domenica, dicembre 22, 2013

New Hollywood (10) APOCALYPSE NOW (5)


"Apocalypse now" V

di: F.F.Coppola.

- "C'mon baby, take a chance with us/C'mon baby, take a chance with us/C'mon baby, take a chance with us/And meet me at the back of the blue bus/Doin' a blue rock/On a blue bus/Doin' a blue rock/C'mon, yeah.../.../.../It hurts to set you free/But you'll never follow me/The end of laughter and soft lies/The end of nights we tried to die" -



Quando si fa di tutto per giungere al cospetto di un (semi)dio, non di rado capita di aver appena il tempo di morire. In special modo se si e' indugiato troppo forzando il contesto a cui quel (semi)dio si e' votato ad un'innaturale piega semi-caricaturale e iperrealista, aberrazione di un Uomo (e di una Cultura) i cui conflitti hanno smarrito gran parte dei loro riferimenti e aderenza alle cose. Conrad: "Ogni nuovo tratto di fiume si apriva innanzi a noi, e si chiudeva alle nostre spalle, come se la foresta avesse tranquillamente attraversato le acque dall'una all'altra sponda per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre più profondamente dentro al cuore della tenebra. Una gran quiete vi regnava... Eravamo un pugno d'uomini erranti sopra una terra preistorica, una terra che aveva l'aspetto di un pianeta sconosciuto... ... E si strisciava innanzi, verso Kurtz". In questo ambito si collocano le morti del giovane "Clean" e di "Chief", il timoniere, il comandante di quella "barca del cazzo" da non abbandonare mai, "respinti" non solo fisicamente dalla avanguardie invisibile e misteriose di Kurtz ("Il Vietnam era una stanza buia piena di oggetti letali, i vietcong erano ovunque contemporaneamente come un cancro ramificato, e invece di perdere la guerra pezzettino per pezzettino nel corso degli anni, noi la perdemmo velocemente in meno di una settimana" - M.Herr, op. cit. -) e della "wilderness" nel suo complesso, in una contrapposizione sempre più "ancestrale", trascinata alle origini del "peccato" (la PBR e' sommersa da una raffica di proiettili e razzi - prima - che inchiodano il ragazzo "Clean", e fatta oggetto di una pioggia fitta di bastoncini di legno, frecce e corte lance - poi - una delle quali stronca "Chief, all'insieme delle quali risponde senza alcun risultato per mezzo della Tecnica - impotente - delle mitragliatrici e dei fucili automatici) ma simbolicamente (una forza senza volto, silenziosa e spietata che chiama a se', rendendolo inoffensivo, l'elemento estraneo/profanatore, proprio come in Conrad: "Ma in quel mentre mi tocco' dar occhio in gran fretta al fiume, poiché c'era uno di quei tronchi sporgenti proprio sulla mia rotta. Vedevo certe bacchette esili volare attorno, fitte: mi sibilavano via dinanzi al naso, cadevano giù sul ponte, battevano dietro a me contro la cabina. E tuttavia il fiume, la riva, i boschi, erano affatto tranquilli: perfettamente tranquilli. Non mi riusciva di udire altro che il tonfo sordo diguazzante della ruota a poppa, e il picchiettio di quelle asticciuole. Evitammo malamente quel tronco... Eran frecce, perdio ! Ci stavano tirando addosso"). E dire che c'era stato modo di "giocare" ancora. Innescando un fumogeno di un rosso pulviscolare, Lance esclama: "Ehi ! Si viaggia fino in paradiso, con questa !" (in originale, la battuta può suonare bizzarra ma, ad un orecchio americano, risulta assai evocativa: "Purple haze ! Look !". Per l'esattezza, la "foschia rossastra" di eredita' hendrixiana, così come il nomignolo attribuito ad un tipo di LSD ai tempi in uso - acido, come visto, in generale, più volte assunto dal surfista-marine ma che lo stesso attore Bottoms, come altri componenti del cast e della troupe, ammise di aver "sperimentato" insieme ad altri tipi di stupefacenti - :"Purple haze was in my eyes/Don't know of it's day or night/You've got me blowing, blowin' my mind/Is it tomorrow or just the end of time ?" - J.Hendrix, "Purple haze" -).



