mercoledì, settembre 18, 2024

EL JOCKEY

El Jockey

di Luis Ortega

con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Daniel Giménez Cacho

Argentina, Messico, Spagna, Danimarca, USA, 2024

genere: commedia, gangster

durata: 96’

Le maschere, storpiate, brutte, tragicomiche, mostrate una dietro l’altra nella prima sequenza di “El Jockey” di Luis Ortega sembrano quasi volerci mettere in guardia e prepararci a una visione diversa dalle altre dove forse non tutto è da prendere sul serio, dove quelle stesse maschere verranno tolte e dove tutto quello che si vede non è come sembra.

Perché Luis Ortega prova a stupire fin da subito, ad andare contro corrente, mostrandoci un film a metà tra il tragico e il comico, tra il reale e il fantastico, costantemente in bilico tra la vita e la morte (antipodi sui quali si fonda l’intera storia).

            La scuola migliore è la disgrazia.

E di disgrazie al povero Remo Manfredini, fantino leggendario, ne succedono davvero tante, quasi da perdere il conto.

Remo Manfredini è un fantino leggendario, ma il suo comportamento autodistruttivo sta cominciando a metterne in ombra il talento e a mettere a repentaglio la relazione con Abril, la fidanzata.

Il giorno della gara più importante della sua carriera, che lo libererà dai debiti col suo boss mafioso Sirena, ha un grave incidente, scompare dall’ospedale e vaga per le strade di Buenos Aires. Libero dalla propria identità, inizia a scoprire il suo vero io. Ma Sirena è determinato a stanarlo. Vivo o morto. (Fonte: Biennale)

Al di là della storia, più o meno semplice, più o meno contorta, a impressionare del regista argentino è sicuramente lo stile, fuori dal comune e mai ripetitivo, nonostante il susseguirsi di eventi che potrebbero portare a una ripetizione quasi estenuante.

E' chiaro fin da subito l’intento di Luis Ortega, seguire il protagonista che, all’occorrenza, può trasformarsi in chiunque, assumendo diverse sembianze e che quindi, non solo arriva a catalizzare qualsiasi tipo di attenzione su di sé, ma permette anche una più semplice identificazione proprio perché abbraccia una fetta di pubblico più vasta.

Luis Ortega sceglie di non limitarsi a un solo ambiente, ma anzi decide di mostrare quelli che sono i bassifondi di un’Argentina (che potrebbe essere qualsiasi altro luogo) facendo leva sulla decadenza e sulla mancanza di qualsiasi cosa da parte di tutti gli abitanti, dai giovanissimi ai più anziani.

Se per conoscere meglio Remo e la sua fidanzata (la Ursula Corbero de “La casa di carta”) non approfondiamo troppo il loro rapporto, mostrato solo in un breve momento tragicomico nel quale i due condividono alcuni pensieri intimi sulla genitorialità e non solo, ma ci basta vedere alcune dinamiche che li mostrano intenti a dialogare con altri personaggi, diventa, però, fondamentale quella scena di ballo, già iconica un attimo dopo averla vista, che li contrappone visivamente, fisicamente e mentalmente. Quella che sembra essere una parentesi ridondante, se non quasi inutile, diventa il mezzo attraverso il quale comprendere determinate scelte di entrambi i personaggi (non a caso vestiti in maniera opposta e contrapposta, come a dover considerare solo alcuni aspetti per l’uno e altri per l’altra).

            Devi morire e rinascere.

Con questa frase è possibile riassumere l’intera opera di Ortega che, facendo leva su un’ottima interpretazione di Nahuel Pérez Biscayart, gioca continuamente con il personaggio, la storia e lo spettatore, prendendolo costantemente in giro, illudendolo di stare vedendo qualcosa per poi cambiare immediatamente prospettiva e punto di vista facendolo dubitare anche della realtà stessa.

Tra citazioni più o meno evidenti (quella a “Il Padrino” è da antologia), “El Jockey” fa sua questa caratteristica centrale, ma si perde al suo interno, inserendo il pubblico in un vortice dal quale è difficile uscire, anche alla fine della visione, anche quando sembra tutto finito e “spiegato”.


