lunedì, gennaio 16, 2023

AFTERSUN

Aftersun

di Charlotte Wells

con Paul Mescal, Francesca Corio, Celia Rowlson-Hall

UK, USA, 2022

genere: drammatico

durata: 101’

Il debutto alla regia di Charlotte Wells è un toccante racconto di quello che è il rapporto tra un giovanissimo padre e una figlia di undici anni.

Tutto ci viene mostrato, fin dall’inizio, come un ricordo perché di questo si tratta. Addirittura mentre scorrono i titoli di testa, si percepisce il suono di quello che è il ricordo: i clic di quella che può essere una macchina fotografica così come di un apparecchio di registrazione introducono lo spettatore in quello che vedrà sullo schermo. Si tratta del ricordo di Sophie, ormai circa trentenne che ricorda il viaggio fatto in Turchia con il padre quando questi aveva la stessa età che ha lei adesso. E tutto il film è il ricordo di quello che è stato e non potrà più essere, di quella comunicazione che poteva esserci tra loro, ma che di fatto è sempre stata nascosta dal “non detto”.

Una mancanza di comunicazione, ma, al tempo stesso, una riflessione su cosa si sarebbero potuti dire e su come avrebbero potuto confidarsi l’uno nell’altra per capire forse molto di più, anche del futuro.

Questo è contemporaneamente sia la trama che il messaggio che Charlotte Wells vuole dare al suo film che lei stessa ha definito “emotivamente autobiografico”.

A colpire di questo film, oltre alla storia, tremendamente autentica e sincera, è il modo in cui viene “raccontata”. Lo spettatore vede innanzitutto il ricordo come se fosse la realtà presente, ma soprattutto lo vede principalmente attraverso gli occhi di una bambina che, proprio perché ancora piccola, non è in grado di comprendere tutto, anche se si sta “aprendo” al mondo, in qualche modo.

In entrambi i sensi ad aiutare c’è una regia sempre al punto giusto. Una regia che prende per mano lo spettatore e che gli ricorda che quello che sta vedendo è un ricordo continuo, interrotto, saltuariamente, da immagini irrealizzabili che, però, paradossalmente, riportano con i piedi per terra. Una su tutte è la sequenza in discoteca nella quale si “incontrano” il padre, Calum (interpretato da un sorprendente Paul Mescal), e la Sophie adulta. Sequenza irrealizzabile o meglio inverosimile perché la Sophie adulta non può più parlare con il proprio padre né tantomeno avrebbe comunque potuto farlo all’età mostrata.

Per quanto riguarda, invece, l’altro aspetto, inevitabile trattandosi del ricordo della stessa, la Wells riesce, attraverso alcuni geniali escamotage, a farci comprendere la situazione e a far aleggiare su tutti una sensazione di presagio di morte. Lo si vede in alcune scene, quella dell’autobus che, in base a come è girata, sembra riuscire a investire il giovane padre, ma anche quelle in cui la piccola protagonista è come abbandonata in balia di sé stessa.

Sophie (un’eccellente Francesca Corio), nonostante la giovane età, ha capito molto più di quanto si possa pensare e di quanto possa pensare il padre stesso. Si accorge di dettagli, di persone, di situazioni che possono passare inosservati. E lo fa in silenzio, con quello che, solo apparentemente, è lo sguardo di una bambina che ancora non conosce il mondo. Ma Sophie è già grande, i suoi 11 anni sono in realtà molti di più. È costretta a crescere prima del previsto, tanto che nel film arriviamo a vedere invertiti i ruoli di padre-figlia. Se inizialmente è lui a spalmare la crema solare alla figlia, è lui a dirle cosa fare, dove andare, con chi stare e averne cura, con il passare del tempo, è lei che inizia a prendersi cura del genitore, arrivando anche “simbolicamente” a coprirlo con la coperta.

Interessanti, poi, sono altri due aspetti che costituiscono una parte importante dell’intero film: i silenzi e le riprese. Sono tante le scene in cui si percepisce solo e soltanto il respiro dei personaggi che, soli o in compagnia, non pronunciano parole, ma si osservano, pensano, riflettono. Un silenzio che si fa pesante e che diventa più significativo ed emblematico di tante parole.

E, infine, le riprese, un po’ sfocate, un po’ con effetti riconducibili volutamente al passato, oltre a mettere ancora di più in luce il fatto che si tratti di un ricordo che nasce da riprese effettuate da quella che all’epoca era una bambina di 11 anni, mostrano anche la precarietà di tutto questo. Ormai la vacanza in Turchia non è che un ricordo, sempre più lontano e sempre più flebile. Nonostante questo, però, Sophie ricorda momenti e dettagli importanti e fondamentali. E, anche se non si sono parlati apertamente, lei conserva in maniera indelebile il ricordo del padre, a prescindere da quello specifico momento.

Mentre tutto quello che circonda Sophie in quella vacanza è giovane, pieno di vita ed entusiasmo, il padre sembra andare in una direzione completamente opposta, quasi a sfiorire, come nella metaforica scena finale in un lungo e profondo corridoio bianco.

Un film che, nel suo silenzio, nel suo essere “sbiadito” come un ricordo, si impone, invece, contro l’eccesso e l’esagerazione di parole, immagini e molto altro.

“Aftersun” è un film che fa del ricordo un ricordo stesso.


Veronica Ranocchi 

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