The Good Nurse
di Tobias lindholm
con Jessica Chastain,
Eddie Redmayne
USA, 2022
genere: giallo,
drammatico
durata: 121’
Sulla scia del clamoroso
successo di Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, il film The Good
Nurse di Tobias Lindholm torna sul “luogo del delitto” per restituire la figura
del serial killer a una complessità spesso negata da un eccesso di commercializzazione.
Con gli ottimi Jessica Chastain ed Eddie Redmayne protagonisti assoluti del
film.
Nella piattaforma
ammiraglia delle serie tv (Netflix) quello che pensavamo è già accaduto, con la
filiera produttiva aperta alla possibilità che la progettualità cinematografica
non sia più una questione relegata al suo universo d’elezione, quello in cui a
dettare legge nelle scelte dei produttori è il responso della sala, ma che vi
sia un meccanismo di influenza reciproca per cui la decisione di girare un
determinato lungometraggio possa dipendere (anche) dal gusto di un pubblico
abituato a confrontarsi in primis con una fruizione di tipo seriale. Tutto
questo a testimonianza di un’osmosi, quella tra fiction televisiva e settima
arte sempre più paritaria, non solo in termini estetici, ma anche di gusto. Ad
alimentare questa ipotesi contribuisce la presenza su Netflix di un film come
The Good Nurse, di Tobias Lindholm, messo in cartellone sulla scia del
clamoroso successo di Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, miniserie
capace di rilanciare l’interesse verso un filone, quello dedicato ai serial killer,
banalizzato, come altri, dall’eccesso di commercializzazione.
The Good Nurse conferma
la persistenza di un processo inverso in atto molto prima della messa in rete
della storia sull’assassinio di Milwaukee. Pur avendo avuto dei prodromi sulla
fine degli ottanta con il film di William Friedkin, Assassino senza colpa
(diretto da William Friedkin), affossato dalle disavventure produttive, ma
esemplare nello spostare l’attenzione su logiche sempre più attinenti alla
sfera psicologica e a una dimensione del male slegata dalla messa in scena del
delitto, il recupero della complessità connessa con la figura del killer
seriale deve molto al lavoro di un esperto in materia del calibro di David
Fincher. Parliamo di un regista capace di confezionare un “finto” blockbuster
qual è Seven, in cui suspense e orrore sono il frutto di una serie di omissioni
– quelle legate alla vista del modus operandi dell’assassino – (lezione di cui
The Good Nurse fa tesoro) che operano in un contesto nel quale l’odore del male
fuoriusciva dalla mancata spettacolarizzazione delle sue tragiche iniziative.
Una modalità ribadita da Fincher con ancora più forza
in Mindhunter (altra serie targata Netflix) in cui il progressivo
allontanamento dalla scena del crimine (in termini di fuori campo, ma anche di
punto macchina) andava di pari passo con un racconto più psicologico che
fattuale.
A quel tipo di atmosfere
e soprattutto di cinema (perché anche Mindhunter lo è) si rifà The Good Nurse
nella trasposizione per immagini del libro scritto dal giornalista Charles
Graber, sulla base di circa sei anni di interviste relative alla vicenda di Charles
Cullen (Eddie Redmayne), infermiere che nel corso dei sedici anni di lavoro
ospedaliero si sarebbe macchiato della morte di circa quattrocento pazienti (le
stime sono provvisorie e tutt’ora indimostrabili) inserendo sostanze tossiche
all’interno delle sacche utilizzate per le flebo.
Rispettando i modelli di
cui sopra e inserendo nella storia un contraltare femminile con le sembianze e
il talento di Jessica Chastain, la “brava infermiera”, chiamata dalla polizia a
collaborare con la giustizia per incastrare il collega, Lindholm trasforma il
thriller in una sorta di racconto a due voci in cui il confronto tra bene e
male diventa quello tra due umanità speculari, e soprattutto tra una coppia di
attori da Oscar, capaci di andare contro se stessi e dunque in direzione
contraria al tipo di recitazione mimetica e manierata che è valsa loro il
plauso dell’Academy, facendosi parte integrante di un più ampio lavoro di
sottrazione che interessa innanzitutto la messinscena dei personaggi, sottratti
al dinamismo e alla sensibilità emozionale che appartiene alla rappresentazione
del conflitto tra segni opposti.
Lindholm lavora
nell’ombra (come di fatto avviene nella scelta di non illuminare la scena,
lasciando spazio a recessi e assenza di luce) anche per quanto riguarda il
racconto per immagini. Si pensi alle sequenze speculari che introducono i
protagonisti, in cui la diversa empatia di Charles e Amy trova corrispondenza
in inquadrature rivelatrici delle opposte psicologie. Quella con Redmayne in
cui il paziente pur presente nella stanza rimane visivamente fuori campo, come
a testimoniare il mancato legame tra medico e degente, e l’altra, di egual
tenore ma di segno contrario, nella quale è impossibile inquadrare Amy senza
fare la stessa cosa con le persone di cui si occupa nell’istituto ospedaliero
in cui lavora.
Ed è proprio il
progressivo uscire allo scoperto della storia e del suo oscuro protagonista che
racconta il rapporto tra personaggi e inquadrature. Così accade quando lo
spettatore e la protagonista disconoscono la vera natura di Charles, con una
serie di campi e controcampi in cui i primi piani ravvicinati sono tutti ad
appannaggio di Amy perché di lei conosciamo con esattezza le vicissitudini,
mentre quelli del collega rimangono più distanti, spesso frutto di campi medi
che, nell’allontanare il volto dell’assassino, e, dunque, nel complicare la
possibilità di leggerne le emozioni che l’attraversano, affermano la mancata
trasparenza e il carattere sfuggente del personaggio. Al contrario di quanto
accade nella seconda parte, quando la maggiore conoscenza di fatti e identità
si traduce in piani e primi piani (dei protagonisti) pressoché identici.
Jessica Chastain ed Eddie
Redmayne ci mettono del loro per trasformare il glamour divistico in un
anonimato gestuale e fisico che fa ancora di più risaltare l’eccezionalità del
quotidiano in cui sono coinvolti i loro personaggi. A metà strada tra biopic e
crime story, The Good Nurse rispetta la cosiddetta insondabilità del delitto
(nella realtà Cullen non rivelò mai i motivi del suo operato), accusa il
sistema sanitario (reo di tacere sul sospettato per evitare scandali) e si
proclama fan di Hannah Arendt e della sua teoria sulla banalità del male.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su taxidrivers.it)
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