male, modernità e tradizione) si alternano uno con l'altro. Detto questo, "Dei" resta comunque un'ipotesi di cinema praticabile a cui l'esercizio della prima volta non potrà che giovare.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

lunedì, giugno 25, 2018

THE ESCAPE


The escape
di Dominio Savage
con Gemma Arterton, Dominic Cooper, Frances Barber
Gran Bretagna, 2017
genere: drammatico 
durata: 105’


Tara è una donna della classe media inglese che vive nella periferia di Londra con Mark. Ha un diploma conseguito al conservatorio, due bimbi che ama, un marito affettuoso e tutti gli agi di una vita borghese. Per tutti quelli che la circondano, Tara ha una vita perfetta ma lei si sente costantemente insoddisfatta, fortemente infelice. Le manca qualcosa di fondamentale. Qualcosa di sconosciuto. Eppure nessuno della sua famiglia riesce a capire la profondità del suo malessere, al punto che Tara una mattina, nel bel mezzo della colazione, scappa di casa. Parigi è la destinazione scelta dalla donna che lascia marito e figli per ritrovare se stessa altrove. L'euforia di ricominciare da capo in una nuova città e una serie di incontri portano Tara a capire ciò che veramente desiderava da tempo.

Gemma Arterton esplora le infinite sfumature dei sentimenti che una donna prova nell'arco di una giornata, semplicemente lasciando parlare i silenzi, gli sguardi, le lacrime, più spesso che i sorrisi.
La performance eccellente dell'attrice britannica conosciuta in “Quantum of solace”, “Gemma Bovery” e “Prince of Persia - Le sabbie del tempo” tra gli altri, permette di accedere all'inconscio femminile che Dominic Savage osserva in “The Escape”. L'ultima opera del regista britannico è il dramma esistenziale di una donna che aspira alla realizzazione sociale e professionale oltre che familiare, non sempre scontata per le madri di famiglia. Savage compone il ritratto di una donna contemporanea qualsiasi, dilaniata tra le responsabilità di madre, gli oneri di moglie, gli impegni della casalinga e il bisogno di libertà proprio dell'essere umano. 

Se il marito, per quanto amorevole, è sempre assente per lavoro, la giornata di Tara è un calvario quotidiano che si ripete uguale giorno dopo giorno. Le attenzioni richieste dal marito appena sveglio, la confusione della colazione, la scelta della cravatta per Mark, portare i bimbi a scuola, riprendere i bimbi a scuola, la spesa pesante, la cena da preparare sono i momenti che si ripetono identici ogni giorno e che portano Tara all'insostenibilità del quotidiano. Il regista osserva la donna ripulire il tavolo già pulito o riassettare il letto già rifatto, in quei gesti reiterati automaticamente tra noia e un'irrequietezza latente.

Nella periferia di Londra, in una delle tante case con tetto spiovente e giardino, Tara ha l'impressione di trascorrere una vita in cui non si sente più viva. Eppure le sue grida di disperazione sono lunghi silenzi, lacrime nascoste, sospiri soffocati tra le lenzuola che neanche il marito riesce a vedere. Sulle note classicheggianti del pianoforte, che farebbero pensare alla serenità di una famiglia felice, Dominic Savage ci mostra invece il tormento interiore di una donna incompresa che solo a Londra, nel vento di un ponte sul Tamigi, riesce infine a respirare. Sullo sfondo dei rumori naturali d'ambiente, il regista ci conduce al centro di un dramma intimo e claustrofobico in cui l'unica soluzione per la donna sembra la fuga. Il fascino di Parigi, l'euforia di una nuova avventura e l'eccitazione di nuovi incontri la faranno risentire viva. Tara riscopre il desiderio per la vita che aveva perso. "La libertà arriva quando ti avvicini a chi sei veramente", le dice una signora a Parigi.

Savage segue pazientemente il percorso della donna alla ricerca di quella nuova persona che avrebbe sempre voluto essere e che la costringe a un atto coraggioso, definitivo. Savage tuttavia, non giudica tanto la scelta morale di una madre che abbandona egoisticamente i figli, né la tradizione culturale e sociale, ancora attuale, che affida alla donna la gestione di casa e famiglia, ma studia piuttosto gli impercettibili moti dell'animo di una donna in piena crisi esistenziale. I lunghi e frequenti primi piani sul viso di Tara, i dettagli dei suoi occhi tristi, della sua bocca, della sua pelle ritraggono l'angoscia muta che esplode nella follia di una scelta drastica. Così, dopo il grigiore di una fotografia ovattata e spenta, i colori sembrano finalmente tornare vividi e lucenti nelle scene di Parigi, in cui Tara riscopre la magia della vita. 

