domenica, settembre 22, 2019

INVISIBILI: THE KINGS OF SUMMER


The kings of summer
di, JordanVogt-Roberts
con: Nick Robinson, Gabriel Basso, Mosés Arias, Nick Offerman, Erin Moriarty, Alison Brie, Megan Mullally, Lili Reinhart
Usa, 2013
genere, drammatico, commedia
durata, 90’


Looking for a ride to your secret location
where the kids are setting up a free speed nation for you
Got a foghorn and a drum and a hammer that's rockin'
and a cord and a pedal and a lock that'll do for now
- Sonic Youth -


Difficilmente si potrebbe penetrare appieno l’american way of life qualora si decidesse di trascurarne uno dei grimaldelli culturali che ne facilita l’accesso, vale a dire il cosiddetto teen movie, meglio ancora se declinato nella variante introspettivo-ribelle. E ciò per la ragione - invero intuitiva - in base alla quale all’interno dei rizomatici e variabili incastri su cui può poggiarsi la sua struttura è possibile riconoscere il lavorìo di un laboratorio sociale in miniatura in cui si ricalcano più o meno pedissequamente le logiche coercitive del mondo adulto (un esempio: “Welcome to the dollhouse”, di Solondz); si approntano resistenze non di rado brutali o grottesche per cui goliardia, sana cattiveria e sprezzo del ridicolo ne smascherano le vere sembianze fino a una letterale autofagia (“The society”, di Yuzna - mettiamo - per non parlare del leggendario “National lampoon’s animal house”, di Landis); si sottolineano gli slanci esitanti e/o sofferti in cerca di personali vie alternative al fine di non replicarne bruttezze e vicoli ciechi (vedi “Leave no trace”, della Granik o, tra i più recenti, “Firecrackers”, della Mozzafari). Tale prossimità di prospettive, di atteggiamenti - in sintesi, di linguaggi - in un paese in cui la giovinezza non è mai stato solo un riferimento anagrafico (Whitman docet) ma un valore, uno dei tratti distintivi di un popolo che a essa sembra addirittura votato, tanto alcuni caratteri di quella - ingenuità intesa come fiducia e sostanziale ottimismo, esuberanza fisica, apertura verso il futuro, cocciuta fedeltà a una insofferente autarchia, alla vertigine illusoria del viaggio et. - nel teen movie vanno a sovrapporsi con ragionevole approssimazione ai tratti più intimi della sua essenza, torna utile allo scopo di comprendere un po’ più in dettaglio questo modo così particolare di guardare al mondo, alle sue contraddizioni; questo spirito spesso ai nostri occhi europei oltremodo stupefacente e sconcertante, appetibile ma con un che di sgradevole, in apparenza risolto ma percorso da sinistre inquietudini. Se poi la predetta visione - di per sé già peculiare - viene calata in quella sorta di cornice ideale che è il suo ambiente di elezione, vale a dire lo scenario naturale, ossia, di nuovo, la tante volte menzionata wilderness, ecco che il quadro descritto assume la sua fisionomia definitiva, a dire quella di un canone autosufficiente, provvisto di riferimenti filosofico-letterari (da Thoreau a Twain, quindi London, passando per Hemingway, giù fino a Johnson, et.); iconografici (da Homer a Hopper, et.); storici (il far west e il mito della frontiera sono, prima di ogni altra suggestione, l’immagine stessa di un corpo-a-corpo ingaggiato con la Natura); musicali (da Guthrie al gospel, da Seeger a Dylan, dal blues al country, et.).

Tutto ciò per introdurre un lavoro come “The kings of summer” dell’esordiente Vogt-Roberts, bildungsroman agreste sullo sfondo dei rigogli boschivi dell’Ohio (dove il film è stato girato, anche se il luogo centrale dell’azione - Tottenville - richiama l’omonimo sobborgo situato a Staten Island, NY), già dal titolo sbilanciato verso l’esplorazione di volontà vergini quanto inclini alla deformazione ironica della realtà una volta giunte alla soglia della consapevolezza, al punto di dover individuare nel cuore di una parentesi privilegiata, dopo l’inevitabile impatto, quell’equilibrio minimo tra sé e il mondo esterno inteso sia come paesaggio vivente che come organizzazione (sociale) precostituita (per molti aspetti, a ben vedere, dilemma simile declinato, stavolta secondo coordinate iper-spettacolari, nel successivo “Kong: Skull Island”). Da subito, infatti, le vicende che vedono coinvolti Joe/Robinson, quindicenne in conflitto con un padre, Frank/Offerman, sardonico tiranno in cerca di una alternativa soddisfacente da opporre a un destino di vedovo burbero; Patrick/Basso, ragazzone della squadra di lotta del liceo angariato dalla sollecitudine stucchevole di genitori estratti di peso dalle pagine di un catalogo di vendite per corrispondenza; e Biaggio/Arias, variazione sconcertata dei ragazzini-liberi-pensatori di “Captain Fantastic”, minuto e strambo soggetto dalle pretese attitudini marziali e dispensatore di aforismi criptico-paradossali a getto continuo (“Ieri ho incontrato un cane randagio che mi ha insegnato cos’è la morte”; “Un orso che non crede a niente è più facile da abbattere”; “Sono gay” - parlando con Joe - “Ma sei sicuro ?”. “I miei polmoni si riempiono di liquido a ogni cambio di stagione”), si caratterizzano, oltreché per la spiccata - e ovvia - insofferenza nei confronti delle mediazioni poste dall’Autorità (la scuola, la famiglia, le stesse consorterie generazionali a cui i coetanei cercano di appartenere per alimentare la propria autostima), per una divertita messa alla berlina - cosa questa già meno scontata - delle sue incoerenze e inadeguatezze (il padre di Joe non solo costringe il figlio a partecipare a lunghe sessioni di Monopoli ma conta di vincere anche barando; i genitori di Patrick ne valutano la dignità estetica a partire dall’ipotetico giudizio che potrebbero darne i vicini a seconda del maggiore o minore stato di cura del suo aspetto), entro cui convogliare, assieme alle impellenze e alle sprovvedutezze dell’età, il desiderio di dare forma e consistenza personali alla parola libertà diventando, motuproprio, i re dell’estate.