A fianco, nel mentre, "Chef" sbriga la posta e guardando un ritaglio di giornale inviatogli riguardante la "strage di Bel Air" ad opera della banda Manson, apre una pausa meditativa e ci consegna un dettaglio utile a datare con una certa precisione l'arco temporale entro cui va collocata la vicenda del film: più o meno, estate-autunno 1969 ("Chef": "Charles Manson ha ordinato il massacro di tutti quelli che erano in casa, come simbolo di protesta. Una cosa pazzesca !"). Nemmeno il tempo di sbalordire che in scena resta solo la voce cantilenata della madre di "Clean": un ininterrotto colare di parole dal registratore in cui il figlio, morto in un niente, aveva inserito il nastro appena ricevuto, che diffonde una calma placida e irreale alla quale si può accordare (Coppola esalta il contrasto tra il marasma che dilaga sull'imbarcazione e la flemma delle frasi registrate, sempre tenute in primo piano, a sottolineare il dilagare di una ferocia grottesca e impudente; di una casualità assurda quanto miserabile, triste ma non innocente) solo il corso imperturbabile del fiume e l'impassibilità della giungla subitaneamente ricompostasi dopo la fulminea e letale esplosione di attività. Guardandosi intorno, Willard percepisce di essere pressoché giunto alla "fine del fiume": "Kurtz era vicino. Era molto vicino. Non potevo ancora vederlo ma lo sentivo. Come se la barca venisse risucchiata su per il fiume e l'acqua si riversasse nella giungla. Qualunque cosa fosse successa, non sarebbe successa come l'avevano prevista a Nah Trang"/("He was close. He was real close. I could not see him yet but I could feel him. As of this boat was being sucked up river and the water was flowing back to the jungle. Whatever was going to happen, it was not going to be the way they called it in Nah Trang"). Per tale motivo, non c'è più ragione di mentire o di appellarsi a chissà quale livello di segretezza. Sepolti i morti (Lance offre dolcemente le spoglie di "Chief" al fiume: "In me vedi il crepuscolo di un giorno/Che a occidente svanisce frettoloso,/Presto inghiottito dalla nera notte, sorella/Della morte, che tutto sigilla nel riposo" - W.Shakespeare, "Sonetti" -), circondati da una Natura oramai tornata padrona dei destini delle vite che si agitano al suo interno ("Lascia perdere i vietcong, gli 'alberi' ti avrebbero ucciso, l'erba elefantina cresceva micidiale, la terra che calpestavi possedeva un'intelligenza maligna, tutto l'ambiente che ti circondava ne era impregnato" - M.Herr, op. cit. -), al limite tra luce - un tramonto arancio nebuloso e remoto - e ombra - la notte e il buio al cui addensarsi sembra concorrere la giungla stessa (Conrad: "Il fiume in quel tratto correva angusto, diritto, entro certe pareti ripide come una trincea di ferrovia.

L'oscurità vi s'insinuava parecchio tempo innanzi al calar del sole. La corrente filava via uguale e rapida, ma un'immobilità taciturna pesava sulle sponde. C'era da credere che tutti quegli alberi, vivi, avvinti gli uni agli altri da una folla di rampicanti, ogni cespuglio di tutta quella viva boscaglia, si fossero mutati in pietra, sino al più sottile ramoscello, alla foglia più lieve. Non era un sonno; era un che di innaturale, come uno stato catalettico. Non si udiva nulla, non il più fievole rumore"), cadono le reticenze, il rispetto delle gerarchie, i residui delle "sovrastrutture" che tengono in carreggiata il comportamento dell'uomo occidentale (l'"etica del lavoro", per il Marlow conradiano; il "senso del dovere" per Willard e i suoi soldati). "Chef": "Questo e' fottutamente tipico. Merda ! Una missione da Vietnam del cazzo. E' quasi scaduto il mio periodo qui, e la porto [rivolto a Willard] a far fuori uno dei nostri. Questa le batte tutte ! Proprio fantastica, porca puttana ! Merda ! E' una pazzia del cazzo ! Si, insomma... Io credevo che lei andasse a far saltare un ponte o qualche ferrovia del cazzo... ... Okay ... Ma c'andremo insieme, sulla barca. Andremo con lei, andremo lassù. Ma sulla barca. Okay ?". "Qualcosa doveva andare male su quel fiume" (Conrad) e se il punto non e' più vivere o morire, il rischio vero diventa quello di scoprirlo e portarselo dentro per sempre.



