E' evidente che la trasferta americana e' diventata nell'immaginario d'autore un momento imprescindibile della carriera cinematografica. Scoperta di un mondo altro ed affascinante e insieme verifica necessaria all'universalita' della propria visione, resta da verificare se tale spinta nasca da genuina ispirazione e dalla voglia di mettersi in discussione o rappresenti invece un palliativo per nascondere i segni di un disagio piu' profondo. In questo senso, My bluberry Nights, piu' che un invito al movimento rappresenta, con tutti i suoi limiti, l'occasione per riflettere sulla crisi di un regista solitamente a suo agio nella rappresentazione emozionale di mondi lontani (Happy together)e luoghi dell'anima ( In the Mood for love). Certo non si pretendeva l'afflato e la coerenza del modello Wendersiano, autore inarrivabile di un cinema che non puo' prescindere dal viaggio, mentale e geografico, e che da' il meglio di sé quando si confronta e si nutre dell'America come contenitore del nostro immaginario, ma perlomeno era necessario un cambiamento di prospettiva, una presa di coscienza del mutamento in atto. KAR WAI guarda senza vedere, affidando alle immagini il compito di costruire una storia che non c'e'. Descrivere l'amore e la sua mancanza, seguire il gioco degli amanti nel viaggio sublime e periglioso della vita, raccontare gli sguardi ed i silenzi di chi vive ogni gesto come fosse l'ultimo, necessita' di una struttura invisibile ma presente, capace di dare forma all'ineffabile e concretezza a cio' che e' impalpabile, liberando le parole dai limiti imposti dal linguaggio. Invece il regista rimane prigioniero di quello stile che gli ha dato la fama, costruendo immagini perfette ma vuote, riflesso di un mondo autoreferenziale e mortifero. La luce calda ed avvolgente dei neon eternamente accesi, la melodia jazz dell'attrice/cantante dal volto perennemente imbronciato non bastano a giustificare un'operazione di cui si fa fatica a trovare il senso e che per lunghi tratti appare come una gentile concessione di un genio alle prese con manie di onnipotenza.
La banda del titolo è quella della polizia di Alessandria d' Egitto, specializzata non tanto in marce militari quanto in musica tradizionale araba.
Questo film è tratto da "Vista d'interni" (Manni editori) autobiografia di Antonio Perrone boss della Sacra Corona Unita condannato a 49 anni di reclusione.
Una torta può diventare l'antidoto ideale per stemperare le delusioni di un esistenza infelice. E' quello che succede in questo piccolo film, apparentemente scontato nella sua realizzazione, che ripropone la storia della sfortunata cenerentola vessata dal marito egoista e sostenuta dalla solita fratellanza femminile - qui il sodalizio nasce nel ristorante dove lavorano la protagonista (una bravissima Keri Russell) e le sue due colleghe - sullo sfondo double face (fuori buona dentro cattiva) della provincia americana e con la partecipazione di eccentrici caratteri a ravvivare la storia. Un meccanismo tanto collaudato quanto noioso se la narrazione, con il procedere degli avvenimenti non allentasse le sue certezze, concedendo allo spettatore più di uno spunto per riconsiderare le sue convinzioni.
Ma come si fa a non volere bene a quella faccia da schiaffi di jimmy holliwood che prigioniero di un idea di successo riservato a pochi si inventa una smargiassata che se non fosse finzione diventerebbe tragedia ed invece nel sorprendente film di levinson regista di sostanza ma non privo di slanci si trasforma in intelligente escamotage per mettere alla berlina la vacuita di un mondo che fa fatica a reinventare se stesso e preferisce surrogati di realtà sempre piu simili ai freaks di certo cinema di genere.
Il titolo originale non lascia alcuna speranza: "Prima che il diavolo sappia che sei morto" contiene in se' la forma ed il contenuto di questo film: lo snodo principale, ovvero il tentativo di rapina conclusasi con la morte della madre, è il punto di non ritorno che separa la vita dalla morte; è il dopo che viene prima, mostrato con una serie di continui flashback attraverso i quali la dimensione temporale finisce per confluire in quella atemporale e soggettiva dei due protagonisti. In questo senso il film è di una fluidità quasi imbarazzante rispetto agli accartocciamenti di certo cinema pseudo sperimentale e l’accelerazione che ne segnala la scansione è l’unica concessione che viene fatta al didascalismo mainstream.
L’isolamento dei due fratelli è implicito nella scelta di collocarli quasi sempre all’interno di spazi chiusi e scarsamente illuminati, nella prospettiva a tre quarti (invece di quella frontale) che riprende le loro conversazioni, nella decisione di separarli singolarmente al centro dell’inquadratura quando il regista vuole far emergere la loro disperazione- (nel bar dove Hawke affoga le sue sconfitte quotidiane, oppure nella splendida scena in cui Hoffman (uno straordinario attore alle prese con il su ruolo più bello ci confessa la sua incapacità di far quadrare i conti della vita, seduto su una poltrona che diventa il trono delle sue miserie). I
Lumet ci regala forse il suo miglior film, certamente uno dei più belli degli ultimi tempi, realizzando una storia newyorkese che riesce a interrogarsi/ci sul senso delle nostre scelte e sulle conseguenze che esse comportano; un delitto e castigo costruito attraverso un "referto spirituale" che ricorda in qualche modo Bresson ed in tempi più recenti l’Eastwood di Mystic River. Non ci stupiamo che un film del genere sia rimasto assente da qualsiasi tipo di riconoscimento perchè la sua presa di coscienza è ancora troppo lontana dall’impegno di facciata che caratterizza il nostro tempo.
Ci sono film che non hanno storia ed altri che ne hanno troppa. Prendiamo Factory girl di George Hicknlooper , biopic su Eddie Sedwick, superstar della Factory di Andy Warhol, destinata a bruciare le tappe di un successo tanto eclatante quanto effimero e confrontiamolo con I'm not there, lungometraggio che ha conquistato il favore di molti cinebloggers. L'accostamento è d'uopo non solo per il periodo storico (dalla fine degli anni 60 alla metà dei 70) ed i collegamenti biografico/culturali (la presenza di Bob Dylan, la continua oscillazione tra diversità e conformismo) ma soprattutto per l'asimmetria delle strade percorse nello sviluppo della cinebiografia.
Se il film di Haynes appartiene di diritto al cinema indipendente, non solo per i natali dell'autore ma anche per gli indicatori del suo stile (rarefazione dell'intreccio narrativo, forte presenza della macchina da presa, contaminazione di linguaggi ed espressioni artistiche) capace di risalire al personaggio dalle suggestioni del suo repertorio artistico (e nello stesso tempo a riflettere sui limiti di questo tipo di operazioni), il nuovo arrivato sembra indeciso tra il cinema mainstream, ripreso nell'eccessiva e puritana semplificazione dell'impaginazione e quello off, svuotato delle sue capacità introspettive ed utilizzato per conferire alla vicenda un etichetta di veridicità (la fotografia sgranata e piatta riproduce l'immediatezza dello stile documentaristico).
L'eccezionalità del personaggio e la fascinazione che produsse sul profeta dell'estetismo di massa (Warhol) rimangono fuori dallo schermo: quello che vediamo fa pensare ad un connubio artistico nato sulla base dello schema vittima (lei) e carnefice (lui) in cui i due sfogano i traumi di un infanzia anaffettiva. Un trasfert psicanalitico che normalizza la componente trasgressiva, presente come fatto di cronaca ma latitante sul piano delle emozioni. La barbie androgina che fu capace di ammaliare il menestrello del rock, è restituita dalla presenza impalpabile di Sienna Miller con un interpretazione totalmente agiografica.
John mi disse-“che ne diresti di lavorare nella troupe?” Risposi che “L’unico rapporto con il cinema era quello di pagare il biglietto d’ingresso e che non avevo alcuna esperienza di come si fa un film. Lui mi disse che avremmo fatto un passo dopo l’altro..tutti insieme e questo mi parve affascinante.(Al Ruban)
La narrazione sobria e composta è supportata dalle bellissime animazioni di Tim Standard i cui disegni strambi e poetici ricordano il genio di Terry Gilliam dei Monty Python, e si arricchisce di umanità grazie alla parola data ai testimoni del mito, al racconto sincero e semplice degli amici degli esordi ai tempi in cui Joe si faceva chiamare Woody, e dei parenti e dei fans, tra cui Bono Vox, Steve Buscemi, Jim Jarmush, John Cusack, Johnny Depp, Matt Dillon che contribuiscono al ritratto di un uomo non privo di difetti, di un artista geniale e bizzoso, di un'epoca irripetibili.
Verdone è diventato incontenibile; dimenticati i complessi da artista non sempre in armonia con le proprie creazioni, il commediante di razza ha lasciato il posto ad una personalità che ha assunto nuove consapevolezze: il successo commerciale di opere più riflessive, in cui la risata si è arricchita di sfumature non necessariamente divertenti, così come l'avvenuto riconoscimento culturale, suggellato dalla direzione di un Festival cinematografico dedicato alla Commedia (Siena), ha permesso alla sua comicità di liberarsi dai limiti del cinema inteso come coazione a ripetere di format natalizi e televisivi (mi riferisco ai cine panettoni ed ai film di quegli attori che usano lo schermo come un palco televisivo), per dare vita ad interpretazioni attoriali e performance registiche più complesse, capaci di confrontarsi con le nuove generazioni (Il mio miglior nemico), senza i pregiudizi di chi non ha più nulla da imparare.
Odette e' una quarantenne madre di famiglia, vedova, con due figli a carico, maschio e femmina, che vive in Belgio ai giorni nostri e che apparentemente non ha alcun motivo per essere felice.
I toni sono leggeri e freschi, tipici da commedia francese, ma il tutto e' messo in scena con delicata poesia ed un pizzico di follia. Bravi gli attori, in particolare Catherine Frot. Una maggiore velocita' nelle battute avrebbe di certo giovato a tutto il film, ma ad una commedia francese si perdonano anche queste mancanze: i francesi non son mai stati tanto forti nei tempi comici.
"Un ragazzino tanto magro che il suo corpo emette il rumore del legno: 'sonetaula'. Siamo nella Sardegna del 1938 e quello diventera' il soprannome di un ragazzino che cresce nei pascoli con il nonno e il gregge di pecore. Suo padre e' stato mandato al confino per un delitto mai commesso."
Salutata con la solita sobrieta’ da un popolo festivaliero numeroso e trepidante Alina Marrazzi torna al Torino Film Festival dopo lo strepitoso successo ottenuto da "Un ora sola ti vorrei" il documentario che l’ha imposta come una delle realta’ piu’ interessanti del nostro panorama cinematografico, non solo tra gli addetti ai lavori, a volte propensi ad inventare il caso per sfruttarne l’inevitabile ritorno di visibilita’, ma anche dal pubblico piu’ giovane che aveva apprezzato l’originalita’ dell’opera e la delicatezza nella rappresentazione di un dramma personale. E non c’e’ dubbio che anche questa volta il tema dell’emancipazione femminile e piu’ in generale quello della condizione della donna a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘70 non sia semplicemente l’oggetto dell’indagine ma appartenga al vissuto dell’autrice non solo come categoria ma anche come esperienza vissuta.
Ho l’onore ed il piacere di pubblicare la recensione di Guido,un amico a cui mi lega una stima che supera la comune passione cinematografica.
Forse influenzato dalle storie di Jack lo squartatore oppure perché avvicinandosi alla fine il pessimismo è più che mai insopprimibile, sta di fatto che il nostro omino realizza e cosi conclude la sua avventura londinese lasciandoci l’amaro in bocca (per la cupezza della vicenda e non per la qualità sempre alta del suo cinema) con questa storia che sancisce la definitiva dicotomia tra materia e spirito, tra sogno e realtà, tra darwinismo sociale ed etica religiosa attraverso una storia che manco a farlo apposta sembra riecheggiare l’amletico dubbio "Essere o non essere" presente nell’ essenza dei due protagonisti (il cui ineluttabile destino suona come i "passi di un uomo morto" del protagonista de "La fiamma del peccato"), quello dalla faccia pulita quanto letale, interpretato da Mac Gregor, deciso ad essere ed ad andare fino in fondo per possedere le cose che desidera (anche la presunta Dark lady, trattata alla stregua delle costosissime macchine con cui le si presenta, si rivelerà migliore, innamorandosi di lui), e l’altro, fragilmente ruvido in un modo che riporta alla memoria le vertigini esistenziali del mitico James Dean, che sceglie di non essere, e si tormenta con rimorsi di coscienza e consapevolezze fuori dal tempo, in un ruolo che Farrel sembra costruire sulle proprie vicissitudini private.