Senza enfasi e senza sentimentalismi, Dominic Savage condensa le emozioni in un dramma familiare che confida nella potenza dell'immagine. 
Riccardo Supino

domenica, giugno 24, 2018

ANON

Anon
di, Andrew Niccol
con, Clive Owen, Amanda Seyfried, Colm Freore, Mark O’Brien
Germania, 2018
durata, 100’


La constatazione d’un mondo in rovina non è pratica complicata. Per dire: ai pigri basta assecondare vieppiù il proprio carattere e aspettare. I più curiosi e/o irrequieti, privilegiando intenzioni propedeutiche, per coglierne i prodromi possono magari farsi un giro per le vie d’una qualunque metropoli moderna, meglio ancora se con qualche grammo di malumore addosso… Osservando la traiettoria artistica e riflettendo in controluce sull’indole di un autore come Andrew Niccol è possibile cioè desumere - anche al di là di un assunto che resta ovviamente congetturale - l’applicazione con cui egli si sia, diciamo così e nel frattempo, portato-avanti-col-lavoro. Scenari eventuali dominati da elusive quanto severe élite scientifiche; uomini e donne compressi in un presente impregnato di solitudine al quale opporre l’esile istanza di memorie spesso labili e contraddittorie, se non addirittura artificiose; routine quotidiane, oggetti del desiderio concepiti come simulazioni allettanti di orizzonti nemmeno più perduti gravitano, infatti e più o meno da sempre, attorno al nucleo di un Cinema - presago, pessimista, eppure screziato da un suo scabro romanticismo - quale appunto quello del regista neozelandese, per sua essenza attratto dalle ambiguità e dalle incognite proprie d’un rapporto - generalizzando, quello tra Natura e Cultura - i cui interpreti, l’essere umano da un lato e dall’altro la sua capacità, oggigiorno sul punto di sfuggire (qualcuno dice: sfuggita da un pezzo) al controllo, di trasformazione tecnica del mondo, reiterano senza posa, in particolare senza accorgersi della palese insensatezza di una pratica del genere, oramai poco più che una conversazione tra ciechi e sordi.


Itinerario simile percorre il racconto di questo recente “Anon” (contrazione di anonymous) - produzione Netflix - collocato nel contesto urbano di una delle innumerevolirealtà a venire tante volte intraviste sugli schermi, a modo loro testimonianze sparse, queste, di prospettive in veloce stato di avanzamento e, al tempo, d’una sorta d’inesorabilità che sempre più somiglia a un destino sinistro, quantunque con perversa ostinazione perseguito. Tra architetture e interni retrofuturisti, abili manipolazioni d’un armamentario figurativo e spaziale (pensiamo, per dire, a soluzioni già ampiamente collaudate in film come “Equilibrium” o “Aeon flux”) che rimonta alle intuizioni avanguardistiche del primo ‘900, su strade ordinate e rettilinee che chiudono, intersecandosi, le linee di fuga d’un uniforme, elegante e arcigno grigiore, sfilano sparuti e silenziosi campioni di fattezze sapiens, mentre la potenza di un cyberspazio onnipervasivo (detto Etere), connesso direttamente all’organo visivo d’ogni singolo individuo, trasmette istante per istante a un sistema di catalogazione di metadati governativo qualunque aspetto della realtà, classificandolo e riclassificandolo in un infinito processo di accumulazione di eventi, esperienze, impressioni, ricordi… Al vertice (o nell’abisso, è un fatto di punti di vista) di una siffatta e radicale razionalizzazione parimenti emerge l’evidenza d’un’antinomia, tipico granello di sabbia dentro l’ingranaggio, spauracchio impertinente dei più sofisticati appetiti sulla manipolazione totale. “Se tutto è connesso, tutto è vulnerabile”, appunto ammonisce turbato durante una riunione il capo dell’Unità Investigativa/Feore chiamato a indagare su una serie di strani omicidi i quali, in beffardo spregio a una procedura in teoria inattaccabile (per certi aspetti concorde a quella sperimentata in “Minority report”), lasciano alle proprie spalle, per via di impercettibili cesure e modifiche operate sulla scansione originale degli avvenimenti, indizi inservibili o aperti a fin troppe interpretazioni. A dirigere le operazioni viene così posto il Detective di Prima Classe Sal Frieland/Owen, uomo schivo e tormentato da un dolore di cui si sente in prima persona responsabile. Metodico e distaccato, lo sbirro non impiegherà molto a stabilire una relazione diretta fra gli spinosi delitti e una figura femminile/Seyfried (indicata col nomignolo da lei adoperato per comunicare nell’Etere, l’Anon del titolo), incontrata per caso, la cui identità risulta (nonostante la super tecnologia ottica) sconosciuta all’intero apparato anche se, e a maggior ragione in questa circostanza, le apparenze ingannano.