Lungi da desolati abissi metropolitani (ricordiamo, per citarne solo uno, “Heaven knows what” dei fratelli Safdie), dalla spensieratezza minata dal disincanto che anima il tentativo estremo di un film come il “Dazed and confused” di Linklater di farsi racconto morale sul crinale di un cinismo illusoriamente elevato ad antidoto contro il fallimento dei tempi in corso (e di quelli a venire), impermeabile agli ingorghi nevrotici sull’essere sempre e comunque cool e sulla popolarità, la sfida di Joe - e in trasparenza di Vogt-Roberts - si concentra sulla pazza idea di mollare, finita la scuola e con l’approssimarsi della bella stagione, senza proclami o gesti plateali, senza avvisaglie autodistruttive ma con un sorriso furtivo sulle labbra, le comodità casalinghe e le oramai trite incomprensioni per trovare un posto appartato in qualche angolo di bosco, metter su casa con gli amici e lasciarsi alle spalle obblighi, restrizioni e scadenze. In fondo basta dire ai rispettivi genitori di volersi trattenere un giorno o due dai compagni, sottrarre un certo numero di attrezzi dalla rimessa, un po’ di contante dalle tasche giuste, materiali di scarto da un cantiere e l’avventura può cominciare, alla scoperta di un mondo che per la prima volta (prodigio poco riconosciuto all’adolescenza, in specie in quest’Occidente dalle passioni tristi) sembra nuovo di zecca (“Ma che ora è ?”, dice Patrick a Joe che lo sveglia punzecchiandolo con un bastone. “Chissenefrega”, fa Joe, “Siamo nel bosco. Il tempo non esiste nel bosco. Andiamo a esplorare !”). L’idillio virile funziona - ed è la parte più imprevedibile e accattivante dell’opera - tra corse nei campi, battute di caccia dai risultati altalenanti condotte con machete e spadone simil-excalibur, incursioni tra gli avanzi di un diner per integrare la dieta, improvvisati rituali propiziatori (scene in cui sovente si opta per la frontalità di campi medi e ravvicinati sostenuta da una pastosa luce amniotica tale da esaltare l’epifania di quella condizione di irripetibile grazia originaria racchiusa in istanti che, eccedendo il corso delle cose, si trasfigurano in una armonia superiore ampliando quel territorio già tutto da scoprire sospeso, tanto per fare mente locale, tra la tensione magico-onirica di “Butter on the latch”, della Decker, e il rigore astratto di “Gerry”, di Van Sant; e, al tempo, spazio di riferimento in cui il Cinema Americano ogni volta reinventa e pasce la sua devozione per la giovinezza scoperta e celebrata a contatto con la Natura nel tentativo di avvicinarla al proprio Io più profondo), fin quando fa capolino, mentre polizia e mezza comunità locale cominciano a mettersi sulle tracce dei tre, l’elemento perturbatore per antonomasia, quello femminile, qui incarnato dalla bionda Kelly/Moriarty, intrigante e sveglia infatuazione inespressa di Joe la quale, complice la dabbenaggine del novello Robinson certo di fare colpo invitandola nell’eremo segreto, finisce manco a dirlo tra le braccia di Patrick, da cui il più incontrollabile e ridicolo degli scazzi (“Tutto filava liscio prima che tu arrivassi. Sei come il cancro !”), nonché l’avvitarsi progressivo dell’utopia.

Approdo sempre evitabile quantunque piuttosto consueto nel genere, la faccenda da qui assume toni e sfumature concilianti, a dire per didascalia costruttivi, con tanto di evento catalizzatore atto a ricompattare in una dimensione più matura il quadro delle aspettative e delle relazioni, instradando di contro il passo smaliziato e noncurante degli inizi sul binario di una scaltra accettazione/comprensione, come se ciò non rimasse anche e pericolosamente con rassegnazione. Ma questo non ditelo a Joe.
TFK

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