Alla fine del fiume, nell'afa e nell'umidità sempre più opprimenti ("O sonnecchiare e svegliarsi sotto la zanzariera in un bagno di sudore viscido, con la bocca spalancata alla ricerca di aria che non fosse al novanta per cento umidità, solo un bel respiro per lavare a secco l'ansia e la puzza d'acqua stagnante del tuo corpo" - M.Herr, op. cit. -), c'è il villaggio/santuario/rifugio di Kurtz. Coppola inquadra il panorama che si va aprendo allo sguardo dalla prospettiva della PBR che avanza a motore spento, privilegiando l'angolatura alto/basso - l'occhio di Willard scruta dall'asta della luce di posizione dell'imbarcazione - che abbraccia un nugolo di canoe stipate di figure umane ritte, silenziose e ricoperte di una specie di biacca crostosa sui visi e parte dei corpi (Conrad: "Quella terra non aveva più nulla di terrestre. Noi siamo avvezzi a contemplare le forme ormai dome di un mostro soggiogato, ma laggiù, laggiù, ci si trova in presenza di qualcosa di mostruoso, e di libero. La terra non aveva nulla di terrestre, e gli uomini... no, non erano inumani. Ebbene, vi assicuro che era questo il peggio: questo sospetto che lentamente si faceva strada, che essi non fossero inumani"; "Credevi di udire cose impossibili: il respiro delle radici umide, il trasudare dei frutti, il fervido andirivieni degli insetti, il battito del cuore di minuscoli animaletti" - M.Herr, op. cit. -)... La "dimora" di Kurtz, progettata e interamente costruita da Tavoularis con l'apporto di manodopera locale stipendiata a pochi dollari al giorno (la struttura, le pareti, nonché gl'idoli khmer, constavano di centinaia di blocchi di adobe - mattoni in argilla o fango mescolato a paglia - del peso di circa trecento libbre ciascuno), s'ispira vagamente alla celeberrima città Khmer di Angkor Wat nella Cambogia sud-occidentale, la cui edificazione si fa risalire al XII secolo ma la cui conoscenza - almeno per gli occidentali - e' da posticiparsi di almeno settecento anni, in relazione a studi archeologici ed etnografici mirati svolti intorno alla meta' dell'Ottocento. Durante le riprese il set più-vero-del-vero viene seriamente lesionato dallo stesso tifone che si porta via parte degli elicotteri di Kilgore. Al termine del film (prima dei titoli di coda), viene fatto saltare in aria, come ebbe a dire Coppola, "in modo che la cosa risultasse allegra !".
E proprio dalle sue "allegre" scalinate, costellate da teste infitte su pali o murate direttamente nei gradoni, di cadaveri crocifissi a cielo aperto o di corpi scorticati abbandonati dove capita (Willard: "Tutto ciò che vedevo mi diceva che Kurtz era impazzito... Quel posto era pieno di cadaveri... Nordvietnamiti, vietcong, cambogiani..."; "Chef": "Questo colonnello qui e' proprio picchiato. E' peggio che pazzo: e' diabolico. Insomma, guardi [rivolto a Willard] cosa ha messo su qui. Questa e' idolatria pagana del cazzo ! Si guardi intorno, merda ! E' matto da legare... ... Un tempo pensavo che se morivo in un luogo peccaminoso, la mia anima in paradiso non ci sarebbe arrivata. Ma adesso... Merda... Non m'importa dove cazzo va, purché non sia qui") che si agita e strepita Dennis Hopper nei panni del "fotoreporter" senza nome, cicerone, giullare e servo di Kurtz. In origine modellato sulla figura di un ex agente della CIA passato nelle fila del colonnello "folle", il carattere viene via via ritagliato con sempre maggiore aderenza su quello del personaggio del "russo" nel testo di Conrad: "Il sole gli dava un aspetto estremamente gaio... Una faccia imberbe, fanciullesca, molto carina, quasi senza lineamenti, un naso spellato dal sole, un paio d'occhietti azzurri, e sorrisi e aggrottamenti che si rincorrevano di continuo su quel viso aperto, come il sole e l'ombra su una piana spazzata dal vento... Aveva vagabondato qua e la' su quel fiume per più di due anni, solo, straniato da tutto e da tutti... Non ci si sapeva figurare in qual modo avesse vissuto, come fosse riuscito a spingersi tanto lungi, come ci avesse potuto rimanere: e come mai non svanisse nell'aria da un momento all'altro... Eppure egli era li', bravamente, spensieratamente vivo... Un'aura di magia lo spingeva innanzi, e lo serbava incolume... Pareva avesse distrutto ogni preoccupazione personale". Con questo condivide, oltreché la mimica esagitata e l'incontenibile loquela, una certa somiglianza del frasario e delle argomentazioni. Parimenti si scorge una qual affinità con la figura nondimeno "avventurosa" e "romantica" di Sean Flynn, autentico fotoreporter, figlio del leggendario Errol, scomparso in Cambogia nel 1970 in circostanze mai del tutto chiarite: "Sean Flynn poteva essere bello in un modo incredibile, persino più di quanto lo fosse suo padre Errol trent'anni prima nella parte di Capitan Blood, ma talvolta somigliava più ad Artaud reduce da qualche allucinante viaggio alla 'Cuore di tenebra', sovraccarico d'informazioni, di input ! L'input ! Emanava un odoraccio di sudore e se ne stava seduto per ore, pettinandosi i baffi con la lama seghettata del suo coltello dell'esercito svizzero" - M.Herr, op. cit. - Senza soluzione di continuità, le suggestioni legate al ruolo si saldano alla perfezione - in Hopper - con quelle prodotte dallo stesso uomo-attore: il risultato e' un felice connubio tra