Scostante e impassibile, nel primato di superfici levigate virate di preferenza alla neutralità istituzionale del grigio interrotto qua e là da porzioni geometriche di buio riconducibili al noir classico, come pure addolcite dal giallo pastoso diffuso in ambienti per contro troppo grandi per conservare a lungo l’impronta di emozioni e desideri che non siano la desolazione e un impotente rimpianto, “Anon” mostra il suo tratto più convincente nello sforzo di rendere palpabile quella esasperata indolenza dei gesti e degli sguardi, quello sfinimento tardivo figlio d’una catastrofe morale prima ancora che sociale avvenuta e consumata in una sostanziale apatia, che travalica anche il determinismo elementare del crimine (di fatto strumento accessorio d’un disegno che ne ha surclassato la spietata efficienza), per lambire il vuoto, per certi aspetti perfetto, praticato su psicologie (e, di conseguenza, su prassi) irretite/traumatizzate da un’unica ossessione, quella di vedere. A sua volta, poi, paradossalmente mal gestita proprio da chi ha fatto di tutto per impossessarsene - il Potere - a favore - ma questo è già più banale - della specifica anomalia (qui l’ambigua Anon, minuta incarnazione di certe eroine hitchcockian-depalmiane, di sottili doppiezze, di compiacimenti voyeuristici e di contro-strategie di sopravvivenza, più che paladina di chissà quale palingenesi collettiva) che, in rappresentanza di quell’umanità residuale di cui anche Frieland, dopo tutto, fa parte e in virtù d’una allenata imprevedibilità, arriva a ritorcergli quell’ossessione contro, sancendo che “l’unico modo d’esistere è non esistere” e che l’unica, vera libertà consiste nel non concedere alcuna prova visiva di sé all’altro, chiunque esso sia.

Più compatto dal punto di vista stilistico che narrativo (alcuni nessi logici restano oscuri, altri si danno per scontati: su altri ancora si glissa), l’opera di Niccol aggiunge comunque un ulteriore, poco consolatorio, tassello a quel quadro a tinte sempre più fosche che per disperata abitudine continuiamo a chiamare futuro.
TFK

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Una moglie di John Cassavetes: backstage

sabato, giugno 23, 2018

OBBLIGO O VERITA'


Obbligo o verità
di Jeff Wadlow
con Lucy Hall, Tyler Posey
USA, 2018
genere, horror, thriller
durata, 103'

Nella scena iniziale di “Obbligo o verità” una macchina supera la frontiera degli  Stati Uniti ed entra in Messico. A uscirne è una ragazza che fugge da qualcosa che la terrorizza mentre noi non ne conosciamo la ragione. Se il diavolo si  nasconde nei dettagli l’inizio del film è quantomeno diabolico: la maledizione che costringe i personaggi a rispondere alle domande più scomode,  obbligandoli a non mentire - pena la morte - anche quando si tratta di rivelare i particolari più scabrosi su se stessi e sui propri amici, segna infatti il superamento di un confine più sottile che è appunto quello che separa la verità dalla menzogna e soprattutto la realtà dalla fantasia. 


Gli stessi opposti che, a fasi alterne, prendono il sopravvento sul senso della storia facendone da una parte il riflesso delle cronache sul disagio giovanile - sulla falsariga del teen movie esistenziale inaugurato su Netflix dalla serie “13” -, ora un horror tout court , di quelli in cui il gioco più innocuo (in questo caso quello della “bottiglia") si trasforma in un incubo per gli inconsapevoli partecipanti. Prodotto dall’oramai celebre Blumhouse,  il film di Jeff Wadlow si mantiene sugli standard della casa madre per quanto riguarda la confezione che, al solito, riesce a mascherare i limiti del budget riducendo lo spazio d’azione dei personaggi, quasi sempre confinati in interni poco diversificati e con la scelta di attori sconosciuti (la più nota - almeno per il pubblico americano è Lucy Hall che oltre a recitare è anche una cantante) ma con la faccia adatta all’occasione. Rispetto agli inizi e a film come “Insidious", “Sinister" ma anche a “Split" a latitare è l’originalità, con l’idea di base che si rivela un copia incolla dei vari “Ouija - L'origine del male”, “Midnight Man” e chi ne ha più ne metta. Nonostante questo il risultato finale è comunque accettabile perché Obbligo o verità non fa nulla per essere diverso da quello che in realtà, e cioè un film che non si prende mai sul serio se non nel mirare a essere un intrattenimento estivo per un pubblico senza molte pretese. 

venerdì, giugno 22, 2018

BLUE KIDS


Blue Kids
diAndrea Tagliaferri
con Fabrizio Falco, Agnese Claisse, Matilde Gioli
Italia, 2018
genere, drammatico
durata, 75


