lunedì, novembre 14, 2022

THE GOOD NURSE

The Good Nurse

di Tobias lindholm

con Jessica Chastain, Eddie Redmayne

USA, 2022

genere: giallo, drammatico

durata: 121’

Sulla scia del clamoroso successo di Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, il film The Good Nurse di Tobias Lindholm torna sul “luogo del delitto” per restituire la figura del serial killer a una complessità spesso negata da un eccesso di commercializzazione. Con gli ottimi Jessica Chastain ed Eddie Redmayne protagonisti assoluti del film.

Nella piattaforma ammiraglia delle serie tv (Netflix) quello che pensavamo è già accaduto, con la filiera produttiva aperta alla possibilità che la progettualità cinematografica non sia più una questione relegata al suo universo d’elezione, quello in cui a dettare legge nelle scelte dei produttori è il responso della sala, ma che vi sia un meccanismo di influenza reciproca per cui la decisione di girare un determinato lungometraggio possa dipendere (anche) dal gusto di un pubblico abituato a confrontarsi in primis con una fruizione di tipo seriale. Tutto questo a testimonianza di un’osmosi, quella tra fiction televisiva e settima arte sempre più paritaria, non solo in termini estetici, ma anche di gusto. Ad alimentare questa ipotesi contribuisce la presenza su Netflix di un film come The Good Nurse, di Tobias Lindholm, messo in cartellone sulla scia del clamoroso successo di Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, miniserie capace di rilanciare l’interesse verso un filone, quello dedicato ai serial killer, banalizzato, come altri, dall’eccesso di commercializzazione.

The Good Nurse conferma la persistenza di un processo inverso in atto molto prima della messa in rete della storia sull’assassinio di Milwaukee. Pur avendo avuto dei prodromi sulla fine degli ottanta con il film di William Friedkin, Assassino senza colpa (diretto da William Friedkin), affossato dalle disavventure produttive, ma esemplare nello spostare l’attenzione su logiche sempre più attinenti alla sfera psicologica e a una dimensione del male slegata dalla messa in scena del delitto, il recupero della complessità connessa con la figura del killer seriale deve molto al lavoro di un esperto in materia del calibro di David Fincher. Parliamo di un regista capace di confezionare un “finto” blockbuster qual è Seven, in cui suspense e orrore sono il frutto di una serie di omissioni – quelle legate alla vista del modus operandi dell’assassino – (lezione di cui The Good Nurse fa tesoro) che operano in un contesto nel quale l’odore del male fuoriusciva dalla mancata spettacolarizzazione delle sue tragiche iniziative.

Una modalità ribadita da Fincher con ancora più forza in Mindhunter (altra serie targata Netflix) in cui il progressivo allontanamento dalla scena del crimine (in termini di fuori campo, ma anche di punto macchina) andava di pari passo con un racconto più psicologico che fattuale.

A quel tipo di atmosfere e soprattutto di cinema (perché anche Mindhunter lo è) si rifà The Good Nurse nella trasposizione per immagini del libro scritto dal giornalista Charles Graber, sulla base di circa sei anni di interviste relative alla vicenda di Charles Cullen (Eddie Redmayne), infermiere che nel corso dei sedici anni di lavoro ospedaliero si sarebbe macchiato della morte di circa quattrocento pazienti (le stime sono provvisorie e tutt’ora indimostrabili) inserendo sostanze tossiche all’interno delle sacche utilizzate per le flebo.

Rispettando i modelli di cui sopra e inserendo nella storia un contraltare femminile con le sembianze e il talento di Jessica Chastain, la “brava infermiera”, chiamata dalla polizia a collaborare con la giustizia per incastrare il collega, Lindholm trasforma il thriller in una sorta di racconto a due voci in cui il confronto tra bene e male diventa quello tra due umanità speculari, e soprattutto tra una coppia di attori da Oscar, capaci di andare contro se stessi e dunque in direzione contraria al tipo di recitazione mimetica e manierata che è valsa loro il plauso dell’Academy, facendosi parte integrante di un più ampio lavoro di sottrazione che interessa innanzitutto la messinscena dei personaggi, sottratti al dinamismo e alla sensibilità emozionale che appartiene alla rappresentazione del conflitto tra segni opposti.

Lindholm lavora nell’ombra (come di fatto avviene nella scelta di non illuminare la scena, lasciando spazio a recessi e assenza di luce) anche per quanto riguarda il racconto per immagini. Si pensi alle sequenze speculari che introducono i protagonisti, in cui la diversa empatia di Charles e Amy trova corrispondenza in inquadrature rivelatrici delle opposte psicologie. Quella con Redmayne in cui il paziente pur presente nella stanza rimane visivamente fuori campo, come a testimoniare il mancato legame tra medico e degente, e l’altra, di egual tenore ma di segno contrario, nella quale è impossibile inquadrare Amy senza fare la stessa cosa con le persone di cui si occupa nell’istituto ospedaliero in cui lavora.

Ed è proprio il progressivo uscire allo scoperto della storia e del suo oscuro protagonista che racconta il rapporto tra personaggi e inquadrature. Così accade quando lo spettatore e la protagonista disconoscono la vera natura di Charles, con una serie di campi e controcampi in cui i primi piani ravvicinati sono tutti ad appannaggio di Amy perché di lei conosciamo con esattezza le vicissitudini, mentre quelli del collega rimangono più distanti, spesso frutto di campi medi che, nell’allontanare il volto dell’assassino, e, dunque, nel complicare la possibilità di leggerne le emozioni che l’attraversano, affermano la mancata trasparenza e il carattere sfuggente del personaggio. Al contrario di quanto accade nella seconda parte, quando la maggiore conoscenza di fatti e identità si traduce in piani e primi piani (dei protagonisti) pressoché identici.

Jessica Chastain ed Eddie Redmayne ci mettono del loro per trasformare il glamour divistico in un anonimato gestuale e fisico che fa ancora di più risaltare l’eccezionalità del quotidiano in cui sono coinvolti i loro personaggi. A metà strada tra biopic e crime story, The Good Nurse rispetta la cosiddetta insondabilità del delitto (nella realtà Cullen non rivelò mai i motivi del suo operato), accusa il sistema sanitario (reo di tacere sul sospettato per evitare scandali) e si proclama fan di Hannah Arendt e della sua teoria sulla banalità del male.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

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