mercoledì, dicembre 04, 2013

A proposito di: "DON JON"



Avevamo lasciato - quasi una quarantina di anni fa, ormai - il Travis Bickle di “Taxi driver” del duo Scorsese/Schrader mentre “introduceva” una esterrefatta Betsy (ammantata in una meravigliosa frigidità da Cybill Shepherd) ai paradisi improbabili del porno in un cinema/bettola della Grande Mela, con tutto ciò che per lui ne seguiva in termini di equivoci, d’imbarazzi, di allontanamenti. Da quei tempi, molta acqua (e non solo quella) e’ passata sotto ai ponti e molte trasformazioni del gusto, dei costumi e quindi del quotidiano, sono intervenute. Oggi, nella società globalizzata dei costumi e delle frenesie irriflessive quanto percepite in maggioranza come inevitabili - tipo un vero e proprio destino comune - coesistiamo e interagiamo con quello che potremmo definire “una condizione di ininterrotta pornografia latente”. L”osceno”, nel senso etimologico del termine, surrettiziamente ma con un incedere pressoché regolare, ha cioè scandito i passi di una sua propria marcia trionfale che ha scompaginato equilibri - magari cristallizzati in uno stadio fossile, di certo spesso retrivi - in tutta una serie di comparti dell’attività umana, non ultimo quello dei “linguaggi”, con particolare richiamo a quello dello spettacolo e, più nello specifico, a quello strano e multiforme mondo che galleggia sullo sterminato oceano delle “immagini”. Difficile, infatti, non ravvisare connotati “pornografici” nell’impaginazione e nella conduzione, per dire, dei notiziari (spazio e rilevanza offerto alla cronaca meglio se truce o surrealisticamente ludico/evanescente, con insistenza e abbondanza di particolari sanguinolenti o genericamente allusivo/morbosi; posture, abbigliamento ed “espressività” - sovente ritoccata - di conduttori/-trici); nella molestia dell’”Economico” fin dentro i recessi più riposti delle nostre giornate (su scala planetaria, il sistematico rincorrersi di speculazioni - talmente rischiose, a bocce ferme, da sembrare insensate anche all’uomo della strada - cui fa sempre e comunque seguito l’aprirsi di un “crack” o l’esplosione di una “bolla”, come nel più meccanico battere-e-levare, nella più ovvia coazione di matrice “hard”). Nella compiaciuta e spesso esibita disarticolazione linguistica (preminenza dell’anacoluto, se non resa ad una semi-afasia monosillabica; difficoltà ad intendere e ad esprimere frasi complesse o, per converso, il pervicace compiacimento con cui si affastella il birignao tecnico-specialistico; petulanza del registro enfatico o declamatorio; utilizzo - non di rado fuori contesto - di termini appartenenti ad altri idiomi), affine assai ai contorsionismi grotteschi delle “luci rosse”.

E, ancora, nella meschina mestizia del panorama politico di questa esasperante transizione che ci avvince a se’ da almeno un trentennio, la quale, emanando un suo caratteristico lezzo, più si avvoltola senza costrutto nei dilemmi, nei compromessi miserabili e nelle inefficienze della senilità delle democrazie, più sottintende “impotenze” ormai di impronta pandemica, “disfunzioni erettili” di proporzioni planetarie di uno slancio vitale perduto (per sempre ?), a cui si tenta di porre rimedio - alla stessa stregua delle miracolose promesse farmaceutiche strombazzate per ogni dove (e, a pensarci, pare di assistere più ad una invocazione disperata di aiuto che all’annuncio dell’imminente manifestarsi di un ennesimo itinerario di liberazione) da “organi” d’informazione (?) tutt’altro, almeno sulla carta, che dediti all’”osé” - con astruse e di frequente controproducenti “tattiche ritardanti”, tipo grovigli kafkiano-truffaldini che prosperano a circuito chiuso in lontane sedi sovranazionali. Tipo sentimenti ambivalenti eppure perversamente conciliabili se alimentati solo a forza d’insicurezza e rassegnazione di strati sociali sempre più ampi, sempre più emarginati e più irrequieti. Soprattutto, tipo infinite “cilecche”, in relazione ad interventi a parole “strutturali, nei fatti sempre e solo “eventuali”, per via di una loro in fin dei conti imperscrutabile impossibilita’ a vedersi concretizzati, vuoi per contrasti tra le fazioni che dovrebbero realizzarli, vuoi per labirintiche oscurità burocratiche (ecco altre impotenze), vuoi per una paradossale, tragicomica, sul serio pornografica “mancanza di risorse” viste le diseguaglianze crescenti, con conseguente accumulo forzoso di energie non liberate, sottratte alla società, allo sviluppo, al “futuro”, come eiaculazioni abortite.