testimonianza estrema della stagione creativa di un'intera generazione e sbando schizofrenico - spesso violento e autolesionistico - degli ideali che quella stessa generazione aveva agitato; ideali smarriti, traditi, mistificati, sconfitti, infine, dal volgere dei tempi; dal ricomporsi delle consuetudini del potere e dell'inerzia; dal disorientamento conseguente all'impatto traumatico con l'ordinario, con il quotidiano e il vissuto individuale, di certe premesse, troppo ingenue o troppo evanescenti; dall'impossibilità di perpetuare e consolidare una sorta di "stato di grazia" (giovinezza + desiderio di libertà + voglia di esprimersi e cambiare + momento favorevole della Storia) oltre i limiti delle sue effettive possibilità di realizzazione. Ed Hopper - lungimirante il gesto di Coppola di recuperarlo da un gorgo di oblio e dissipazione successivo al repentino allontanamento dai riflettori hollywoodiani che non impiegarono molto a dimenticare i fasti libertari di "Easy rider" (1969; tra i primi vagiti della "New Hollywood") e a far pesare l'insuccesso di "The last movie"/"Fuga da Hollywood" (1971) - tipo estroverso, istrionico ("un arlecchino" dice Conrad del "russo"), imprevedibile, con negli occhi sempre un che d'infantile e di irrequieto (significativi gli scambi avuti tra lui e Coppola in sede di preparazione del personaggio. Alle rimostranze spesso scorate del regista che tra il comprensivo e l'arreso gli rimproverava di non ricordare o di non imparare mai bene le battute - nonostante il grande margine all'improvvisazione lasciatogli - un Hopper sghignazzante, ciclotimico, vistosamente alterato dalle sostanze - lui stesso, senza reticenze, parlava di se' in termini di "ero fuori di testa. Ero assolutamente pazzo" - era solito rispondere: "Ma quali battute del cazzo, Francis ?") ben si presta a rappresentare uno dei risvolti dell'intima contraddizione di una Cultura che dilaga su tutto con entusiasmo e disperazione, trasporto e protervia, curiosità e appetito, incoscienza e depravazione. Che si specchia (accumulare, ad esempio, con le fotografie, immagini su immagini di se stessa, delle proprie "conquiste": "Io sono americano... un civile americano... ... Sono un fotoreporter. Mando servizi di guerra dal '64... Laos, Cambogia, Vietnam... ... No. Non andare, non andare senza di me... Voglio fare una foto") e si deprime; si vanta e si disprezza; si autoesalta e si smarrisce: tutto sempre in modo "spettacolare". Hopper/fotoreporter si sbraccia, introduce Willard e i pochi superstiti dell'equipaggio alle "oscure grandezze" del colonnello, ai suoi "piaceri sconosciuti": "Non puoi giudicare il colonnello come si giudica uno qualunque"/("But you don't judge him like an ordinary man"). Ne magnifica le qualità ("Quell'uomo mi allargato la mente, sai ?... E' un poeta guerriero, nel senso classico...". "Il maestro Ittei affermo': 'Fare del bene, per dirlo con una sola parola, significa sopportare la sofferenza. Se non si sopporta la sofferenza, tutto e' male'" - Y.Tsunetomo, "Hagakure" -). Ogni cosa come un giocoliere, un intrattenitore, un funambolo in equilibrio su un vuoto immenso, molto più grande delle parole che, meramente in virtù del proprio numero, tentano di nasconderlo/circoscriverlo. Aspirazione ad un superamento che s'intuisce da certe sue esclamazioni, allorché citando Eliot, ad esempio, "Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli/Che corrono sul fondo di mari silenziosi//"I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas" - T.S.Eliot, "Il canto d'amore di J.A.Prufrock" -, allude ad una vita piena ed autentica, non irregimentata da conformismi, dai doveri sociali e dalla morale (Kurtz [rivolto a Willard]: "Ha mai preso in considerazione delle vere libertà ?... Libertà dalle opinioni altrui... Perfino dalle proprie opinioni...". "Non e' bene mantenersi attaccato alle proprie opinioni. E' un errore pensare di aver raggiunto la perfezione per il fatto di avere delle belle convinzioni e dopo aver fatto un certo sforzo. Dopo aver cercato di comprendere la natura delle cose, bisogna continuare nella ricerca per tutta la vita, in modo da ottenere frutti duraturi" - Y.Tsunetomo, op. cit. -); non costretta a ripiegare nella nausea di un furore lugubre e ossessivo ("Ci sarà tempo per uccidere e creare/.../Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà.../Io non sono un profeta - e non ha molta importanza;/Ho visto vacillare il momento della mia grandezza/E ho visto l'eterno Lacche' reggere il mio soprabito ghignando/E a farla breve, ho avuto paura/.../E' impossibile dire ciò che intendo !/.../Ne sarebbe valsa la pena/Se qualcuno, accomodandosi un cuscino o togliendosi uno scialle,/E volgendosi verso la finestra, dicesse:/'Non e' per niente questo,/Non e' per niente questo che volevo dire'" - T.S.Eliot, op. cit. -), lo stesso che, alla fine, ha stretto e imprigionato Kurtz, si e' portato via il Capitano Colby (che adesso riappare di fronte a Willard, armato di tutto punto, le nocche impiastrate di sangue, lo sguardo vigile ma lontanissimo, profondità tetra che Willard appena sussurrato il suo nome rifugge, come si spazza via lo spaventoso pensiero di come ci si potrebbe ridurre/cosa si potrebbe diventare), tiene insieme un avamposto "alla fine del mondo".