Nel sostanziare il malessere di certi stati esistenziali ci sono luoghi che risultano più ricorrenti di altri per la capacità di trascendere la geografia del paesaggio e diventare di colpo il riflesso della condizione umana dei personaggi. In questo senso il delta del Po, inteso come l’insieme di corsi d’acqua e superficie terrestre che dalla zone più  impervie del settore interno arriva ad affacciarsi sul mare adriatico, è stato spesso chiamato dal cinema a rappresentare la parte meno pittoresca e più oscura della provincia italiana. Pur riconoscibile, per le caratteristiche topografiche di talune ambientazioni (le valli del Comacchio), le location di Blue Kids fanno di tutto per svincolarsi dalle proprie origini, avendo l’ambizione di figurare come collettore di memorie che appartengono tanto alla cronaca contemporanea (il delitto di Novi Ligure) quanto a quella della sala cinematografica, essendo i delitti compiuti dalla coppia omicida protagonista della vicenda tanto simili per contesto e – mancanza di – motivazioni a un classico della New Hollywood quale La rabbia giovane di Terrence Malick. Figli dell’opulenza industriale sopravvissuta al terremoto della crisi economica, i due fratelli (Fabrizio Falco e Agnese Claisse) si aggirano senza meta dentro la storia, guidati da un istinto di morte che è pari solo  all’apatia che li consuma; “vuoti a perdere”, a cui  il regista Andrea Tagliaferri, qui all’esordio, consegna il fascino e la decadenza degli angeli caduti.

Tenendo a mente le teorie di sulla banalità del male e facendo propria la percezione di un tempo circoscritto al qui e ora dei “nuovi barbari”, Blue Kids azzera le spiegazioni sociologiche, privando i ragazzi di una biografia che in qualche modo permetta allo spettatore di risalire al punto di rottura. Al contrario, a essere mostrato è il male che li attanaglia e le conseguenze che questo è capace di  provocare a loro e agli altri. Tagliaferri fa sua la lezione del produttore Matteo Garrone (di cui è stato aiuto regista), assegnando al paesaggio naturale il compito di contribuire a costruire il senso del film. Il regista gli si rivolge mettendosi alla ricerca di simmetrie, di ripetizioni e discontinuità che, esaltate dall’assenza di figure umane e dalla staticità delle riprese, finiscono per trasfigurarlo, facendolo diventare il simbolo del vuoto e della solitudine che soffoca le vite dei personaggi. Non solo dei due protagonisti ma anche di Matilde Gioli, a cui Tagliaferri offre la possibilità di ritagliarsi una parte diversa da quelle a cui ultimamente ci aveva abituato.

La brevità del minutaggio (75’), al quale le peregrinazioni dei nostri offrivano la scusa di un’estensione di molto superiore testimoniano la volontà del regista di tenersi alla larga da lungaggini e intellettualismi. Costruito su un equilibrio precario ma suggestivo, Blue Kids avrebbe avuto bisogno di una scrittura più consistente, soprattutto quando si trattava di raccontare la fine dei giochi, provando a dirci qualcosa di più a proposito del legame che unisce i due protagonisti. D’altra parte la rarefazione narrativa è decisiva nel favorire la dimensione psicologica e mentale entro la quale si compie il disegno dei due reprobi. Bravi gli attori, interessante la regia.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

giovedì, giugno 21, 2018

DRIVE E THE NEON DEMON SU NETFLIX: L'ANALISI DI DUE CAPOLAVORI PER SCOPRIRE IL REGISTA DI CULTO DANESE



Valgano per tutti, solo per citare i fatti di casa nostra, gli esempi di Rimetti a noi i nostri debiti, presentato in via esclusiva dal colosso americano e, notizia di questi giorni, l’acquisto nientedimeno che di Lazzaro Felice. Non stupisce allora di ritrovare accanto a serie di successo e campioni d’incasso due dei titoli più importanti della filmografia di Nicolas Winding Refn, regista danese celebrato dai cultori per un approccio anticonformista e talvolta persino radicale alla materia affrontata. In realtà trattandosi, nel caso, di Drive (2011) e di The Neon Demon (2016), in sede di presentazione, qualche distinguo appare doveroso.


Girati entrambi in America, i titoli in questione rappresentano insieme a Solo Dio Perdona le tappe di una trilogia destinata a ridefinire il cinema di Nicolas Winding Refn, spingendolo, se è possibile, ancora più avanti in termini di stilizzazione e impeto visionario. Invero, Drive non lasciava presagire ciò che poi è stato, figurando, per impostazione e messinscena, tra le opere meno eversive del nostro. Frutto di uno script altrui ricevuto dal divo Gosling, che aveva imposto Refn alla produzione e disegnato su una delle forme di genere più popolari come quella della crime story, nelle mani dell’autore di Copenaghen il film tralascia di quest’ultima gli aspetti più convenzionali per concentrarsi su alcuni topoi più personali, a cominciare dalla narrazione che procede per archetipi – vedi la figura dello straniero senza nome (in effetti il protagonista non ne ha uno) figlia di un immaginario western, come pure il paesaggio umano caratterizzato da fanciulle da difendere e cattivi da sconfiggere a delineare l’eterna lotta tra bene e male presente in molta narrazione mainstream – e dalla scelta di un personaggio, quello del pilota d’auto determinato a sacrificarsi per proteggere la vita della vicina di casa e il figlioletto, minacciati da una banda di malviventi, silenzioso, impassibile quanto, all’occorrenza, spietato. Ed è proprio la tentazione della violenza, chiamata da Nicolas Winding Refn a sostituire la ragione delle parole, a costituire il terminale di ogni possibile nucleo passionale e al contempo il suo più esplicito surrogato. Ciononostante Drive viene accolto a Cannes da grandi favori e da un premio – quello alla migliore regia – che ne testimonia la sostanziale aderenza ai gusti di un pubblico generalista.


