Nel cinema italiano si sta facendo largo una nuova generazione di registi che si differenzia da quelli del passato per un tipo di autorialità che frequenta generi e formati senza disdegnare la possibilità di di diventare parte in causa di progetti altrui. Lorenzo Berghella, il regista di "Bangland" uno dei film rivelazione dell'ultimo edizione del festival di Venezia, è uno di questi. Dopo aver visto in anteprima il suo lungometraggio siamo andati a incontrarlo a Pescara, la città dove vive e lavora. Quella che ne è nata più che un'intervista è diventata una conversazione tra appassionati di cinema.
Che ruolo hanno
avuto, ammesso che l’abbiano avuto, nel tuo immaginario, il fumetto e l’animazione
di origine americana e britannica.
Hanno avuto un’importanza fondamentale, visto che la mia
idea originaria era quella di portare la maturità del fumetto soprattutto
britannico nell’animazione, perché proprio l’animazione è spesso considerata
una cosa per bambini, mentre invece, per
fare un esempio, “Watchmen” appartiene
alla letteratura “per adulti” nonostante sia un fumetto. Quindi il mio intento
era proprio quello di non fare un film d’animazione
ma un vero e proprio film realizzato con la tecnica dell’animazione.
Altresì ha giocato un ruolo fondamentale l’animazione americana, infatti il
desiderio di intraprendere la strada dell’animazione è nato proprio dopo aver visto
“American pop” di Ralph Bakshi.
Quindi tu all’inizio
volevi fare il regista e successivamente hai deciso di esserlo di un film d’animazione.
Sì, io ho iniziato a studiare all’Ifa (Scuola del cinema di
Pescara) il cinema dal vero – aggiungo
che da bambino ad esempio mi dilettavo nel girare film con i pupazzi o con i
giocattoli, mai con le persone reali – poi però, visto che mi dilettavo nel
disegno amatoriale di fumetti, uno degli insegnanti della scuola, Cristiano di
Felice – poi diventato anche uno dei
produttori del film insieme ad Alessandro Di Felice e Gianluca Arcopinto – mi
ha chiesto di provare a fare un videoclip animato, da lì ho deciso di voler
provare a portare il linguaggio cinematografico nell’animazione e così è nato
“Bangland”.
Lo sguardo che hai
avuto sulla società americana è molto particolare perché sembra un approccio
comunque di un autore europeo, quindi una cosa che un americano non avrebbe mai
potuto fare. È stato un procedimento su cui hai ragionato.
Sì il mio intento era proprio quello di raccontare l’America
vista da fuori, quello che ho cercato di fare è stato raccontare come ci viene
mostrata e come noi la percepiamo – attraverso il cinema, la musica, i
notiziari, etc. –; difatti tutte le citazioni presenti nel film non sono fini a
sé stesse ma sono votate a restituire quel mondo che loro ci mostrano. Un’operazione
del genere, ad esempio, l’aveva fatta Garth Ennis, scrittore irlandese, col
fumetto “Preacher”.
Il tuo alla fine è un
film dalla quale l’America non esce per niente bene, d’altra parte tutti i
dettagli con cui descrivi quel Paese dimostrano che da parte tua c’è una certa attenzione
per quella cultura. Non trovi che questa potrebbe apparire come una contraddizione.
È sicuramente una contraddizione, visto che c’è una sorta di
rapporto di amore/odio. Anche se “l’amore” è in tal caso indotto, visto che
tutti noi siamo cresciuti con l’immaginario americano come punto di
riferimento. Quindi con uno sguardo critico noto i difetti e le problematiche di
quella stessa cultura verso la quale c’è comunque un’ovvia attrazione.
A quali motivi
espressivo/linguistici è legata la scelta di un montaggio così serrato.
Il montaggio di “Bangland” più che a questioni linguistiche
purtroppo è legato a questione delle tempistiche ristrette che ho avuto per
realizzarlo, però proprio per questo è stato molto istintivo, come istintive sono
state l’idea e la stesura della
sceneggiatura. La fretta era in ogni caso dovuta alla scadenza imminente dei
termini per l’iscrizione del film al festival di Venezia.
Un difetto del film
è, a nostro avviso, il doppiaggio: cosa ne pensi.
Tutti gli attori, pur essendo bravissimi, erano alla loro
prima esperienza al doppiaggio e con i ritmi serrati avuti, cui facevamo
riferimento anche parlando del montaggio, non avrebbero potuto fare di meglio e
non posso che ringraziarli.
Il film arriverà
nelle sale.
Il film uscirà a inizio 2016 e sarà distribuito dalla Pablo
Distribuzione di Gianluca Arcopinto.
Ci parli di come hai
scelto la struttura cromatica del film.
Premetto di essere un pessimo disegnatore (ride) però
effettivamente il lavoro cromatico è la cosa che mi riesce meglio e in questo
senso o lavorato per cercare di contrastare blu e rosso in un contesto
permanentemente grigiastro, cercando di ricreare la sensazione della fotografia
cinematografica. L’intenzione era quella di trasportare il gusto estetico
psichedelico degli anni ’60/’70 ai giorni nostri, cercando di restituire una
psichedelia distopica piuttosto che utopica.
I movimenti dei
personaggi sono un po’ robotici, è una tua scelta stilistica o una limitazione
tecnica.
Le movenze dei personaggi per lo più sono quelle di persone
riprese dal vero poi ricalcate con la tecnica del rotoscopio, cercando di dare
l’impressione di un movimento che fosse il più naturale possibile. In alcuni
casi è riuscito, in altri ho dovuto lasciare quelle movenze un po’ robotiche
cui facevi riferimento.
Che idea hai dell’estetica della violenza nel cinema.
Penso che la presenza della violenza nel cinema sia
inevitabile, anche a causa della fascinazione che esercita sul nostro
immaginario, si pensi ad esempio a
Caravaggio. Così come nei videogiochi, che secondo me hanno un potenziale
artistico da non sottovalutare, anche se oggi sono ancora troppo legati al
concetto di intrattenimento.
Nei dialoghi del film
ci sono due meccanismi emotivi molto americano: sono o ironici in riferimento
ai modelli di cui si parla o c’è una forte disillusione; questo è intenzionale
o è un’eredità percepita da “l’americanesimo”.
Il mio modo di fare ironia è per arrivare a un fine, arte
prese dalla stand up comedy. L’idea era quella di “dare la medicina – il fine a
cui voglio arrivare – con lo zucchero – in questo caso l’ironia –. I dialoghi
di Tarantino, ad esempio, sono fatti tecnicamente benissimo ma non portano
(volutamente) a nulla.
Il tuo cinema è
citazionista e post-moderno, quindi come lo definiresti.
Il cinema che vorrei fare è un mezzo per un fine, come
dicevo prima. Vorrei che portasse non dico a cambiare la testa delle persone ma
vorrei almeno portarle ad avere un pensiero critico, quindi usando gli strumenti
del cinema post-moderno, superarlo ed arrivare a qualcosa di diverso. Per
esempio “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij è un romanzo che potrebbe essere
considerato alla base del noir: c’è la struttura di genere che però arriva a
qualcos’altro.
Per ora all’orizzonte
c’è solo in cinema d’animazione.
Non saprei mai girare un film “vero”, non so se sarei in
grado di gestire tante persone, però in futuro mi piacerebbe farlo.
Per quanto riguarda
la censura, tu fai fare a Spielberg, che è un ebreo, il presidente, quindi lo
metti a capo della cospirazione. Quando hai fatto questa scelta ne eri
consapevole.
Sì consapevole ma non pensavo che sarebbe diventato un film,
quindi non ho fatto autocensura. Ora che comunque mi trovo davanti alla censura
non me ne pento, il valore aggiunto del film è essere un film coraggioso.
Perché hai scelto
proprio Spielberg.
Mi piaceva prendere delle personalità associate a cose
buone, come ad esempio Bill Murray. Spielberg appartiene alla cultura ebraica e
in secondo luogo rappresenta Hollywood più di ogni altro.
Qual è il cinema che
più ti piace.
Il cinema si Sergio Leone per me è una religione. “Apocalypse Now” appartiene
a quella lista di film che mi hanno scioccato.
Quando lessi le prime
recensioni di Venezia hanno scritto di te in maniera clamorosa, ne eri a
conoscenza.
Ho saputo qualcosa, ma io ho il terrore delle recensioni
negative, la prendo sul personale.
Progetti nuovi in
cantiere.
Ho il soggetto di un film d’animazione, questa volta più
intimo e spinto sul lato surreale, vorrei fare un film su un gangster che ha un
tumore al cervello e ha dei blackout e delle allucinazioni che avranno delle
ripercussioni sulla drammaturgia.
Antonio Romagnoli, TFK, nickoftime, Andrea Gatopulos
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