domenica, settembre 01, 2019

VENEZIA 76. AMERICAN SKIN

American skin
di Nate Parker
con Nate Parker, Omari Hardwick, Michael Warren
USA, 2019
genere: drammatico
durata: 89’


Torna sul grande schermo Nate Parker, regista, sceneggiatore e attore protagonista del dramma, con risvolti thriller, “American skin”.
La storia potrebbe sembrare “già vista” dal momento che l’argomento centrale attorno al quale ruota l’intera pellicola è l’assassinio, a sfondo razziale, del figlio del protagonista.
Lincoln Johnson sta percorrendo la strada di un quartiere residenziale insieme al figlio quattordicenne di ritorno da una serata con degli amici, quando due agenti della polizia fanno fermare l’auto, chiedendo i documenti all’autista. Quando, dopo aver controllato l’assicurazione fornitagli, uno dei due poliziotti invita Lincoln a scendere dalla vettura, il figlio prende il cellulare e inizia a filmare il tutto. La cosa non va, chiaramente, a genio ai due agenti e quello più vicino al ragazzo gli intima di posare il telefono. Alla continua insistenza, e quindi ribellione agli ordini, da parte del ragazzo, il poliziotto gli spara uccidendolo.
Questo è l’incipit dal quale si dirama una storia di denuncia sociale dove il razzismo la fa chiaramente da padrone. A seguito della morte del figlio, Lincoln organizzerà una sorta di vendetta che farà in modo di lasciare il segno. E lo spunto per questa sua azione arriva da un ragazzo, studente di cinema, che insieme a due compagni, ha intenzione di realizzare una sorta di documentario per parlare di ciò che è successo al quattordicenne ucciso.
Molto interessante l’utilizzo del cosiddetto metacinema, cioè il far passare uno dei ragazzi, parte integrante della troupe di questo documentario, come il vero regista dell’intero film. Il tutto, tranne alcuni brevi momenti, è girato proprio come se fosse il ragazzo a fare le riprese che risultano, per questo, tremolanti e acerbe. Sarebbe forse stato ancora più interessante se tutta la totalità del film fosse stata girata in questo modo. Nonostante ciò, però, il regista si rivela molto abile nell’usare stratagemmi che gli permettono di fingere di “non esistere” in qualche modo, come il discorso che il protagonista fa al figlio attraverso la webcam del computer, o ancora le telecamere di sorveglianza che riprendono ogni momento, anche quelli non ripresi dalla troupe e che sono proprio quelli che ci permettono di capire chi sta effettivamente effettuando le riprese. Altro forte elemento ad avvalorare questa scelta è lo sguardo in macchina del protagonista, in almeno due frangenti. Ciò a sottolineare l’importanza del momento e come se volesse veramente indirizzarsi al pubblico per metterlo di fronte ai fatti mostrati e chiedere un parere anche a lui.
Ben costruita la scena della sentenza e di tutto ciò che l’episodio centrale del film si porta inevitabilmente dietro, tanto che lo spettatore, alla fine, ha le idee ancora più confuse. Qual è il vero confine tra bene e male e giusto e sbagliato?
Al di là di certi dialoghi e di alcuni momenti nella parte iniziale del film che tendono ad appesantirlo, la storia e la sua costruzione funzionano e fanno sì che chi sta guardando rimanga fino all’ultimo istante incollato alla poltrona.
Veronica Ranocchi

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