L’arte della fuga (“L’art de la fugue”)
di Brice Cauvin
con Laurent Lafitte, Agnès Jaoui, Benjamin Biolay, Nicolas Bedos, Marie-Christine Barrault
Francia, 2014
genere, drammatico, sentimentale
durata, 100’
Una famiglia. Tre fratelli. Antoine vive da dieci anni con il suo affidabile compagno Adar e cova un malessere senza neanche volerselo ammettere. Gérard, suo fratello disoccupato, testardo e depresso, viene lasciato dalla moglie che ama un altro. Ariel, la collega di Antoine lo farà probabilmente riconciliare con la vita. Louis, il terzo fratello, è fidanzato da circa 10 anni con Julie ma la routine amorosa lo annoia e lo spinge tra le braccia di una donna sposata, Mathilde.
I genitori dei tre fratelli sullo sfondo del quadro con il loro negozio d'abbigliamento maschile e le loro aspirazioni volte a vedere i loro figli felici e sistemati coi loro compagni. Ma a volte la vita ha altri progetti..
Film tratto dall'omonimo romanzo del 1992 a firma dello scrittore americano Stephen McCauley, “L'arte della fuga” è la seconda opera cinematografica di Brice Cauvin, regista sensibile alla vita sentimentale di coppie in bilico tra la stabilità di una relazione consolidata e la ricerca di nuove sensazioni.
Già il titolo rinvia all’importanza della musica per il regista, strizzando l’occhio alla famosissima raccolta di componimenti di Johann Sebastian Bach. Il quadro iniziale è una colazione dei tre fratelli a casa dei genitori, un vero e proprio ritratto di famiglia con interni e vuole essere una presentazione dei tre fratelli allo spettatore, preludio di quelle fragilità dei tre protagonisti nei loro rapporti di coppia, avvolti nella spirale della routine.
Tre fratelli, tre uomini del tutto diversi tra loro sia per il modo di sentire ed emozionarsi, sia per il modo di convivere con l’ansia del tempo che scorre. Antoine sicuramente è il prediletto del regista, è quello che meglio incarna ognuno di noi: egli irrompe sulla scena in bicicletta, per poi fermarsi all’improvviso e scoppiare in un pianto inconsolabile, apparentemente senza motivo. Da qui inizia veramente il film, sviluppandosi poi a ritroso l’intera storia, quasi come se quel pianto avesse avuto la forza di rompere gli argini di quel negazionismo e di quel silenzio dietro i quali Antoine – e dunque ognuno di noi – si trincera per sopravvivere nell’apparente normalità dei sentimenti e della vita.
A poco a poco vediamo Antoine che si svela: torna a casa dove vive col suo compagno Adar da oltre dieci anni, ma non riesce a dormire con lui, motivando questo diniego non con una ragione sentimentale bensì invocando un fatto, quello di essere allergico al materasso e perciò solo costretto a dormire per terra da solo. Ma che significato può avere tutto questo? Antoine è un maestro nell’arte della fuga, e, nonostante viva empaticamente i rapporti affettivi dei suoi fratelli, ben comprendendo che Louis è fidanzato ma non innamorato più di Julie e che Gerard non ritornerà mai più con sua moglie, non riesce a vedere la sua vita con gli occhi del cuore. Sente il malessere di vivere la lo ricaccia indietro, lo nega con forza al punto che non riesce a viversi la sua storia con l’amante Alexis e si fa convincere da Adar – suo malgrado - a comprare insieme una nuova casa in cui andare a vivere insieme. E’ Antoine che ci svela il cuore dei suoi due fratelli: Gerard, depresso in quanto abbandonato da sua moglie irrimediabilmente e Louis, apparentemente felice con una bellissima fidanzata ma per la quale non ha più passione.
Gerard è l’unico a non negarsi il suo dolore: apertamente lo dichiara sin dalla scena della colazione in famiglia ed è il più sinceramente frustrato e annientato, ma proprio per questo sarà il solo che avrà la forza di buttarsi nell’amore. Ha il dubbio di cosa sia l’Amore ( “a vent’anni sai di essere innamorato.. ma a quaranta…?”), ma non accetta di vivere secondo un clichè. Louis è invece il “bello” il cd. tombeur de femme”, lui è l’antagonista di Gerard, non riesce a vivere al di fuori di un clichè ed in questo suo modo di sentire rappresenta la prosecuzione dei pensieri e convinzioni di suo padre che violentemente vuole incasellare la vita dei suoi figli in un matrimonio, in una convivenza, in un divorzio..