bene e male, ma piuttosto nel continuare ad agire senza una posizione chiara rispetto a questi due parametri. In tal senso la fine è ormai nota ed è per questo che l’interesse del regista si concentra nella caretterizzazione dei personaggi e degli ambienti, ancora una volta eccellenti, grazie ad una direzione di impareggiabile carisma ed una sceneggiatura che come al solito non perde mai il filo del discorso ed è capace di definire, anche con poche battute (alla faccia del famoso discorso logorroico) tutti i personaggi che vi partecipano. W Zigmond (Black Dhalia) da spessore alle atmosfere colorando gli ambienti con toni chiaro scuri ed arricchendole sequenze con movimenti di macchina appena necessari (su tutti quello che ci impediscedi guardare nella sua interezza il conciliabolo in cui viene premeditato l’assassinio) ma capaci di sottolineare l’importanza del momento. Allen costruisce un noir anomalo (mancano gli intrecci della trama, l’interiorizzazione della vicenda da parte dei personaggi così come la pesenza di una donna traditrice) perché nella sua visione delle cose le costruzioni programmatiche non aiutano ed è solo il caso, qui rappresentato da un auto in panne ai margini della strada o dall’ennesima puntata sul tavolo da gioco, a stabilire il banco di prova per quella che chiamiamo la nostra coscienza.
Siamo in Spagna e più precisamente a Salamanca, un luogo che nel cinema, per quanto mi concerne è paragonabile alle Isole vergini, in termini di sfruttamento visivo. Dicevo siamo a Salamanca per assistere al discorso del Presidente degli Stati uniti, intervenuto al Congresso Mondiale sulla guerra al terrorismo. La piazza ricavata all’interno del cortile di un maestoso quadrilatero murario adibito a spazio abitativo, è gremita di gente eccitata dall’evento ed i servizi segreti la sorvegliano come se fosse l’ultimo tesoro del mondo.
La febbre del gioco secondo Marco Baldini è qualcosa che dipende dal destino: lo dimostra nel suo libro Il giocatore trasformato in un film da Franco Paternò ed interpretato da Elio Germano nel ruolo del DJ fiorentino, lavoro che gli permette di sfuggire alle pressioni familari ed allo stesso tempo lo inizia alle scommesse nell’agenzia dove il capo lo manda a riscuotere il suo primo stipendio. Trasferitosi a Milano perché assunto da Radio DJ, dove sfonda con una trasmissione mattutina (la parte migliore della sua giornata , da cui il titolo del film) si imbatte nuovamente in una casa da gioco che lo vedrà protagonista di un escalation di scommesse e debiti non pagati che lo porteranno ad un passo dalla morte per mano degli strozzini che non riesce a rimborsare.
Lo Scafandro e la Farfalla , il bel titolo del nuovo film di Julian Schnabel è di quelli destinati a rimanere nella testa non soltanto per l’accostamento audace dei sostantivi ma piuttosto per il mondo fiabesco evocato dalla sua lettura. Tratto dall’omonimo libro di JD Bauby, uomo di successo relegato su una sedia a rotelle dall’ ictus che lo ha reso catatonico ed incapace di parlare, il film ripercorre sotto forma di diario intimo e resoconto esperienziale quei terribili momenti, dalla scoperta della malattia alla difficile quanto insoddisfacente rieducazione, in cui anche il gesto più istintivo è il risultato di un lavoro lungo e faticoso fino alla decisione di iniziare la stesura del libro scritto per interposta persona attraverso i battiti dell’occhio sinistro rimasto miracolosamente illeso.