Mon Roi
di Maewenn
con Emanuelle Bercot,Vincent Cassel
Francia, 2015
genere, drammatico
durata, 128'
Indipendentemente dai suoi risvolti, la contemporaneità raccontata dal cinema presenta delle costanti che ne fanno una specie di cartina di tornasole degli usi e dei costumi del nostro tempo. In tale scenario i sentimenti occupano da sempre una posizione di rilievo, per il senso d'identificazione che scaturisce dalla visione di un campionario di emozioni corrispondente, almeno in parte, a quello sperimentato nella vita, dalla gente seduta in sala. Ed è forse questo a spiegare, da un lato, la decisione di Thierry Frémaux, il direttore del festival di Cannes, di inserire un film "popolare" come "Mon roi" nel concorso principale; e, dall'altra, a giustificare l'attitudine del pubblico, pronto a lasciarsi coinvolgere dalle vicende di Tony (Emanuelle Bercot) e Georgio (Vincent Cassel), i protagonisti del film, chiamati a rappresentare, con il loro con l'amour fou, le mille contraddizioni che attraversano i rapporti di coppia. La storia, scritta e girata da Maiwenn, regista messasi in luce nel 2011 grazie alla conquista del gran premio della giuria del festival francese ottenuto con "Polisse, segue per filo e per segno la struttura narrativa utilizzata per questo genere di film, raccontando le tappe di una parabola amorosa pronta a rovesciarsi sugli sciagurati personaggi non prima di averli illusi sull'eternità delle passioni umane. Anche qui, ad innescare la tenzone, ci pensa il più classico dei colpi di fulmine e, di pari passo, l'attrazione sessuale tra due opposti (lei è un avvocato arrivato ai quaranta con molto lavoro e pochi divertimenti, lui un ristoratore narciso e volubile) destinati a soccombere sotto i colpi delle incongruenze caratteriali; e nonostante la presenza di un neonato che dovrebbe funzionare come deterrente e che invece diventa il pretesto per continuare a "darsele" - in senso figurato - di santa ragione.
Raccontato dal punto di vista femminile e secondo il modello sociologico imposto da saggi come quello di Barbara Norwood, terapista americana che in "Donne che amano troppo", aveva esplorato la casistica di donne che si innamorano dell'uomo sbagliato, "Mon roi" sconta in qualche modo lo squilibrio che deriva dal contrasto tra la straordinaria naturalità degli attori - in grado di azzerare la finzione a favore di un sorprendendo realismo interpretativo - e la scontata convenzionalità della messinscena; quest'ultima, evidente soprattutto nell'espediente narrativo che fa coincidere, grazie a al montaggio alternato di passato e presente, il risveglio emotivo di Tony, progressivamente cosciente dell'impossibilità del proprio menage coniugale, alla complessa e dolorosa guarigione del suo ginocchio, lesionato durante un incidente sciistico e preso in cura dall'istituto specializzato in cui la donna è ricoverata. Con la necessità di dipanare a dismisura i dettagli del ciclo terapico allo scopo di fornire il contraltare metaforico su cui innestare i flashback che illustrano la schizofrenico rapporto tra Georgio e Tony. I quali, non volendo, finiscono per diventare i rappresentanti di quella borghesia parigina, benestante e autolesionistica, che Michel Houllebecq ha preso più volte in prestito per raccontare la decadenza del mondo occidentale.
Certo "Mon roi", con il suo appeal dichiaratamente edonistico (i corpi tonificati dall'esercizio fisico e generosamente esposti ne sono una dimostrazione), è lontano dall'infelicità senza speranza raccontata dallo scrittore francese; ma quando, verso la metà della storia, iniziamo ad assistere all'impari confronto tra il vitalismo dei ragazzi arabi, che condividono il percorso terapeutico di Tony, e la dispersione priva di costrutto del suo egocentrico partner, non si può fare a meno di pensare all'autore di "Estensione del dominio della lotta" e al tentativo di Maewenn di conferire spessore al soggetto del film, con una morale che risulta evidentemente programmatica. Per la sua interpretazione, Emanuelle Bercot si è aggiudicata il premio ex equo come miglior attrice del festival, legittimando i motivi di una partecipazione che l'aveva vista anche regista del film d'apertura. Per lei un'edizione sicuramente da incorniciare.
