I pugni in tasca
di Marco Bellocchio
con Paola Pitagora, Lou Castel, Marino Masè, Liliana Gerace
Italia 1965,
genere, drammatico
durata, 107'
Quattro
fratelli vivono in una grande villa di famiglia sulle colline del
Piacentino con la madre cieca. Augusto, il maggiore, è l'unico ad avere
un lavoro. Giulia ne è morbosamente innamorata. Gli altri due sono
Leone, affetto da ritardo mentale e Ale dal carattere nevrotico e
solitario. Sarà quest'ultimo a far saltare i già precari equilibri
familiari.
“Un
arrivo folgorante nel cinema italiano”. Così Michel Ciment parla del
lungometraggio d’esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca,
presentato nel 1965 al Festival di Locarno. Nel 50° anniversario della
sua uscita, I pugni in tasca torna, restaurato dalla Cineteca di Bologna
al laboratorio L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele
Ciprì e la promozione di Kavac Film, sostenuta da Giorgio Armani.
Con
I pugni in tasca, Bellocchio lancia il suo primo grido di rivolta,
mettendo in scena l’autodistruzione di una famiglia sfortunata:
infierisce con rabbia e disperazione contro i legami parentali e il
cattolicesimo, istituzioni imprescindibili per la borghesia italiana del
tempo.
Selvaggio,
sarcastico, molto liberamente autobiografico, girato nelle campagne di
Bobbio, porta in scena un eroe antisociale e ribelle. In equilibrio fra
adesione e distacco dalla folle lucidità del protagonista, il regista, a
cinquant’anni di distanza, mantiene intatta la propria modernità e
carica corrosiva. “Impossibile non vedere nei Pugni in tasca una catarsi
– scrive Michel Ciment, curatore del libro che accompagna la nuova
edizione in DVD –, un esorcismo del passato recente di Bellocchio.
L’ambiguità, la complessità della trama vanno di pari passo con
l’eccezionale maturità di uno stile che rifiuta il compiacimento
estetico tipico dei giovani [...]”.
L’esordio
di Bellocchio dietro la macchina da presa ha tutto il gusto delle
nuove ondate europee e americane del periodo. L’efficacia
della pellicola risiede nelle novità dell’impianto
stilistico, in grado di lacerare il passato con una messa in
scena svincolata da dogmi cinematografici e nell’irruenza
con cui il regista tratta temi “delicati” come rapporti
familiari, malattia fisica e mentale.
Parte
del merito della riuscita del film va attribuita alle
interpretazioni degli attori principali, tra le quali brilla
quella di Lou Castel: l’allora giovane attore donò al suo
personaggio, Sandro, una malinconica follia unita a una fredda
crudeltà.
L’intera
vicenda ruota attorno ad una famiglia di provincia, un tema che
in qualche modo può esser considerato attiguo alla realtà
italiana. In tal modo Bellocchio si avvicina ai grandi esordi
dell’epoca: trattare nello specifico un argomento per quanto
possibile prossimo all’ambiente conosciuto, così da
prendere le distanze dalle grandi storie, con uno stile
innovativo e personale. Attraversa melodramma e crudo
realismo, simbolismo ed echi di rivoluzione. Il cinismo del
film è un mezzo necessario per rappresentare la palingenesi
della generazione che da lì a pochi anni sarà protagonista dei
movimenti del ’68.
L'isolata
villa piacentina diventerà una gabbia dalla quale sarà
impossibile evadere, un microcosmo autodistruttivo che si
nutre della follia dei suoi abitanti. L’unico che sembra
riuscire ad allontanarsi è Augusto, il fratello maggiore, il
solo che conduce una vita ordinaria. Gli omicidi che si
susseguono sono costruiti in una climax che fa immedesimare
lo spettatore nei sentimenti vissuti in quell’istante da
Sandro. Alla morte non segue sofferenza, non a caso, sentiremo
dire: “Questa casa non è mai stata cosi viva come per un funerale”;
letta in senso allegorico, la morte, che è un taglio netto con il
vecchio, diventa una rigenerazione, un buon inizio per
l'agoniata rivoluzione. Anche la cecità della madre può esser
intesa in senso metaforico: è quella della vecchia
generazione e della nuova società borghese. La totale
mancanza di una figura paterna è simbolo di un vuoto di
riferimenti.
Nella
pellicola, la malattia fisica diventa il presupposto per
leggere la realtà che ci circonda, così come quella mentale
diviene un modo nuovo d’intendere la vita. Colui che nel film
rappresenta la normalità cioè Augusto, non raffigura la
serenità che vorrebbe raggiungere Sandro, ma
l’omologazione che invece rifugge. La città, con i suoi
schemi, diventa più claustrofobica della villa isolata, forse
unico luogo in cui è permessa l’espressione del proprio essere,
dove la libertà, esasperata fino alla follia, sarà vissuta
pienamente.
Riccardo Supino
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