Veronica Ranocchi

martedì, settembre 17, 2024

'IL MIO COMPLEANNO' CONVERSAZIONE CON CHRISTIAN FILIPPI

Sviluppato e prodotto nell’ambito della dodicesima edizione della Biennale College Cinema con il sostegno di un grant messo a disposizione dalla Biennale di Venezia, Il mio compleanno di Christian Filippi è il racconto di un amore impossibile e di un’esistenza che stenta a prendere il volo. Del film abbiamo parlato con il regista.

Il mio compleanno inizia portandoci subito nel mezzo dell’azione con Riccardino che minaccia di uccidersi buttandosi giù dalla palazzina che ospita la casa famiglia. Mentre gli altri ragazzi lo sfidano a saltare di sotto e gli educatori lo scongiurano di desistere, la sequenza delinea le gerarchie dei rapporti tra il protagonista e i personaggi principali. Tra questi emerge soprattutto l’intesa con Simona, una delle educatrici della struttura.

Sì, guarda, ti dico subito che la maggior parte delle scene girate dentro la casa famiglia sono tratte dalla vita reale, quelle raccolte negli anni del volontariato in queste strutture dove facevo dei piccoli corsi di cinema mostrando i film ai ragazzi. Fatti come quello raccontato nella scena iniziale si sono ripetuti spesso: le litigate tra gli ospiti non si contavano ma accanto a queste vi erano momenti di grande solidarietà. Nella prima scena mi piaceva iniziare con la rabbia e la disperazione del protagonista senza però tralasciare l’ironia che i ragazzi sanno tirare fuori per stemperare la drammaticità della loro condizione.

Infatti la scena iniziale, per il misto di riso e pianto, è fondante anche del clima drammaturgico che si respira nel film.

Stando a contatto con loro ho capito che vivono le loro storie con enorme drammaticità, però poi hanno l’ironia sufficiente per proteggersi dalla realtà. Volevo che la scena iniziale trasmettesse un’adrenalina tale di coinvolgere fin da subito lo spettatore, poi però nel corso del film, ho cercato di non far venire mai meno piccole dosi di leggerezza tenendo conto che rispetto al pubblico festivaliero questa componente è quella che attira al cinema i giovani. Detto questo il mio desiderio più grande è quello di proiettare il film laddove è nato e cioè nella case famiglia in cui ho lavorato. Spero di riuscirci.

Uno dei fili conduttori del film è il rapporto tra Simona e Riccardino, di cui entra a far parte più avanti anche la madre del ragazzo. Da questo punto di vista Il mio compleanno racconta una sorta di triangolo amoroso dove questi tre personaggi si contendono in qualche modo uno l’amore dell’altro. 

Insieme alla sceneggiatrice Anita Otto abbiamo cercato di creare una sorta di menage tra i personaggi in cui spicca la figura di questa educatrice molto protettiva e con una vocazione materna verso i ragazzi per i quali ha sacrificato la sua vita. Simona è ispirata a tantissime educatrici ed educatori con cui mi sono trovato a collaborare. Documentandomi ho potuto constatare come per loro tutto questo sia una vera e propria missione. Ho cercato di metterlo dentro il film insieme alla dicotomia tra chi è la madre biologica dei ragazzi e chi non lo è. Anche Antonella, la madre di Riccardino, è innamorata di lui però forse non ha gli stessi mezzi di Simona per instaurare una relazione con il figlio.

Quello che mi è piaciuto è stato il modo in cui il film mette in scena il triangolo sentimentale tra i personaggi. Pur rimanendo sempre all’interno di una dimensione affettiva parliamo di un rapporto fatta di contatti fisici, con corpi che si toccano, si abbracciano e si respingono e dunque di qualcosa che imita l’amore sensuale.

Si, beh, sulla fisicità è stato fatto un lavoro lungo e meticoloso che partiva dalla scrittura e si è concretizzato durante le prove con gli attori. Da parte mia sentivo la necessità di mettere Riccardino nella condizione di toccare le cose perché lui è uno che ha bisogno di concretezza e di azione. Il suo motto è: “mi impedite di farmi vedere mia madre? Bene, allora me la vado a prendere io!”

