domenica, settembre 22, 2019

LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO. INTERVISTA AL REGISTA DEL FILM KARIM AINOUZ



Vincitore della sezione Un Certain Regard alla scorsa edizione del Festival di Cannes, La vita invisibile di Euridice Gusmao è un affascinare quanto struggente melo contemporaneo dominato da due figure femminili da cui è impossibile non essere conquistati. Impegnato come presidente del GdA Directors Awards, abbiamo avvicinato il regista brasiliano per farci raccontare genesi e realizzazione del film



I pregi de La vita invisibile di Euridice Gusmao riguardano tanto i contenuti quanto la forma. Esemplare a tal proposito è la sequenza introduttiva. Non solo la rarefazione dell’elemento umano e la sospensione temporale prodotta dalla visione del paesaggio naturale in cui sono immerse le protagoniste ne riproducono l’esclusività del legame: da un lato, infatti, la frase rivolta a Euridice – “Vieni, sta per piovere” – è a dir poco sibillina sul destino avverso che attende le ragazze; dall’altro, lo sviluppo dell’azione, con Guida che precede la sorella e le porge la mano per aiutarla a superare le asperità del cammino, definisce come meglio non si potrebbe le differenze caratteriali della stessa Guida, intraprendente e istintiva, e di Euridice, riflessiva e giudiziosa.

Pensavo che nella prima scena fosse importante mettere tutto quello che ci sarebbe stato nella storia, ma che lo si dovesse mostrare in maniera metaforica. La cosa curiosa è che l’inizio era stato girato in maniera diversa, perché avevo previsto di presentare le sorelle alternativamente come adulte e come bambine. Per me la condizione delle due sorelle rimandava alla storia di Adamo e Eva, i quali se fossero rimasti nella natura, rinunciando alla civiltà, sarebbero potuto essere felici insieme. Questo vale anche per le protagoniste, altrettanto unite e solidali una con l’altra. In un certo senso, quando parlo del temporale che sta per giungere mi riferisco a ciò che sta arrivando al termine della giornata: parlo del patriarcato che irrompe sulle loro vite e le separa. A proposito del rapporto tra forma e contenuto, la scena in questione era anche un modo per introdurre la città di Rio che, appunto, è immersa nella natura. Inoltre, volevo trasmettere il mistero dato dal fatto che poco dopo aver lasciato quella scena le ragazze verranno separate e si perderanno.


Un’altra cosa interessante del tuo film è la commistione tra classico e contemporaneo. A  prima vista, ci troviamo davanti a una messinscena tradizionale, a cominciare dalla consequenzialità del montaggio e dalla centralità dei personaggi. A spezzare l’equilibrio interviene il lavoro all’interno dell’inquadratura, soprattutto per quanto riguarda l’uso del colore, spesso contraddistinto da una o più predominanti chiamate a caratterizzare la scena.  Come capita nella sequenza della sala da ballo in cui la passione di Guida per il suo innamorato colora di rosso l’intero ambiente. È un aspetto, questo, che mi è piaciuto molto.

Penso che questo sia stato un film difficile per me. Sono sempre molto interessato al melodramma e questo è il tipo di cinema che mi interessa. Se noti, tale forma cinematografica ti permette di parlare anche dei personaggi subalterni, quelli che in qualche modo vengono soffocati dalla società egemonica. Come hai potuto osservare, tutte queste cose rendono il film oltremodo vintage ed è questo il tipo di problema che ti ritrovi ad affrontare quando ti rivolgi a una storia ambientata nel passato ma girata oggi. Il punto era di come non farlo sembrare melenso, in quanto il problema del melodramma è quello di essere troppo dolce, mentre io volevo un film vivo e contemporaneo. Di solito il melodramma è molto pudico, mentre questo è un film sui corpi di donne che la gente cerca di addomesticare. La vita invisibile di Euridice Gusmao è dominato dalla presenza dei  corpi e poi dalla sensualità, fattore molto importante in questo film. Per quanto riguarda la forma sono partito dalla considerazione che le due sorelle vivono in un mondo artificiale. Lavorare sui colori è stata una scelta molta chiara ed era anche un modo per sedurre lo spettatore.

I colori dominanti sembrano quasi al neon.

Ottima osservazione! Ci sono colori del film che non esistono negli anni Cinquanta. Quelli al neon sono stati un modo per dare vivacità e forza visiva alla storia, utilizzando una palette contemporanea che potesse ricreare l’artificialità dell’ambiente. Parlo di artificialità perché questo film è incentrato per la maggior parte sul mantenimento di certe apparenze, come quella di conservare unita la famiglia tradizionale; parliamo di sovrastrutture destinate a diventare delle vere e proprie prigioni. Trattandosi di un film brasiliano, è per natura sopra le righe; noi non abbiamo paura di essere eccessivi o troppo zuccherosi, e la palette di colori era anche il modo di celebrare il nostro modo di essere.


Accanto a te avevi un direttore della fotografia come Hélène Louvart, conosciuta anche in Italia per aver illuminato le opere di Alice Rohrwacher. Com’è  stato lavorarci insieme?

È stata la prima occasione che ho avuto di lavorare con lei e la ragione per cui l’ho cercata è il film di Alice, lo straordinario Le meraviglie. Per me non è scontato collaborare con una persona nuova, è un po’ come fare l’amore la prima volta, non sai come muoverti. Helene si è rivelata una fantastica collaboratrice: una cosa che mi è piaciuta molto di lei è la sua libertà “punk”, ma anche il rigore e la presenza nei riguardi della storia. Il suo è un modo di lavorare molto aperto e maturo. Avere lei dietro la macchina da presa mi ha permesso molta più intimità con le attrici, perché lei è capace di creare un campo magnetico molto particolare. Questo è il mio primo film girato in digitale perché di solito ho avuto la fortuna di impiegare la pellicola. Helene ne è molto esperta, ma neanche per un momento ha pensato di far sembrare il digitale ciò che non è. Se guardi bene, puoi notare quelle che sono le caratteristiche tipiche del digitale, quali il rumore e una certa sovraesposizione.


Volevo chiederti del suo modo di mescolare la luce naturale e quella artificiale. Lei è molto brava in questo tipo di operazione.

La costruzione delle luci è molto importante non solo in termini estetici ma perché ti aiuta a raccontare la storia. Ogni cosa quindi veniva usata per raccontare le azioni dei personaggi. Se per esempio Guida si trovava da sola in casa e di colpo veniva assalita dalle emozioni eravamo sempre lì, pronti a capire in che modo i suoi sentimenti potessero essere tradotti in colore. Hélène è stata in un certo modo punk (ride, ndr) ma comunque delicata nelle riprese.

Un’ultima domanda sulle protagoniste: una, Julia Stockler, è un po’ un tipo alla Penelope Cruz, l’altra, Carol Duarte, ha corpo e modi da Greta Garbo.

Penso sia stato importante che fossero molto diverse una dall’altra ma che avessero anche qualcosa di simile, per esempio il naso. C’è qualcosa di simile nei loro nasi! È stato importante anche che i loro corpi fossero diversi: uno è come le statue di Giacometti, l’altro esattamente il contrario. Mentre facevo i casting ho cercato di tenerlo sempre presente. Queste due ragazze che non si erano mai incontrare prima le ho trovate molto adatte non solo come attrici ma anche per la magica energia esistente tra di loro. Sul set erano come sorelle, diverse ma legate.  Ho scherzato sul naso, ma prima delle riprese abbiamo trascorso molto tempo insieme e si era creata un’intimità che si è poi trasportata sullo schermo.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

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