Luton
di, Michalis Kostantatos
con, Eleftheria Komi, Nicholas Vlachakis, Christos Sapountzis
Grecia, 2013
genere, drammaticodurata,100’
Il mondo reale… non è affatto reale
- da “Lain” di Nakamura R. -
Che l’affermazione per cui Tutto ciò che è reale è razionale fosse quantomeno consolatoria, basterebbe ancora il vecchio Kant a certificarlo. La (cosiddetta) realtà, infatti, oggi come oggi coincidente con ciò che l’immaginario comune associa al termine Modernità, non è reale o non lo è più, tanto il suo gradiente di verosimiglianza s’è assottigliato approssimandosi via via a quello spazio inedito a cavallo tra simulazione e artificio vero e proprio cui sottende un insopprimibile quanto inconfessabile desiderio di autodistruzione.
Simile attonito appunto deve aver fatto capolino nella trama dei ragionamenti e delle pulsioni che hanno portato alla realizzazione di un’opera come “Luton”, del greco Kostantatos. Ciò è plausibile (e sconcertante) se, adeguandosi sin da subito allo scarto imposto da una visione solo in apparenza compiacente con un impianto descrittivo teso alla rappresentazione istantanea e impassibile dello stato più o meno reversibile di agonia imposto a un paese intero (la Grecia contemporanea, spolpata dall’ingordigia locale col beneplacito causidico, perché interessato, delle alchimie ragionieristiche internazionali), ci si dispone alla possibilità d’una lettura allegorica delle immagini che, imponendosi sia sul generico piano narrativo, sia sulla contingenza delle esperienze personali di un gruppo ristretto d’individui in un determinato momento storico, giunge a promuovere considerazioni (poco incoraggianti) sullo stesso significato e sul valore dell’esistenza umana (e di ciò che la caratterizza: legami, appetiti, passioni) nella lunga ed enigmatica transizione che oramai coinvolge non solo l’Occidente. Guardare, cioè, il vissuto come coazione a ripetere del legale Mary/Komi (avvinta dalla sua personale bolla fatta di routine burocratica, malcelata invidia per le femmine più giovani, shopping annoiato al quale estorcere l’ebbrezza di una - sebbene frustrata - masturbazione nei camerini di prova di un grande magazzino, figlia, a sua volta, del privilegio sociale di potersi permettere, nello sfacelo circostante, l’acquisto del superfluo senza negarsi il brivido supplementare di coniugare tale agio al suo abuso, ossia al capriccio d’un furto); del liceale Filipou/Vlachakis (abulico rampollo d’una famiglia abbiente dedito più che altro a una svogliata conservazione del proprio status, tra il formalismo impotente dei congiunti e il rigore asettico ma inefficace dell’esclusiva prassi scolastica - il Luton del titolo si riferisce proprio al college della cittadina britannica dove, senza il minimo trasporto, il ragazzo annuncia di volersi trasferire -); del tabaccaio Makis/Sapountzis (ambiguo e torvo esponente dei tanti invisibili con moglie e figli a carico; grumo di maggioranza silenziosa obbediente alle convenzioni sociali ma, chissà, pronto a esplodere: anedonico gaudente che acconsente a prendere la consorte sul tavolo apparecchiato mentre-i-bambini-dormono per poi ricominciare a piluccare i resti del pranzo come sovrappiù qualsiasi nel giorno del proprio compleanno), non si discosta molto dal cercare di praticare l’oramai disperata distinzione tra la distanza di sicurezza che il Cinema in astratto s’incarica di fornire e la materia di cui sono fatti i nostri giorni di uomini moderni all’-affacciarsi-di-un-nuovo- millennio: reviviscenza ipotetica che il film di Kostantatos, a mo’ di un calibrato crescendo (o, volendo, della progressiva costrizione esercitata da un subdolo cappio), trasforma, nel finale, in un opprimente strazio, reso ancor più crudele e prossimo tanto dalla linearità inesorabile che congiunge premesse e conseguenze (a evocare, su più vasta scala, il rapporto di causa-effetto che salda i fondamenti della nostra attuale convivenza alla complessità quasi inestricabile delle contraddizioni da questi generati), quanto dall’innaturale freddezza entro cui esse prendono forma e si consumano, secondo linee di forza ed esiti di una immediatezza/irriducibilità che chiama in causa e interroga, al di là di ogni finzione, i più anodini risvolti d’un quotidiano assurto, oggigiorno, a eterno e immutabile calco di sé stesso.
In altre parole: se la smagliante illusione del Cinema può (deve ?) bene o male supplire a quella carenza di aspettative/possibilità che la realtà s’impone di circoscrivere a testimonianza della propria primazia nell’approssimazione al rigore del vero, ecco che un gesto come quello di “Luton” - non privo, a tutta prima, di una certa meccanicità portato, per altro e a ben vedere, difficilmente eludibile all’interno di un ingranaggio che fa dell’ossessione/trappola della ripetizione uno dei perni attorno al quale far ruotare l’angoscia senza scampo di una comunità, di una società, di un modello scientemente calibrato sull’illusione più ammaliante, quella della razionalizzazione totale, indiscutibile - nel lucore laido di un grigiore dalle sembianze tenui ma dalla fibra indistruttibile, nell’accatastarsi persino lieve di dialoghi laconici, nella violenza subitanea ed efferata che sancisce il collasso dell’ordine superficiale delle cose (con prevedibile progressione, magari e come accennato, eppure con quella fastidiosa contiguità col qui-e-ora che lascia attoniti, tanto ci riguarda, stimabile per certi versi oltre, per dire, i precisi quanto fin troppo calibrati tableau di Seidl), semina a fondo il dubbio secondo cui l’irrazionale non tanto abbia fatto la sua comparsa sul palcoscenico del mondo - abitandolo infatti in pianta stabile e da sempre - quanto ne sia diventato il protagonista assoluto, calzando alla perfezione e in via definitiva i panni eschilei di ciò che attende alla soglie del buio e col tempo fiorisce.
TFK
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