venerdì, dicembre 04, 2015

BANGLAND - INTERVISTA A LORENZO BERGHELLA



Nel cinema italiano si sta facendo largo una nuova generazione di registi che si differenzia da quelli del passato per un tipo di autorialità che frequenta generi e formati senza disdegnare la possibilità di di diventare parte in causa di progetti altrui. Lorenzo Berghella, il regista di "Bangland" uno dei film rivelazione dell'ultimo edizione del festival di Venezia, è uno di questi. Dopo aver visto in anteprima il suo lungometraggio siamo andati a incontrarlo a Pescara, la città dove vive e lavora. Quella che ne è nata più che un'intervista è diventata una conversazione tra appassionati di cinema. 


Che ruolo hanno avuto, ammesso che l’abbiano avuto, nel tuo immaginario, il fumetto e l’animazione di origine americana e britannica.

Hanno avuto un’importanza fondamentale, visto che la mia idea originaria era quella di portare la maturità del fumetto soprattutto britannico nell’animazione, perché proprio l’animazione è spesso considerata una cosa per bambini, mentre invece,  per fare un esempio,  “Watchmen” appartiene alla letteratura “per adulti” nonostante sia un fumetto. Quindi il mio intento era proprio quello di non fare un film d’animazione ma un vero e proprio film realizzato con la tecnica dell’animazione. Altresì ha giocato un ruolo fondamentale l’animazione americana, infatti il desiderio di intraprendere la strada dell’animazione è nato proprio dopo aver visto “American pop” di  Ralph Bakshi.

Quindi tu all’inizio volevi fare il regista e successivamente  hai deciso di esserlo di un film d’animazione.

Sì, io ho iniziato a studiare all’Ifa (Scuola del cinema di Pescara)  il cinema dal vero – aggiungo che da bambino ad esempio mi dilettavo nel girare film con i pupazzi o con i giocattoli, mai con le persone reali – poi però, visto che mi dilettavo nel disegno amatoriale di fumetti, uno degli insegnanti della scuola, Cristiano di Felice –  poi diventato anche uno dei produttori del film insieme ad Alessandro Di Felice e Gianluca Arcopinto – mi ha chiesto di provare a fare un videoclip animato, da lì ho deciso di voler provare a portare il linguaggio cinematografico nell’animazione e così è nato “Bangland”.



Lo sguardo che hai avuto sulla società americana è molto particolare perché sembra un approccio comunque di un autore europeo, quindi una cosa che un americano non avrebbe mai potuto fare. È stato un procedimento su cui hai ragionato.

Sì il mio intento era proprio quello di raccontare l’America vista da fuori, quello che ho cercato di fare è stato raccontare come ci viene mostrata e come noi la percepiamo – attraverso il cinema, la musica, i notiziari, etc. –; difatti tutte le citazioni presenti nel film non sono fini a sé stesse ma sono votate a restituire quel mondo che loro ci mostrano. Un’operazione del genere, ad esempio, l’aveva fatta Garth Ennis, scrittore irlandese, col fumetto “Preacher”.

Il tuo alla fine è un film dalla quale l’America non esce per niente bene, d’altra parte tutti i dettagli con cui descrivi quel Paese dimostrano che da parte tua c’è una certa attenzione per quella cultura. Non trovi che questa potrebbe apparire come una contraddizione.

È sicuramente una contraddizione, visto che c’è una sorta di rapporto di amore/odio. Anche se “l’amore” è in tal caso indotto, visto che tutti noi siamo cresciuti con l’immaginario americano come punto di riferimento. Quindi con uno sguardo critico noto i difetti e le problematiche di quella stessa cultura verso la quale c’è comunque un’ovvia attrazione.

A quali motivi espressivo/linguistici è legata la scelta di un montaggio così serrato.

Il montaggio di “Bangland” più che a questioni linguistiche purtroppo è legato a questione delle tempistiche ristrette che ho avuto per realizzarlo, però proprio per questo è stato molto istintivo, come istintive sono state  l’idea e la stesura della sceneggiatura. La fretta era in ogni caso dovuta alla scadenza imminente dei termini per l’iscrizione del film al festival di Venezia.


Un difetto del film è, a nostro avviso, il doppiaggio: cosa ne pensi.

Tutti gli attori, pur essendo bravissimi, erano alla loro prima esperienza al doppiaggio e con i ritmi serrati avuti, cui facevamo riferimento anche parlando del montaggio, non avrebbero potuto fare di meglio e non posso che ringraziarli.