In un contesto del genere - nel suo piccolo - un film come “Don Jon” di quella faccia-un-po’-così che e’ Joseph Gordon-Levitt (presenza andata imponendosi negli anni recenti dopo prove di un certo peso davanti alla mdp, si pensi a “Mysterious skin” di Araki del 2004, a “Looper” del 2012 e al doppio “incontro” avuto con Nolan e il suo futuribile), il cui personaggio si limita alla masturbazione seriale - per tutta la prima parte della narrazione più o meno soddisfatta e soddisfacente, in ogni caso meritevole di assoluzione da parte di una chiesa, quella cattolica, che davanti alle sue “undici, diciassette, trentacinque volte la settimana”, prescrive puntuali penitenze ma non fa una piega - al cospetto di pin-up tanto formose e disponibili quanto “a portata di mano” perché sommatorie inerti di pixel, rischia di assurgere a rango di specchio per quanto tascabile, deformante e “schizzato” di umori, baldanzosamente in linea con l’arredamento di un mondo che la sua deriva porno, invece, si limita a negarla, mentre su di essa non fa che “esercitarsi” ben oltre lo sfinimento, ossia verso la definitiva consunzione di una “modernità” per assurdo ma non troppo riconducibile all’imporsi di un’unica dimensione “metaporno”, unanime e pervasiva (il padre di Jon, un irrefrenabile Tony Danza, non trova altro da dire al figlio che gli ha appena presentato la sua ragazza - Scarlett Johansson alias Barbara Sugarman, imperturbabile nella sua avvenenza rimodellata e splendente come una maiolica di pregio - : “E’ proprio un pezzo di fica”), costituita da un numero indefinito di tasselli della realtà potenzialmente convertibili in ogni momento alla sua “estetica”, elemento aggregante della quale e’ una ripetitività operante al di la’ di qualunque resistenza fisica e psicologica. Ecco, allora, in ordine sparso, come testimonianza di una pornografia nessuno sa esattamente quanto involontaria, il “getto” continuo di dichiarazioni ufficiali rilasciate dalle personalità pubbliche di ogni ordine e grado. Ecco il finto climax protratto dei programmi televisivi di fascia pomeridiana somministrato assieme al porno anestetico del caricaturale imbonimento pubblicitario.

Così come la porno consolazione - davvero miserabile e irritante, questa - degli applausi ai funerali; il porno comfort di gran parte degl’interni dei locali pubblici. Il porno estremo dell’impianto urbanistico delle periferie delle grandi metropoli e via titillando...
Con tutti i limiti delle sue non molte pretese (ma se e’ di dipendenza da pornografia che si parla, come uscire sul serio dalla “ripetizione” ?), una certa schematicità, la perdita progressiva di mordente e la continua tentazione edificante/consolatoria ma pure con qualche discreto colpo (non solo basso) ben assestato - un atteggiamento scanzonato e “ingenuo” di fondo, non così lontano dal paternalismo naïf del già menzionato antieroe scorsesiano; il sarcasmo e la faccia tosta come antidoto alle “sociologie” (questa inclusa) e ai “moralismi”; il rifiuto della tetraggine e del patologico legati al sesso nelle forme “pop” e tutto sommato innocue di certi momenti tra sit-com sguaiata ed estenuazioni tardo-adolescenziali - “Don Jon”, almeno nel suo slancio iniziale, in “erezione” verrebbe da dire, ovvero nella sua compulsione propriamente e schiettamente pornografica (video-masturbazione-kleenex, come pure pulizia appartamento-palestra-domenica in chiesa-pranzo in famiglia-discoteca-scopata e allo stesso modo della galera coprolalica “cazzo-culo-tette-fica-pompino-smorzacandela-pecorina-sborra”, l’interpolazione dei cui elementi, da qualunque insieme provengano, non incide minimamente sul risultato), porta alle estreme conseguenze - ed e’ solo un esempio fra tanti e con le debite precauzioni del caso - le considerazioni avanzate dal suo eremo nella giungla dal Kurtz di “Apocalypse now”, quando registra disgustato la prassi degli Alti Comandi finalizzata ad impedire alle truppe di vergare la parola “cazzo” sui muri delle latrine in quanto “oscena”, mentre alle stesse autorizza, anzi impone, il bombardamento di obiettivi ad alta presenza di civili. L’”osceno” di Kurtz era anche il contorcimento sfinito di una Cultura che smascherando se stessa provava a divincolarsi dalla stretta di una dissoluzione che sentiva approssimarsi sempre più inesorabilmente. L’”osceno” di Jon Martello (classico ‘nomen omen’), nell’era della pacifica dittatura della pornografia di massa - e a dissoluzione compiuta, forse - al massimo può essere un ghiribizzo irriverente o bislacco, lo scarto (un kleenex imbrattato nel cestino) di una post-post modernità che ha predigerito qualunque “gesto” (quindi qualsiasi “masturbazione”) nell’illusione di renderli leciti e belli e unici e liberi tutti, delegando al singolo - un singolo, e’ utile ricordarlo, sempre più solo (altro che Travis Bickle) e sempre più strattonato dalle sollecitazioni più contraddittorie, da binomi oltremodo stordenti, sconcertanti, proprio perché in grado di coesistere senza attrito in virtù di un imprimatur ultimativo e insindacabile: bulimia/anoressia; libertinaggio/ascetismo; sedentarietà cronica/salutismo spinto; fama/anonimato; ricchezza/pauperismo et. - una scelta, si badi bene, anche se sempre meno definitiva, sempre più fluida, in ogni momento più o meno rinegoziabile, da compiersi pero’ seguendo coordinate che proprio quella modernità, con quelle premesse, ha stabilito e tracciato sulla scia di una “seduzione” Tecnica, a cui tutto lei ha concesso, in primis il parossismo predatorio, onanistico finche’ e’ rimasto nel latex delle sofisticate formulazioni teoriche; violentatore in ampi ambiti della pratica, al momento di dispiegare tutta la potenza contenuta nell’assunto “si deve fare tutto ciò che si può fare”.

TFK

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