The Neon Demon, al contrario, arrivato tra l’altro dopo il flop critico e commerciale di Solo Dio perdona, ribalta le prospettive contenutistiche e formali del suddetto Drive, archiviando in via definitiva ogni aspettativa di accessibilità. Con questo non si vuole dire che il film in questione nasconda temi e finalità finanche evidenti nella volontà di incarnare attraverso la parabola della giovane modella Alice/E.Fanning un’idea di bellezza affascinante e mortifera, fino al punto di divorare se stessa e la propria ambizione. A cambiare, cioè, non è ad esempio la persistenza della violenza – se possibile qui ancora più crudele e sadica – quanto la maniera e il tono generale della narrazione: meno legata a meccanismi di causa effetto la prima, allucinatorio e quasi onirico, il secondo.

Va da sé che in uno scenario siffatto acquisti minor importanza la presenza del personaggio principale: per quanto il Gosling di Drive figurava dall’alto di un’icona in grado di rappresentare da sola l’intera vicenda, la Fanning di The Neon Demon è destinata, se non a scomparire nel carosello barocco allestitole intorno da Refn, quantomeno a recitarvi un ruolo forzatamente secondario. Apice della poetica di Nicolas Winding Refn e alla pari degli altri due, destinato a un culto limitato ma tenace, The Neon Demon è respinto dall’establishment senza appello. Non gli si perdona, tra l’altro, la mancata realizzazione delle promesse messe in campo con Drive.

A Netflix e al suo pubblico il compito dunque di restituire ciò che in sede critica è stato tolto soprattutto al secondo dei due capolavori, nella speranza che questa volta non ci siano altri ostacoli alla visione di entrambi.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

mercoledì, giugno 20, 2018

NOSFERATU - IL PRINCIPE DELLA NOTTE


Nosferatu – Il principe della notte

di Werner Herzog
con Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz
Germania, Francia, 1979
genere, horror
durata, 107’
La paura della solitudine.

Remake dell’omonima pellicola di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922, il Nosferatu  di Werner Herzog, uscito nel 1979, presenta anch’esso le stigmate del capolavoro dell’opera originale, riuscendo contemporaneamente a rimanergli fedele, riproponendone tagli e inquadrature, e al tempo stesso a rivisitarlo dal punto di vista poetico, strutturale e artistico,  portando a termine l’idea iniziale del regista di mostrare il legame che unisce il  cosiddetto  nuovo cinema tedesco, di cui egli fa parte, e il cinema espressionista del periodo della Repubblica di Weimar.  Herzog realizza un film dai tratti onirici e allucinati,  dai colori freddi ed eterei e dalle numerose citazioni pittoriche che trascinano lo spettatore in un viaggio in cui il confine tra realtà e sogno si fa sempre più sottile, così che a tratti la vicenda ci sembra essere frutto degli incubi di Lucy, come suggeriscono le immagini iniziali, o dei vaneggiamenti di Jonathan, fino ad assumere il punto di vista del conte Dracula.La storia ha uno sviluppo pressoché identico a quella del film di Murnau ma ne ribalta le prospettive. Il vampiro interpretato da Klaus Kinski, attore feticcio del regista, ispira così una forte empatia nello spettatore grazie ad una recitazione che, pur figlia degli insegnamenti di quella originale di Max Schreck, della quale vengono ripresi movimenti e posture, viene arricchita da Kinski con una nota fortemente drammatica e malinconica volta a sottolineare la solitudine del conte, lo strazio per la mancanza d’amore e i tormenti causati dall’incapacità di invecchiare e morire. Tale figura si va ad inserire nel novero dei personaggi, presenti nell’intera filmografia del cineasta, contraddistinti da una sorta di alterità a cui viene rivolto lo sguardo del regista proteso a scandagliare l’universo interiore di figure umane caratterizzate dalla diversità e dalla sofferenza, inserite in una comunità sociale che fatica ad accettarle e con le quali non riesce a comunicare. 