Il film arriverà nelle sale.
Il film uscirà a inizio 2016 e sarà distribuito dalla Pablo Distribuzione di Gianluca Arcopinto.

Ci parli di come hai scelto la struttura cromatica del film.

Premetto di essere un pessimo disegnatore (ride) però effettivamente il lavoro cromatico è la cosa che mi riesce meglio e in questo senso o lavorato per cercare di contrastare blu e rosso in un contesto permanentemente grigiastro, cercando di ricreare la sensazione della fotografia cinematografica. L’intenzione era quella di trasportare il gusto estetico psichedelico degli anni ’60/’70 ai giorni nostri, cercando di restituire una psichedelia distopica piuttosto che utopica.

I movimenti dei personaggi sono un po’ robotici, è una tua scelta stilistica o una limitazione tecnica.
Le movenze dei personaggi per lo più sono quelle di persone riprese dal vero poi ricalcate con la tecnica del rotoscopio, cercando di dare l’impressione di un movimento che fosse il più naturale possibile. In alcuni casi è riuscito, in altri ho dovuto lasciare quelle movenze un po’ robotiche cui facevi riferimento.


Che idea hai dell’estetica della violenza nel cinema.

Penso che la presenza della violenza nel cinema sia inevitabile, anche a causa della fascinazione che esercita sul nostro immaginario, si pensi ad esempio  a Caravaggio. Così come nei videogiochi, che secondo me hanno un potenziale artistico da non sottovalutare, anche se oggi sono ancora troppo legati al concetto di intrattenimento.

Nei dialoghi del film ci sono due meccanismi emotivi molto americano: sono o ironici in riferimento ai modelli di cui si parla o c’è una forte disillusione; questo è intenzionale o è un’eredità percepita da “l’americanesimo”.

Il mio modo di fare ironia è per arrivare a un fine, arte prese dalla stand up comedy. L’idea era quella di “dare la medicina – il fine a cui voglio arrivare – con lo zucchero – in questo caso l’ironia –. I dialoghi di Tarantino, ad esempio, sono fatti tecnicamente benissimo ma non portano (volutamente) a nulla.

Il tuo cinema è citazionista e post-moderno, quindi come lo definiresti.

Il cinema che vorrei fare è un mezzo per un fine, come dicevo prima. Vorrei che portasse non dico a cambiare la testa delle persone ma vorrei almeno portarle ad avere un pensiero critico, quindi usando gli strumenti del cinema post-moderno, superarlo ed arrivare a qualcosa di diverso. Per esempio “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij è un romanzo che potrebbe essere considerato alla base del noir: c’è la struttura di genere che però arriva a qualcos’altro.

Per ora all’orizzonte c’è solo in cinema d’animazione.

Non saprei mai girare un film “vero”, non so se sarei in grado di gestire tante persone, però in futuro mi piacerebbe farlo.

Per quanto riguarda la censura, tu fai fare a Spielberg, che è un ebreo, il presidente, quindi lo metti a capo della cospirazione. Quando hai fatto questa scelta ne eri consapevole.

Sì consapevole ma non pensavo che sarebbe diventato un film, quindi non ho fatto autocensura. Ora che comunque mi trovo davanti alla censura non me ne pento, il valore aggiunto del film è essere un film coraggioso.

Perché hai scelto proprio Spielberg.

Mi piaceva prendere delle personalità associate a cose buone, come ad esempio Bill Murray. Spielberg appartiene alla cultura ebraica e in secondo luogo rappresenta Hollywood più di ogni altro.

Qual è il cinema che più ti piace.

Il cinema si Sergio Leone per me  è una religione. “Apocalypse Now” appartiene a quella lista di film che mi hanno scioccato.

Quando lessi le prime recensioni di Venezia hanno scritto di te in maniera clamorosa, ne eri a conoscenza.

Ho saputo qualcosa, ma io ho il terrore delle recensioni negative, la prendo sul personale.

Progetti nuovi in cantiere.


Ho il soggetto di un film d’animazione, questa volta più intimo e spinto sul lato surreale, vorrei fare un film su un gangster che ha un tumore al cervello e ha dei blackout e delle allucinazioni che avranno delle ripercussioni sulla drammaturgia.
Antonio Romagnoli, TFK, nickoftime, Andrea Gatopulos

Nessun commento: