venerdì, settembre 06, 2019

VENEZIA 76. MOFFIE

Moffie
di Oliver Hermanus
con Kai Luke Brummer, Ryan De Villiers, Matthew Vey
Sudafrica, Gran Bretagna, 2019
genere: drammatico
durata: 103’


Il giovane sudafricano Nick decide di arruolarsi per difendere il proprio paese, in guerra con l’Angola e contro l’apartheid poiché il suo paese ritiene una minaccia tutti i neri tanto da doverli letteralmente eliminare. Nick non sembra, però, dello stesso avviso. La sua decisione di prendere parte all’esercito è dettata, oltre che dalla leva obbligatoria, semplicemente dalla sua volontà di nascondersi e non mostrare al mondo la sua propria identità: il fatto di essere attratto dai ragazzi. Un episodio che lo ha visto protagonista da giovanissimo lo ha portato a riflettere su questa decisione. Fin da subito, però, l’addestramento risulta tutt’altro che semplice. Le prove e gli esercizi che vengono imposti mettono tutti a dura prova, chi più chi meno, per poter permettere ai superiori di fare una scrematura. Nick conosce i suoi compagni, diventa amico di uno in particolare, ma è durante una notte in una sorta di trincea da loro costruita che si avvicina a un commilitone e ne rimane affascinato.
Interessante l’approccio adottato da Oliver Hermanus che ci mostra la situazione sudafricana da un’angolazione e un punto di vista diversi dal solito, affrontando una tematica non semplice perché il rischio di cadere in cliché è alto. Invece il suo Nick riesce a non essere scontato. Non si tratta della classica storia perché l’ostacolo che devono superare i ragazzi e, nel caso specifico, il protagonista è insormontabile. Sembra quasi un nascondersi all’interno di un nascondiglio.
Nella sezione orizzonti “Moffie”, che tradotto significa “checca”, mostra nient’altro che la fragilità di un ragazzo che deve trovare la propria identità. E il regista riesce abilmente in questo grazie ai numerosi primi piani del giovane che riescono a trasmettere il suo smarrimento.
Sono molti i silenzi all’interno del film, in modo da lasciare che lo spettatore possa riflettere e trarre la sua conclusione.
Conclusione che, senza fare spoiler, viene lasciata proprio al pubblico che è come se dovesse decidere le sorti del futuro del ragazzo. Nick è una sorta di burattino, anche perché è quello che ha sempre voluto essere fin da piccolo: rendersi invisibile agli occhi degli altri in modo tale da non dover dare troppe spiegazioni.
Dal punto di vista tecnico, da tenere presente soprattutto il flashback dell’infanzia di Nick, descritto abilmente attraverso un lungo piano sequenza che crea ancora più insicurezza nel personaggio, ma che permette di vedere, per un attimo, il mondo dal suo punto di vista. E proprio grazie a questo si possono comprendere anche altri piani sequenza presenti all’interno del film e sempre legati al personaggio in questione, come avvolto da tutta una serie di circostanze che lo circondano e con le quali vorrebbe non avere a che fare. Un utilizzo, quindi, della tecnica anche per dare un valore simbolico a ciò che si vede sullo schermo dando l’idea, appunto, che la macchina da presa possa, in un certo senso, incarnare lo stato d’animo del protagonista.
Veronica Ranocchi

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