Il tema dell’incomunicabilità in realtà si manifesta in lunghi tratti della vicenda, e non riguarda solamente il personaggio del conte Dracula, basti pensare infatti alla diffidenza con cui Jonathan Harker accoglie gli avvertimenti degli zingari del posto, volti a scongiurare il suo incontro con il vampiro, o i tentativi della moglie Lucy di spiegare come ci si trovi di fronte al male assoluto e di come questo sia la causa dei deliri di Jonathan. Lucy, che assume nella parte finale del film il ruolo di protagonista, non viene creduta nemmeno dal dottor Van Helsing che pensa che le sue angosce  siano frutto di mere superstizioni, e nel suo vagare per le strade di Wismar, ormai in preda all’anarchia generata dalla peste, si ritrova anch’essa a vivere quella condizione di alterità, tipica del personaggio di Kinski, incapace di comprendere come sia possibile che essa sia l’unica persona preoccupata di una tale decadenza. Herzog fotografa l’intero film in maniera magistrale, ispirandosi all’arte romantica tedesca, in particolare ai quadri di Caspar David Friedrich, sia per l’utilizzo dei chiaro-scuri ma anche per la composizione di numerose inquadrature. Infatti osservando la passeggiata di fronte al mare di Jonathan e Lucy, ad esempio, è impossibile non notare la stretta somiglianza con il punto di vista e il cromatismo dell’opera Monaco in riva al mare (1810) ; lo stesso vale per le riprese degli splendidi paesaggi, le cui geometrie si rifanno al gusto estetico dell’arte di Friedrich capace di mostrare la natura in maniera idilliaca e malinconica, ma al tempo stesso minacciosa, e di farne uno dei soggetti principali senza mai utilizzarla come semplice sfondo. Per questo anche Herzog compone spesso le proprie scene in modo che il soggetto sia inquadrato di tergo mentre contempla la natura, secondo il Rückenfigur romantico. 

Un’altra fonte di ispirazione è sicuramente l’arte fiamminga, soprattutto per quanto riguarda una delle sequenze più memorabili del film che vede la piazza di Wismar invasa dai topi mentre si consuma l’ultimo banchetto di una borghesia ormai prossima alla morte. Qui il cineasta sembra rifarsi alle opere di Pieter Bruegel come il Combattimento tra carnevale e quaresima (1559) o  Il trionfo della morte (1566), sia per il gusto funereo e a tratti raccapricciante, che per l’analisi degli istinti primordiali, ma anche per lo splendido alternarsi tra un punto di vista dall’alto, volto ad inquadrare l’intera piazza, tipico del pittore fiammingo, e l’analisi dei singoli particolari dei macabri balli e  dei banchetti in cui si immerge la macchina da presa seguendo gli spostamenti di Lucy incredula di fronte a tale dissoluzione, accompagnata splendidamente  dal canto Zinzkaro georgiano. A creare ulteriormente l’atmosfera sognante, onirica e lisergica del film è sicuramente la colonna sonora affidata alla musica esoterica dei Popol Vuh, gruppo krautrock, già collaboratore di Herzog in Aguirre, furore di Dio (1972), ne L’enigma di Kaspar Hauser (1974) e successivamente in Fitzcarraldo (1982). I loro brani si integrano perfettamente con le immagini architettate dal regista, con quella natura affascinante e nemica dipinta nel film. Durante il viaggio verso la Transilvania il gruppo lascia spazio alla musica di Richard Wagner, in particolare al Preludio de L’oro del Reno, mentre nel finale, che vede Jonathan cavalcare ormai vampirizzato, possiamo sentire il Sanctus di Charles Gounod. In definitiva Herzog rilegge il Nosferatu di Murnau riuscendo a farlo suo, apparentemente senza stravolgerlo ma inserendo quei piccoli cambiamenti capaci di farne un’opera assolutamente originale, affascinante e drammatica che non smette mai di svelare, ad ogni visione, i suoi significati più nascosti rendendola semplicemente un capolavoro. 
Andrea Ravasi


                                




martedì, giugno 19, 2018

ULYSSES: THE DARK ODISSEY


Ulysses: The Dark Odissey
di Federico Alotto
con Andrea Zirio, Danny Glover, Anamaria Marinca, Udo Kier, Skin
Italia, 2018
genere, azione, drammatico
durata, 110'



Prima di entrare nel merito del lavoro svolto da Federico Alotto nel suo Ulysses: A Dark Odyssey vale la pena considerare le implicazioni derivate dalla scelta di ispirare la vicende del film a un classico dell’epica antica come quello scritto dal poeta Omero duemila anni fa.  Se, come lo è, il nostos di Johnny Ferro – soprannominato Ulysses -, reduce di guerra impegnato nella ricerca dell’amata Penelope e nell’eliminazione di coloro che glielo vorrebbero impedire, potrebbe essere la trama di uno dei tanti film prodotti dall’industria hollywoodiana, si ha la misura di quanto gli archetipi presenti in uno dei  grandi classici della letteratura greca siano ancora oggi fonte d’ispirazione per le nuove generazione di cineasti. Per contro c’è da dire che, di fronte a una fonte cosi sfruttata e popolare, a essere decisiva non è tanto il rispetto filologico della materia quanto la capacità di saperla tradire con un veste rinnovata e originale.