(pubblicato su ondacinema.it)
di Maewenn
con Emanuelle Bercot,Vincent Cassel
Francia, 2015
genere, drammatico
durata, 128'
Indipendentemente dai suoi risvolti, la contemporaneità raccontata dal cinema presenta delle costanti che ne fanno una specie di cartina di tornasole degli usi e dei costumi del nostro tempo. In tale scenario i sentimenti occupano da sempre una posizione di rilievo, per il senso d'identificazione che scaturisce dalla visione di un campionario di emozioni corrispondente, almeno in parte, a quello sperimentato nella vita, dalla gente seduta in sala. Ed è forse questo a spiegare, da un lato, la decisione di Thierry Frémaux, il direttore del festival di Cannes, di inserire un film "popolare" come "Mon roi" nel concorso principale; e, dall'altra, a giustificare l'attitudine del pubblico, pronto a lasciarsi coinvolgere dalle vicende di Tony (Emanuelle Bercot) e Georgio (Vincent Cassel), i protagonisti del film, chiamati a rappresentare, con il loro con l'amour fou, le mille contraddizioni che attraversano i rapporti di coppia. La storia, scritta e girata da Maiwenn, regista messasi in luce nel 2011 grazie alla conquista del gran premio della giuria del festival francese ottenuto con "Polisse, segue per filo e per segno la struttura narrativa utilizzata per questo genere di film, raccontando le tappe di una parabola amorosa pronta a rovesciarsi sugli sciagurati personaggi non prima di averli illusi sull'eternità delle passioni umane. Anche qui, ad innescare la tenzone, ci pensa il più classico dei colpi di fulmine e, di pari passo, l'attrazione sessuale tra due opposti (lei è un avvocato arrivato ai quaranta con molto lavoro e pochi divertimenti, lui un ristoratore narciso e volubile) destinati a soccombere sotto i colpi delle incongruenze caratteriali; e nonostante la presenza di un neonato che dovrebbe funzionare come deterrente e che invece diventa il pretesto per continuare a "darsele" - in senso figurato - di santa ragione.
Raccontato dal punto di vista femminile e secondo il modello sociologico imposto da saggi come quello di Barbara Norwood, terapista americana che in "Donne che amano troppo", aveva esplorato la casistica di donne che si innamorano dell'uomo sbagliato, "Mon roi" sconta in qualche modo lo squilibrio che deriva dal contrasto tra la straordinaria naturalità degli attori - in grado di azzerare la finzione a favore di un sorprendendo realismo interpretativo - e la scontata convenzionalità della messinscena; quest'ultima, evidente soprattutto nell'espediente narrativo che fa coincidere, grazie a al montaggio alternato di passato e presente, il risveglio emotivo di Tony, progressivamente cosciente dell'impossibilità del proprio menage coniugale, alla complessa e dolorosa guarigione del suo ginocchio, lesionato durante un incidente sciistico e preso in cura dall'istituto specializzato in cui la donna è ricoverata. Con la necessità di dipanare a dismisura i dettagli del ciclo terapico allo scopo di fornire il contraltare metaforico su cui innestare i flashback che illustrano la schizofrenico rapporto tra Georgio e Tony. I quali, non volendo, finiscono per diventare i rappresentanti di quella borghesia parigina, benestante e autolesionistica, che Michel Houllebecq ha preso più volte in prestito per raccontare la decadenza del mondo occidentale.
Certo "Mon roi", con il suo appeal dichiaratamente edonistico (i corpi tonificati dall'esercizio fisico e generosamente esposti ne sono una dimostrazione), è lontano dall'infelicità senza speranza raccontata dallo scrittore francese; ma quando, verso la metà della storia, iniziamo ad assistere all'impari confronto tra il vitalismo dei ragazzi arabi, che condividono il percorso terapeutico di Tony, e la dispersione priva di costrutto del suo egocentrico partner, non si può fare a meno di pensare all'autore di "Estensione del dominio della lotta" e al tentativo di Maewenn di conferire spessore al soggetto del film, con una morale che risulta evidentemente programmatica. Per la sua interpretazione, Emanuelle Bercot si è aggiudicata il premio ex equo come miglior attrice del festival, legittimando i motivi di una partecipazione che l'aveva vista anche regista del film d'apertura. Per lei un'edizione sicuramente da incorniciare.
(pubblicato su ondacinema.it)
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