giovedì, marzo 13, 2008

Planet terror

John mi disse-“che ne diresti di lavorare nella troupe?” Risposi che “L’unico rapporto con il cinema era quello di pagare il biglietto d’ingresso e che non avevo alcuna esperienza di come si fa un film. Lui mi disse che avremmo fatto un passo dopo l’altro..tutti insieme e questo mi parve affascinante.(Al Ruban)

Planet Terror è un film che non può prescindere dagli eventi che precedono la sua visione : tutto quello che ti scorre davanti rimanda inevitabilmente a qualcosa che è gia successo ; la pellicola mutilata fisicamente di una parte del suo corpus filmico, sacrificato agli interessi commerciali dei distributori impauriti dalla sua sfrontata e provocatoria opulenza, i segni incisi sulla pellicola crepitanti ed insistiti come quelli di una fiamma ossidrica, la forma del suo linguaggio che riproduce fino all’esasperazione un idea di cinema che è già andata in scena, sono i segni inequivocabili di questa dissociazione.
Una malattia che degenera al presente con il progressivo sfaldamento dei suoi organi interni -il sottogenere exploitation che è alla base del progetto incapace di contenere il fast food cinefilo di Rodriguez, l’inteccio narrativo costretto a giochi di equilibrio per far convivere l’uccisione di Bill Laden con il cameratismo omicida del Colonnello Willis e senza dimenticare la ricerca della salsa perfetta raggiunta sul punto dai due fratelli sciroccati, al montaggio sincopato e febbricitante sempre sul punto di liquefarsi come l’immagine della pellicola bruciata che ci riporta al clima da Grindhouse e fa sembrare le nostre sale il paradiso dei fratelli Lumiere- ed esterni – con il ribollire di pustole pululente ed i tessuti disfatti che sembrano coincidere con quelli chimici delle immagini. Pennellate di bile ed Omogenizzati a buon mercato; Acidità ludiche capaci di derapare le superficie delle cose con squarci di bellezza che sono lo specchio capovolto di quel mondo (gli occhi e la bocca di un indimenticabile Rose MacGowen, una chicas che non riesce a dimenticare il marchio di sangue ricevuto da Greg Araki). Di Rodriguez ci piace il suo caos organizzato che mescola le tendenze (horror, drammatico bmovie fumetto) e resuscita attori (Michael Bien, Jeff Fahey ed in misura minore Josh Brolin) ma soprattutto la supremazia dell’essere sull’apparire. Senza fraintendimenti e con l’opzione del “prendere o lasciare” che non sposta di un millimetro la voglia di fare cinema del cowboy americano.

“Non siamo intelligenti come dicono. Certe cose sono successe e basta. I film parlano da soli, e spesso fai una cosa che ti pare giusta senza pensarci in anticipo”.(Al Ruban)

Al Ruban fu un collaboratore fondamentale di ben sette degli undici film realizzati da John Cassavetes. Incominciò come assistente di produzione poi divenne direttore della fotografia, produttore e fece due brevi apparizioni

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