Questo bisogno dell’altro si esprime senza limiti sia con Simona, con gli altri compagni e anche con la madre. Penso alla scena in cui vediamo Riccardino che si rotola sul corpo degli amici e anche alle sequenze in cui abbraccia e balla con Simona. Il desiderio di contatto finisce per misurare il bisogno d’amore del ragazzo.

Si tratta di una vera e propria fame d’affetto e di relazioni. Nel corso delle prove una delle indicazioni date a Zackari Delmas è stata quella di lavorare su questa fame di vita che si manifesta con la voracità in cui Riccardino mangia, fuma e, come dicevi, dal modo tutto fisico di relazionarsi con gli altri. I suoi eccessi ne evidenziano i bisogni e le mancanze.

Nel fare questo sei stato bravo a trovare un equilibrio perché soprattutto nel rapporto tra Riccardino Simona e Antonella era facile superare questa soglia e dunque di banalizzare i sentimenti messi in campo dalla storia. Perché poi i corpi trasmettono energie che bisogna comunque saper incanalare.

In effetti questa era una delle mie paure. Quando ho scritto la storia sono stato molto attento a non far cadere quel rapporto all’interno di una dimensione erotica. In questo senso le prove quotidiane con gli attori mi hanno aiutato nel trovare la giusta misura.

Il risultato del tuo lavoro consente alle immagini di diventare “carne” contribuendo in questo a quelle caratteristiche di concretezza verso cui si dirige la ricerca del personaggio.

Di questo ti ringrazio perché hai letto veramente molto bene il lavoro fatto sul film.

Parlando dello stile del film Il mio compleanno adotta quello di tipo documentaristico in cui la leggerezza del dispositivo e la scelta di utilizzare un formato d’inquadratura più piccolo ti consente di vivere con i personaggi, di stargli vicino preservandone l’intimità del punto di vista. 

Vendendo dal documentario fin dai primi cortometraggi ho sempre privilegiato l’utilizzo della macchina a mano proprio per stare vicino ai personaggi attraverso la tecnica del pedinamento. Qui però abbiamo cercato di lasciare gli attori più liberi possibile. Ci avvicinavamo a loro facendo ciak da diversi punti di vista. Pensando a Riccardino Antonella e Simone l’obiettivo era di muoverci insieme a loro lasciandogli però la libertà di creare la coreografia dei loro spostamenti. Volevo preservare anche sul set la naturalezza raggiunta nelle prove. Non volevo perderla, così ho permesso agli attori di muoversi e sono stato io ad andargli dietro. Questo mi ha consentito di sentire i loro affanni, i loro respiri, le loro mani che si toccano l’un l’altro.

Il mio compleanno è anche un film di primi piani a cui tu restituisci importanza in termini emozionali e narrativi. Tra i più belli c’è quello del primo incontro con Don Ezio in cui decidi di restare sul volto di Riccardino per leggervi il crescendo tumultuoso di pensieri e di emozione provocate dalle parole del prete.

Quel primo piano è stata una scelta di montaggio perché inizialmente avevamo girato un campo controcampo di Don Ezio per poi renderci conto che in quella scena la performance di Zack era così alta da non poter essere persa. E poi, come dicevi, facendo così è possibile cogliere il montare della rabbia fino all’esplosione nervosa con cui si conclude la scena.

Il secondo di cui ti volevo chiedere è quello altrettanto bello sul volto di Silvia D’Amico che racconta il momento in cui Riccardino incontra la madre in clinica. Il colore delle luci e la luminosità rarefatta così come la vicinanza della cinepresa raccontano di una visione ideale, quella che ha Riccardino del genitore. Parliamo di una sequenza che è il punto di partenza per un progressivo ritorno alla realtà, con le immagini che un poco alla volta diventeranno sempre più concrete per corrispondere alla presa di coscienza del ragazzo rispetto all’impossibilità di vivere con la propria madre.

