La stanza delle meraviglie
di Todd Haynes
con Oakes Fegley, Julian Moore, Michelle Williams,
USA, 2017
genere, drammatico
durata, 117'
Quando di parla del cinema di Todd Haynes lo si fa di solito con la reverenza e la circospezione che di solito spetta ai registi cui si riconosce un arte superiore. Un talento quello dell'autore californiano che non si limita a vivere solo sul grande schermo, attraverso la bellezza delle composizioni visive e la straordinario camaleontismo dei suoi interpreti ma che è capace di trovare eco nei fatti della vita reale, trasfigurati secondo il modello esistenziale che riceviamo guardando i suoi film. Basti pensare, solo per fare un esempio, al lungometraggio d'esordio, in grado di scatenare l'interesse e in qualche caso il diniego dell'opinione pubblica, offesa dalla legittimità da parte dello stato di finanziare un lungometraggio che alla maniera di Poison (1991) osava trattare la questione omosessuale in maniera esplicita e senza alcuna ipocrisia. Rispetto a quegli inizi molte cose sono cambiate, a cominciare dallo status del regista, nel frattempo entrato a far parte del cinema che conta e quindi libero di scegliere con attenzione certosina i progetti a cui dedicarsi. D'altronde, l'esiguo numero di film che ne compongono la filmografia (sette in oltre 25 anni di carriera) conferma l'idea di un cinema molto pensato, frutto di lunghe riflessioni che tengono in conto il gusto cinefilo del regista, presente nei suoi film con omaggi e citazioni provenienti dal cinema più classico e nella perizia con cui Haynes è solito scegliere i suoi attori, ai quali spetta il compito (più importante) di dare voce e corpo alle emozioni contenute nelle sue composizioni visive.
E qui entriamo nel merito di "Wonderstruck", ultima fatica del regista statunitense, il quale, in attesa dell'uscita nazionale (prevista per Ottobre, data ottimale in ottica Oscar) ha presentato a Locarno un film che contiene molti motivi di continuità con quelli che lo hanno preceduto, pur a fronte di un tema come quello dell'infanzia che il regista americano non aveva mai affrontato direttamente, e che, in tale occasione, trova asilo nelle vicende dei piccoli Ben e Rose, i quali, per circostanze diverse ma con il medesimo obiettivo, giungono a New York con l' intenzione di ritrovare rispettivamente il padre e la madre da cui sono stati prematuramente separati. Detto che la struttura del film è divisa in due sezioni narrative separate dal punto di vista spazio temporale, e però , destinate a confluire magicamente nel medesimo luogo, bisogna notare che nella sceneggiatura di Brian Selznik, (ricavata dall'omonimo libro dello scrittore), il tempo ha una parte fondamentale non solo perché ha il compito di mettere in relazione esistenze che si compiono ad anni di distanza una dall'altra (quella di Rose, nel 1927, quella di Ben nel 1977) ma nell'opportunità offerta al regista di raccontare New York, da una parte, ricostruendola - in bianco e nero e senza sonoro - come fosse un capolavoro del cinema muto (espressamente citato dal regista in sede di presentazione) dall'altra, facendola resuscitare attraverso i colori (del grande Ed Lachman) e la musica tipici dell'epoca. Una contrappunto, quello tra il silenzio della prima e i rumori della seconda che non è solo la conseguenza di una scelta contingente, decisa dalla necessità di caratterizzare la distanza che separa i protagonisti ma piuttosto il modo con cui il regista permette allo spettatore di entrare nel mondo di Ben e Rose, i quali, essendo entrambi non udenti, percepiscono il mondo esterno senza la partitura di suoni che ne accompagna le azioni quotidiane.
Pur nella novità che rappresenta nella carriera del regista americano, "Wonderstruck" riesce ad alimentare la fantasia e l'immaginazione che sono tipici dell'infanzia con una serie di luoghi e di stilemi che appartengono di diritto alla poetica di Haynes e che sembrano intercettare alle origini la radice dei traumi e delle sofferenze degli uomini e delle donne che hanno attraversato le storie del regista. Così infatti appare la precarietà familiare dei due protagonisti, la struggente mancanza di una figura materna (in parte surrogata da una Julian Moore in versione dell'amata (da Haynes) Mary Poppins- che sia Ben che Rose hanno perso - che per motivi differenti fatica a stare dentro al proprio ruolo di madre, per non dire del desiderio di felicità, perseguito con scelte difficili e radicali come quella dei due bambini di lasciare la propria casa per avventurarsi nei pericoli della giungla metropolitana. Un'attitudine al cambiamento che è data in dote a tutti i personaggi di Haynes, e che Ben e Rose, in virtù della mancanza di sovrastrutture che caratterizza la loro giovane vita, santificano attraverso la purezza dei loro gesti. Ed è forse l'attitudine di Haynes ad identificare il suo sguardo con quello dei personaggi e quindi di testimoniare, attraverso un formalismo visivo (come sempre ineccepibile) la percezione dei suoi alter ego, a fare di "Wonderstruck" un opera con una sensibilità troppo adulta per ottenere la resa emotiva che ci si aspetterebbe da un film di questo genere. Ciononostante, rispetto alle stroncature ricevute a Cannes, secondo chi scrive a dir poco ingenerose, il film è tutt'altro che un'opera minore, bensì il segno di un eclettismo destinato a portarci nuovi tesori.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it/speciale festival di Locarno 70)
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