Babylon
di Damien Chazelle
con Brad Pitt, Margot
Robbie, Diego Calva
USA, 2022
genere: commedia,
storico, drammatico
durata: 189’
Arrivato in Italia sulla
scia del flop americano, “Babylon” è forse il film più libero e coraggioso di
Damien Chazelle, summa dei temi e delle ossessioni della sua filmografia.
La prima cosa che si nota
guardando Babylon è il cambio di registro operato dall’autore. I modi calmi e
misurati propri di una classicità di cui Damien Chazelle era stato invocato
cantore, qui lasciano il posto all’eccesso delle pulsioni più incontrollate. Le
prime sequenze non lasciano dubbi, tanto le immagini risultano un tripudio di
istinti disparati. Dall’elefantiaca defecazione che investe l’aspirante attore
messicano, metafora di quel lavoro sporco a cui il malcapitato sarà di lì a
poco chiamato, all’esaltazione dionisiaca dei corpi avvinghiati uno contro
l’altro nell’esclusiva festa hollywoodiana, Babylon si fa da subito manifesto
del mondo di cui fa menzione nella consapevolezza di poterlo restituire solo
lasciandolo andare.
Abituato a controllare la
propria materia cinematografica, Chazelle questa volta sposa il principio
opposto, un po’ come fece a suo tempo il grande Michael Herr (Dispacci, ndr),
il quale, chiamato a narrare agli americani la guerra del Vietnam si rese conto
dell’impossibilità di farlo con la scrittura giornalistica convenzionale. Per
raccontare l’Inferno, diceva, bisognava in qualche modo sporcarsi le mani. Così
decide di fare Chazelle attraverso i suoi personaggi. Raccontare Hollywood,
quella dei ruggenti anni venti, dal loro fulgore fino all’inevitabile declino
(ila crisi relativa al passaggio dal
muto al sonoro ricorda quello dalla sala allo streaming), calandosi “anima e
corpo” nelle dorate pastoie del suo Star System per seguire le avventure del
divo Jack Conrad (Brad Pitt in versione Clark Gable) e di chi, l’ambiziosa
Nellie Le Roy (una spregiudicata Margot Robbie) e il suo amico Manuel Torres
(il semi esordiente Diego Calva), è disposto a tutto pur di seguirne le orme.
Lungi dal dimenticare se
stesso e le proprie origini, Chazelle si limita a cambiare pelle, tirando fuori
il coraggio e la provocazione che altre volte gli era mancata. In questo senso
Babylon è al cento per cento un film del suo autore, a cominciare dalla
centralità della musica, qui più che altrove motore della storia, per il fatto
di essere parte integrante di un dispositivo che equipara le immagini a uno
spartito musicale e la narrazione a un’unica meravigliosa Jam Session (lo aveva
fatto in maniera altrettanto radicale Paul Thomas Anderson in Ubriaco D’amore).
L’esempio più lampante lo si ha nella lunga sequenza che precede i titoli di
testa, concepita come una corsa perdifiato – dalla notte fino al mattino -, in
cui il ritmo della musica e quello delle parole sono pronti ad alternarsi per
dare vita alla vertigine sensoriale vissuta dai protagonisti. Così funziona il
montaggio alternato con cui Babylon, poco dopo, mette in scena il cortocircuito
tra arte e vita: la seconda chiamata a salvare la prima attraverso la ricerca
della mdp necessaria a terminare le riprese del film interpretato dal
personaggio di Brad Pitt.
Ma Babylon può anche
considerarsi la madre di tutte le ossessioni di cui fin qui si è nutrito il
cinema di Chazelle.
La mecca hollywoodiana
infatti è il monumento destinato a contenerle tutte: da quella nei confronti
del talento artistico, messo alla prova da una realtà quasi mai disposta a
riconoscerne il valore, ai tormenti romantico sentimentali destinati a tradire l’amore
quando si presenta nella sua forma più pura e gratuita; alla morte – materiale
e ideale che sia -, intesa come sacrificio estremo conseguente all’incapacità
dell’arte e dell’artista di scendere a compromessi.
Laddove la dimora della
festa, ma anche il set cinematografico, sembrano una variante del locale jazz
di La La Land, dell’omologo parigino di The Eddy e persino della navicella
spaziale di The First Man, universi alternativi e ancora, spazi di una
diversità che la Villa della festa rappresenta al massimo grado: filmata da
Chazelle in analogia a quella di Norman Bates in Psycho, per avvalorare la
doppiezza dei personaggi, disposti a convivere e a fare i conti con l’immagine
del proprio alter ego filmico.
Elegante e kitsch come il
mondo e i personaggi che racconta, Babylon fa dell’imperfezione un valore
aggiunto, risultando più vero dei film che lo hanno preceduto. Troppo colto e
scandaloso per compiacere gli standard casalinghi – nonostante l’utilizzo di
una rappresentazione a tratti grottesca e parodistica volta a raffreddarne la
peccaminosità -, non stupisce di Babylon la notizia del flop casalingo.
In attesa degli Oscar la
palla passa ora al pubblico europeo, chiamato a ribaltare le sorti economiche
di un film comunque meritevole di essere visto.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su Taxidrivers.it)
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