Sì, perché ho provato a rendere la fuga di Riccardino dalla casa famiglia e il successivo incontro con la madre quasi in maniera onirica per dare vita all’ossessione che tormenta il ragazzo prima di lasciare l’istituto. Il primo piano di Silvia abbiamo deciso di girarlo con queste lenti macro, molto vicine all’attrice e capaci di trasfigurare lei e l’ambiente. Questo mi ha permesso di costruire la sequenza più in fretta possibile considerando che i film della Biennale College scontano i limiti di un budget ridotto all’osso. Non avendo possibilità di accedere a una vera clinica siamo riusciti a trovare il modo per dare la sensazione che la scena fosse comunque ambientata li. Comunque si, il primo piano è stato fatto pensando che fosse tutto dentro la testa di Riccardino.

Infatti il colore rosso di quel primo piano rimanda a quello presente quando Riccardino telefona alla madre dentro il bagno della casa famiglia.

Proprio così. Abbiamo cercato di ricreare quella stessa fotografia, perché poi anche lì non sentiamo mai la voce di Antonella e dunque è come se quella fosse frutto della fantasia e del desiderio del ragazzo di stare con la madre. Da qui la scelta di una resa fotografica quasi astratta.

La fotografia testimonia il passaggio di Riccardino da una situazione ideale, vissuta dentro la propria testa, a un’altra più concreta e reale. Una delle scene spartiacque è appunto quella del compleanno che Antonella festeggia regalando al figlio un dolce. Considerando che ciò che segue racconterà di un tradimento è come se tu avessi messo in scena una sorta di ultima cena.

Sì, sì esatto. Abbiamo cercato di costruire la prima metà del film con una macchina più posata, servendoci di inquadrature molto cinematografiche. Nella seconda invece abbiamo cercato di virare su una realtà più cruda, che poi è quella che effettivamente Riccardino vive una volta fuori della casa famiglia. Passando da un mondo protetto a un altro dove non esiste alcun paracadute la mdp diventa molto più dinamica, molto più sporca. Nella scena del compleanno abbiamo cercato di racchiudere il passato e il presente della loro storia. Li siamo vicini al momento in cui la madre di Riccardino rendendosi conto di non farcela e di danneggiare il figlio si fa coraggio dicendogli che è arrivato il momento di prendere strade differenti. È come se il quel momento la madre permettesse al figlio di iniziare il percorso per diventare adulto.

A questo proposito la scena simbolica di questo passaggio è quella in cui vediamo Riccardino accarezzare la testa di Antonella addormentata sulle sue gambe. In precedenza era successo l’esatto contrario mentre ora è il ragazzo a interpretare il ruolo dell’adulto.

Si, quella è proprio la scena che testimonia il cambio di prospettiva di cui parlavamo. La notte prima, dentro la macchina, è Riccardino che dorme in braccio alla madre mentre in quella successiva accade l’esatto opposto per le ragioni che dicevi nella domanda. Riccardino si libera in qualche modo dall’ossessione della madre e forse capisce di dover essere lui a occuparsi di lei.

Dopo la separazione dalla madre c’è anche quella da Simona, testimoniata da primi piani separati di lui e lei all’interno della macchina che li sta riportando a casa.

Quella scena mi serviva per sancire la separazione tra Simona e Riccardino. È l’unico modo in cui abbiamo potuto farlo perchè la camera car era molto costosa. A un certo punto mentre Riccardino piange si vede la mano di Simona che entra in campo ma poi si ritrae subito. Li è come se lei gli dicesse di poterlo proteggere ma che è ancora più importante che lui si stacchi e inizi una nuova vita, diversa dalla precedente. Il personaggio che abbiamo raccontato è cresciuto lì dentro per poi diventare educatrice.  A un certo punto anche lei capisce di dover cambiare vita prendendo il coraggio di andare via. In questo senso Simona e Riccardino si aiutano uno con l’altro per avere il coraggio di farlo.

Nel ruolo di Simona Giulia Galassi è davvero brava. Il suo è un personaggio che rimane nel cuore. Allo stesso modo lo è Zakari Delmas.

Giulia la conosco da molto tempo, sapevo che era molto brava per cui appena ho saputo di poter fare il film ho pensato subiti a lei. Zakari l’avevo visto in un bellissimo corto intitolato Ovunque Altrove. Aveva solo quindici anni ma la sua fisicità mi aveva colpito. Quando ha fatto il provino avevo diciotto anni e questo ha concorso nella sua scelta perché volevo che la sua energia corrispondere a quella del personaggio. Insieme abbiamo costruito il suo ruolo a cui lui ha dato un corpo, una voce, le movenze, il modo di vestire e di parlare. Ha un talento infinito. Gli auguro il meglio.