"La madre sua era mezzo inglese. Il padre mezzo francese. Tutta l'Europa aveva contribuito alla creazione di Kurtz" (Conrad). "In Africa, e appunto nel Congo, Conrad andò nel 1890... assunto in qualità di comandante dalla "Societe' Anonyme Belge pour le Commerce du Haut-Congo"... Arrivato a Kinshasa, apprende che il battello che doveva comandare ha subito un incidente ed e' in riparazione, per cui provvisoriamente viene imbarcato su un altro battello che risale il Congo verso le cascate di Stanley: ammalatosi il capitano, Conrad lo sostituisce prendendo il comando. Nel viaggio di ritorno, la spedizione porta con se' un agente della Societe' ammalatosi in una stazione dell'interno: un francese dal nome (tedesco) di Klein; Klein (come Kurtz) muore durante il viaggio... Si e' pensato per lungo tempo che Klein fosse Kurtz; tanto più in quanto dal manoscritto risulta che Conrad incomincio' a chiamare Kurtz col nome di "Klein" e solo in un secondo momento cancello' questo e lo sostituì col primo (mantenendo pero' il richiamo contenuto nel nome: Klein, 'piccolo'; Kur[t]z, 'corto': richiamo ironico e antifrastico sottolineato dallo stesso Marlow)... Il vero modello, come ha dimostrato N.Sherry in "Conrad's western world", e' un altro: un certo A.E.C.Hodister, importante agente della Societe', direttore del distretto di Bangala, gran incettatore di avorio, esploratore e 'idealista', autore di un 'eloquente' relazione alla Societe' Belge des Ingenieurs et Industriels in cui si trovano numerosi punti di contatto col 'report' di Kurtz. Hodister (che Conrad non incontro' personalmente ma di cui dovette sentir parlare) fu ucciso nel 1892 dagli arabi e la sua testa fu infissa su un palo (eco di ciò, forse, ancora una volta ironico e antifrastico, nelle teste dei suoi nemici che Kurtz infigge sui pali davanti alla propria stazione" - G.Sertoli, dalla "Nota introduttiva a 'Cuore di tenebra'" - Il Kurtz della Stazione Interna, quindi, in piena Africa equatoriale - col "suo" avorio, i suoi traffici oltre gl'intrichi più sperduti della foresta, i suoi riti innominabili - e quello soldato dell'Esercito degli Sati Uniti (Willard: "La sua era stata una carriera eccezionale, persino troppo eccezionale... West Point, primo del suo corso... Lo stavano preparando per uno dei ranghi più alti della ditta... Generale, Capo di Stato Maggiore. Qualsiasi cosa"), capo/re/sacerdote di qualche centinaio di coscritti tra vietnamiti, cambogiani, disertori americani. Condottiero intransigente e spietato di una guerra misteriosa e impossibile che "a suo modo" si ostina a vincere. Il Kurtz della letteratura, malato agli sgoccioli, scosso da un disgusto febbrile (Conrad: "Vidi l'uomo steso sulla barella rizzarsi a sedere, macilento, con un braccio alzato... Vedevo quel braccio esile teso in atto di comando, la mascella inferiore muoversi, gli occhi di quello spettro scintillare cupamente in fondo a quella sua testa ossuta, che si agitava con certi crolli grotteschi");