Sotto questo profilo Alotto non è da meno dei colleghi inglesi e alla pari del make-up operato dai vari Branagh e Loncraine sul testo e sul contesto delle tragedie shakesperiane, ambientando la sua Odissea in un futuro a noi molto vicino (il 2020), in una megalopoli (Torino, trasformata in  Taurus City) caotica e multirazziale in cui il malaffare è controllato dallo spietato Michael Ocean, determinato a ostacolare in tutti i modi possibile i propositi di Ulysses.

Prodotto in maniera indipendente, ma con l’ambizione di potersi confrontare con le grandi produzioni straniere e americane, Ulysses: A Dark Odyssey rinuncia – per forza di cose – alla grandeur scenografica e alle sequenze pirotecniche (sostituite in maniera efficace da inserti d’animazione) per concentrarsi sulle antinomie iconografiche dei personaggi e sulla loro caratterizzazione, tratteggiata all’insegna dell’eccentricità visiva e umorale, con  esasperazioni drammaturgiche chiamate a trasferire sul piano emotivo la decadenza e il terrore che si respirano per le strade della città. Confezionato per il mercato internazionale, il mix tra cinema mainstream e sguardo autoriale è garantito dallo status e sopratutto dall’immaginario che regalano gli interpreti, tra cui vale la pena ricordare il Danny Glover di Arma Letale, qui  nella parte del cattivo, la Anamaria Marinca di  4 mesi, 3 settimane e 2 giorni scelta per  il ruolo di Penelope e, ancora, Udo Kier e Skin, la cantante degli Skunk Anansie.

Carlo Cerofolini

(pubblicata su taxidrivers.it)

lunedì, giugno 18, 2018

DUE PICCOLI ITALIANI


Due piccoli italiani
di Paolo Sassanelli
con Paolo Sassanelli, Francesco Colella, Rian Gerritsen
Italia-Islanda, 2018
genere: commedia
durata: 94’


Felice e Salvatore sono entrambi ospiti di un centro di assistenza per malattie mentali. Mentre il secondo svolge mansioni di pulizia in alcuni stabili, il primo ha paura del mondo esterno e soprattutto è bloccato nel ricordo di una mamma che pensa di riuscire a ritrovare solo se potrà raggiungere l'Olanda. Quando Salvatore, che soffre di impotenza, si trova implicato in una situazione che gli fa pensare di aver commesso un grave reato nei confronti di una donna e di chi la difendeva, decide di fuggire. Porta con sé Felice e i due, una volta raggiunta l'Olanda, saranno coinvolti in situazioni tragicomiche.
Paolo Sassanelli, che non ha più nulla da dimostrare come attore cinematografico e televisivo e neppure come regista di corti, ha deciso di misurarsi con la regia di un lungometraggio, alla cui sceneggiatura ha collaborato. La sua prova raggiunge l'obiettivo, grazie soprattutto alla sua sensibilità e alla sua presenza. Questo on the road europeo, che dall'Italia si sposta in Olanda per 
raggiungere l'Islanda, alterna gag di facile presa ad altre che invece si ripiegano sulla tenerezza che suscita il suo personaggio. Ben coadiuvato dalla vigorosa presenza di Francesco Colella/Salvatore, Sassanelli è in grado di sostenere anche le situazioni più farsesche e anche un po' corrive grazie alla totale innocenza che riesce a conferire al suo personaggio. 
Felice ha subito un trauma durante l’infanzia, che lo ha mentalmente bloccato a un'età mentale intorno ai sette anni. Di un bambino ha tutte le paure e le ingenuità ma anche la determinazione necessaria per ritrovare il suo unico oggetto del desiderio: la mamma. I suoi sguardi, la tonalità della sua voce, il modo stesso in cui cammina permettono al suo interprete di iscriversi nella parte alta della classifica di coloro che hanno portato sul grande schermo il disagio mentale. 
Riccardo Supino

domenica, giugno 17, 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman: backstage

venerdì, giugno 15, 2018

GLI INVISIBILI: LUTON

Luton
di, Michalis Kostantatos
con, Eleftheria Komi, Nicholas Vlachakis, Christos Sapountzis
Grecia, 2013
genere, drammaticodurata,100’