Ma il regista per tutto lo svolgimento del film ed a un ritmo sempre più incalzante spinge i protagonisti su in cima alla vetta della montagna, li costringe a mettersi a nudo davanti allo specchio ed ognuno di loro a quel punto prenderà una decisione, la personale propria decisione sulla vita. Se Louis confermerà le aspettative del padre, negandosi ogni passione per la vita per rispettare il clichè di coppia e di futuro marito con la donna che tutti amano come una figlia, Julie, Gerard proverà a respirare con ritmi nuovi rinascendo con una donna – Ariel – che a sorpresa si rivelerà importante per la sua esistenza e rinascita.
E Antoine? Antoine dalla cima della vetta che ha raggiunto si scioglierà finalmente in lacrime, smettendo di sfuggire alla melanconia di un amore finito o che forse mai è stato tale, cambiando pelle volando via in un altro paese non meglio specificato. Ma non ha importanza dove andrà: importante è il fatto che abbia deciso di andare via da Adar, da un clichè entro il quale non si riconosceva più, con ogni paura data dall’ignoto e dalla perdita di qualcosa che in fondo rappresentava una sicurezza per lui. Mentre Louis al suo rientro a casa trova Julie nuda che lo aspetta per riaverlo con sé ad ogni costo, facendoci l’amore, Antoine lascia Adar e tutte le sue certezze con un biglietto nella notte e Gerard si abbandona tra le braccia di Ariel ad un nuovo sole.
Il tutto avviene accompagnato dalle note della musica di François Peyrony che scatena una tempesta di emozioni ed un caos assordante per poi riuscire a ricondurre tutto ad Unità. Oltre a Peyrony vi è nel complesso una gradevole colonna sonora, che include anche anche Never let me go di Stacey Kent e la Fuga di Vivaldi (appunto) interpretata dagli Swingle Singers.
Ognuno dei tre fratelli ritrova a modo suo un equilibrio, non rimandando più al domani le proprie decisioni.
La madre dei tre protagonisti mentre parla in aeroporto con Antoine offre la chiave di (s)volta: “meglio avere rimorsi che rimpianti” confessa al figlio, inaspettatamente dicendogli che guardando indietro alla propria vita vede solo e principalmente un mare di rimpianti e di scelte sbagliate, fatte spesso solo per codardia e per non vivere al di fuori di una rassicurante etichettatura.
Da quella frase, che è anche il refrain del regista Cauvin, Antoine apre gli occhi, non ha più dubbi su ciò che deve fare per raggiungere la sua felicità. E finalmente sceglie.
Cauvin dirige i tre fratelli senza giustificarli, senza criticarli, ma limitandosi ad esporre i fatti davanti allo sguardo inquisitore dello spettatore, lasciando che sia lui stesso a farsi una propria idea e a trarre un proprio personale insegnamento anche dagli errori ed indecisioni degli stessi protagonisti.
Il risultato è che lo spettatore finisce con l’immedesimarsi nel disagio e nella spiacevole sensazione del tempo che scorre che attanaglia i protagonisti mentre vivono questa commedia agrodolce. Una commedia che in fondo altro non è se non la vita di tutti noi e che ci fa riflettere soprattutto sul fatto che in campo sentimentale non vi sono obblighi di obbedienza tout court a regole affettive imposti al di fuori di ogni logica e che la famiglia può essere estremamente violenta contro i suoi stessi componenti, costringendoli in maniera algida - per sopravvivere essa stessa come categoria ontologica - entro le maglie di etichette e preconcetti.
Parafrasando le parole del regista Luchino Visconti, se è vero che “E d’altronde siamo qui per questo: per bruciare finchè la morte, che è l’ultimo atto della vita, non completi l’opera trasformandoci in cenere”, è altrettanto vero che prima di ritornare cenere abbiamo l’obbligo morale per noi stessi di ritrovarci e di risplendere della nostra luce interiore.
Michela Montanari
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