sabato, dicembre 14, 2013

Lo Hobbit-La desolazione di Smaug

Lo Hobbit-La desolazione di Smaug
di Peter Jackson
con an McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, Ken Stott
genere, fantasy
Nuova Zelanda, Stati Uniti
durata, 161' 

Che la nuova trilogia non possa essere paragonata neanche lontanamente a “Il signore degli anelli” si sa. Si sa anche che le mancanze sono all’origine, ovvero al libro di Tolkien, che non aveva ancora raggiunto la maturità letteraria, che riverserà poi nel suo poema epico: Lo Hobbit; per il quale, sia il libro che il film sono fondamentalmente d’ispirazione e di destinazione fiabesca. Bilbo e la compagine di nani, capitanati da Thorin, continuano la loro avventura alla riconquista della terra natia, e tra numerose insidie approdano finalmente ad Erebor, la montagna solitaria. Storia che si allarga e si distende nelle vedute e nella ramificazione della vicenda (un po’ come avveniva ne “Le due torri”).
 
Nonostante il lavoro di Peter Jackson e dei suoi sceneggiatori si confermi una raffinata rielaborazione filologica dell’opera letteraria (non facendo riferimento esclusivamente a “Lo Hobbit”, ma anche ad altre opere del mondo creato da Tolkien), con il capitolo due di questa discussa trilogia trovano conferma alcuni timori dei fan più sfegatati. A tratti frizzante ed esaltante – grazie anche alla naturalezza comica di Martin Freeman – il film a volte sembra perdersi in sè stesso, e Jackson sembra imitarsi in inquadrature palesemente riprese dalla vecchia trilogia; il digitale a 48 fps, che richiama molto l’atmosfera fanciullesca per il modo in cui accentua i colori e rende fluida l’immagine, a tratti risulta fastidioso. Stupenda, invece, la composizione per immagine e per caratterizzazione del drago Smaug, anche se forse c’era materiale per fare di meglio nel dialogo con Bilbo. Ancora non risulta ben chiaro l’inserimento del personaggio di Legolas, mentre convince Nicole Evangeline Lilly, anche se il suo personaggio sembra rimpiazzare un po’ quello di Arwen, attraverso gli epiteti della medicina elfica e della donna combattente, ma anche angelicata.

Con una regia a volte più furba che appassionata, ci si deve purtroppo convincere che fare una trilogia per Lo Hobbit è stata più una forzatura di produzione che una scelta artistica; il finale aperto ricorda più la fine di una stagione televisiva e non ha nulla a che vedere con la chiusura de “La compagnia dell’anello” o de “Le due torri”, film che riservano comunque una propria autonomia, com’era del resto avvenuto nel primo capitolo de “lo Hobbit”. Ma è anche vero che, come per la vecchia trilogia, anche per la nuova sia giusto tenere in serbo i giudizi finali per la prossima uscita, quando il quadro di Peter Jackson e compagnia sarà più chiaro negli intenti. Tra un anno l’ardua sentenza.

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