Il mondo reale… non è affatto reale
- da “Lain” di Nakamura R. -



Che l’affermazione per cui Tutto ciò che è reale è razionale fosse quantomeno consolatoria, basterebbe ancora il vecchio Kant a certificarlo. La (cosiddetta) realtà, infatti, oggi come oggi coincidente con ciò che l’immaginario comune associa al termine Modernità, non è reale o non lo è più, tanto il suo gradiente di verosimiglianza s’è assottigliato approssimandosi via via a quello spazio inedito a cavallo tra simulazione e artificio vero e proprio cui sottende un insopprimibile quanto inconfessabile desiderio di autodistruzione.
Simile attonito appunto deve aver fatto capolino nella trama dei ragionamenti e delle pulsioni che hanno portato alla realizzazione di un’opera come “Luton”, del greco Kostantatos. Ciò è plausibile (e sconcertante) se, adeguandosi sin da subito allo scarto imposto da una visione solo in apparenza compiacente con un impianto descrittivo teso alla rappresentazione istantanea e impassibile dello stato più o meno reversibile di agonia imposto a un paese intero (la Grecia contemporanea, spolpata dall’ingordigia locale col beneplacito causidico, perché interessato, delle alchimie ragionieristiche internazionali), ci si dispone alla possibilità d’una lettura allegorica delle immagini che, imponendosi sia sul generico piano narrativo, sia sulla contingenza delle esperienze personali di un gruppo ristretto d’individui in un determinato momento storico, giunge a promuovere considerazioni (poco incoraggianti) sullo stesso significato e sul valore dell’esistenza umana (e di ciò che la caratterizza: legami, appetiti, passioni) nella lunga ed enigmatica transizione che oramai coinvolge non solo l’Occidente. Guardare, cioè, il vissuto come coazione a ripetere del legale Mary/Komi (avvinta dalla sua personale bolla fatta di routine burocratica, malcelata invidia per le femmine più giovani, shopping annoiato al quale estorcere l’ebbrezza di una - sebbene frustrata - masturbazione nei camerini di prova di un grande magazzino, figlia, a sua volta, del privilegio sociale di potersi permettere, nello sfacelo circostante, l’acquisto del superfluo senza negarsi il brivido supplementare di coniugare tale agio al suo abuso, ossia al capriccio d’un furto); del liceale Filipou/Vlachakis (abulico rampollo d’una famiglia abbiente dedito più che altro a una svogliata conservazione del proprio status, tra il formalismo impotente dei congiunti e il rigore asettico ma inefficace dell’esclusiva prassi scolastica - il Luton del titolo si riferisce proprio al college della cittadina britannica dove, senza il minimo trasporto, il ragazzo annuncia di volersi trasferire -); del tabaccaio Makis/Sapountzis (ambiguo e torvo esponente dei tanti invisibili con moglie e figli a carico; grumo di maggioranza silenziosa obbediente alle convenzioni sociali ma, chissà, pronto a esplodere: anedonico gaudente che acconsente a prendere la consorte sul tavolo apparecchiato mentre-i-bambini-dormono per poi ricominciare a piluccare i resti del pranzo come sovrappiù qualsiasi nel giorno del proprio compleanno), non si discosta molto dal cercare di praticare l’oramai disperata distinzione tra la distanza di sicurezza che il Cinema in astratto s’incarica di fornire e la materia di cui sono fatti i nostri giorni di uomini moderni all’-affacciarsi-di-un-nuovo-millennio: reviviscenza ipotetica che il film di Kostantatos, a mo’ di un calibrato crescendo (o, volendo, della progressiva costrizione esercitata da un subdolo cappio), trasforma, nel finale, in un opprimente strazio, reso ancor più crudele e prossimo tanto dalla linearità inesorabile che congiunge premesse e conseguenze (a evocare, su più vasta scala, il rapporto di causa-effetto che salda i fondamenti della nostra attuale convivenza alla complessità quasi inestricabile delle contraddizioni da questi generati), quanto dall’innaturale freddezza entro cui esse prendono forma e si consumano, secondo linee di forza ed esiti di una immediatezza/irriducibilità che chiama in causa e interroga, al di là di ogni finzione, i più anodini risvolti d’un quotidiano assurto, oggigiorno, a eterno e immutabile calco di sé stesso.


In altre parole: se la smagliante illusione del Cinema può (deve ?) bene o male supplire a quella carenza di aspettative/possibilità che la realtà s’impone di circoscrivere a testimonianza della propria primazia nell’approssimazione al rigore del vero, ecco che un gesto come quello di “Luton” - non privo, a tutta prima, di una certa meccanicità portato, per altro e a ben vedere, difficilmente eludibile all’interno di un ingranaggio che fa dell’ossessione/trappola della ripetizione uno dei perni attorno al quale far ruotare l’angoscia senza scampo di una comunità, di una società, di un modello scientemente calibrato sull’illusione più ammaliante, quella della razionalizzazione totale, indiscutibile - nel lucore laido di un grigiore dalle sembianze tenui ma dalla fibra indistruttibile, nell’accatastarsi persino lieve di dialoghi laconici, nella violenza subitanea ed efferata che sancisce il collasso dell’ordine superficiale delle cose (con prevedibile progressione, magari e come accennato, eppure con quella fastidiosa contiguità col qui-e-ora che lascia attoniti, tanto ci riguarda, stimabile per certi versi oltre, per dire, i precisi quanto fin troppo calibrati tableau di Seidl), semina a fondo il dubbio secondo cui l’irrazionale non tanto abbia fatto la sua comparsa sul palcoscenico del mondo - abitandolo infatti in pianta stabile e da sempre - quanto ne sia diventato il protagonista assoluto, calzando alla perfezione e in via definitiva i panni eschilei di ciò che attende alla soglie del buio e col tempo fiorisce.
TFK