persuaso/rassegnato ad una distruzione totale e definitiva (Conrad: "Vidi dipinta su quel viso d'avorio l'espressione di un cupo orgoglio, d'un energia crudele, d'un avvilente terrore, d'un intensa e irrimediabile disperazione", addirittura formalizzata in un monito/anatema finale incluso nel suo "Rapporto per la Redenzione dei Selvaggi": "Sterminate tutti quei bruti !"). Ed il Kurtz del cinema, stanco e grasso (sul tipo del Kingpin di Miller/Sienkiewicz nella graphic novel "Devil. Amore e guerra": "Più grosso dello stato dell'Ohio"); assertivo e scostante; altezzoso (celebri i suoi "slanci di mento" mussoliniani) e sfuggente, non meno impietoso e votato al 'cupio dissolvi' ("Drop the bomb. Exterminate them all !", legge Willard tra i suoi scartafacci a rivelare una non peregrina allusione all'eventualità di un olocausto atomico: "Come riserva nel profondo del cuore, c'era sempre per tutti la bomba. Amavano molto ricordarti che avevamo qualche ordigno nucleare: 'proprio qui, nel paese'" - M.Herr, op. cit. -). Il Colonnello Walter E. Kurtz che e' soprattutto Marlon Brando, inseguito da Coppola con un assegno da un milione di dollari (personali) in mano, e che non si presenta sul set per le riprese e che quando lo fa impegna il regista in una rilettura integrale del testo conradiano che, alla fin fine, non si e' mai davvero capito se già conoscesse o meno. Brando che e' dilatato dagli ozi e dalle abbuffate consumati al riparo del suo atollo nel Pacifico: che discute e litiga con parte della troupe e del cast (gustosi certi siparietti, tra il sarcastico e il velenoso, inscenati da lui e da un sempre più incontrollabile Hopper). Brando che sa o subodora di avere tra le mani la chance di una (forse) ultima grande interpretazione e così spinge sul tasto dell'improvvisazione e della definitiva dissacrazione della propria icona di star, di sex symbol, di attore forgiato dal "metodo", di talentuoso dinosauro sopravvissuto di una Hollywood che anche Coppola, anche "Apocalypse now", contribuiscono a seppellire.


TFK

- parte quinta -


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