So che ci tieni a ringraziare i produttori del film.

Si perché senza Leonardo Baraldi e la società Schicchera Production Il mio compleanno non sarebbe stato possibile realizzarlo.   

Che tipo di cinema ti piace?

Avendo studiato alla Rossellini che il liceo di cinema presente a Roma ho iniziato a vedere film da piccolissimo. Partendo da Rossellini non mi sono più fermato. Tra i miei riferimenti ci sono innanzitutto due autori italiani con cui ho avuto il piacere di collaborare come assistente che sono Matteo Garrone e Claudio Giovannesi. Tra gli stranieri ti dico Andre Arnold, i fratelli DardenneStephan Brisee. Dopodiché sono un che guarda un sacco di blockbuster perché poi alla base di tutto c’è l’amore per il cinema.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)

lunedì, settembre 16, 2024

I'M STILL HERE

Ainda Estou Aqui (I’m still here)

di Walter Salles

con Fernanda Torres, Selton Mello, Fernanda Montenegro

Brasile, Francia, 2024

genere: storico, drammatico

durata: 135’

La questione dei desaparecidos è una di quelle su cui il cinema internazionale, ma anche italiano (ricordiamo il dittico del nostro Marco Bechis), non smette di ritornare, talmente traumatica è stata la scoperta dei metodi utilizzati dalle dittature sudamericane per eliminare i suoi oppositori interni. L’interesse è stato così ricorrente da dare vita a una vera e propria filmografia su un tema che deve stare particolarmente a cuore al direttore della Mostra se è vero che dopo "Argentina, 1985",  dedicato alla figura del pubblico ministero argentino incaricato di istruire il processo contro i responsabili degli eccidi compiuti dal regime militare argentino, Alberto Barbera e la sua squadra hanno fatto il bis inserendo ancora una volta nel concorso ufficiale un’altra storia di ordinaria persecuzione, quella messa a punto negli anni Settanta dal regime brasiliano nei confronti dell’ex deputato Marcelo Rubens Pavia, colpevole di aver aiutato a mantenere i contatti tra i perseguitati e le loro famiglie e per questo finito nella lista delle persone scomparse dopo essere state arrestate dagli agenti governativi.

Attraverso la storia di Pavia "I’m Still Here" ("Ainda Estou Aqui") di Walter Salles racconta la questione dei desaparecidos da un’ottica meno conosciuta di quelle occorse in Argentina e in Cile ma ugualmente feroce e metodica nel portare a compimento la sistematica eliminazione delle sue vittime. Nel farlo Salles sceglie il punto di vista più congeniale a se stesso e alla Storia dei fatti, un po' perchè agli appassionati non sarà sfuggita la similitudine tra la Dora di "Central do Brasil" e la Eunice Pavia di "I’m Still Here", madri coraggio di cui il cinema del regista brasiliano dimostra di essere particolarmente a suo agio (peraltro Fernanda Montenegro compare nell’ultima scena del film), con Fernanda Torres destinata a figurare tra le attrici da battere nella stagione dei premi; un po' perchè scegliendo di raccontare la tragedia attraverso un punto di vista femminile, che non è soltanto quello della madre, ma anche delle figlie della vittima Salles, riesce a leggerne la dimensione ancestrale, raccontando il fardello innanzitutto psicologico delle madri che ebbero la responsabilità di continuare a reclamare il ritorno a casa dei propri cari e allo stesso tempo di tenere unite le proprie famiglie. Una caratteristica, quella di una prospettiva femminile, che unita ai richiami alla storia oggi, ancora una volta scossa dal pericolo del rigurgito fascista, fa del film di Salles un’opera quanto mai attuale, destinata com’è a toccare i cuori per le analogie con i pericoli del tempo presente.

L’importanza dell’argomento è valorizzato da una regia che nel corso degli anni (e delle produzioni americane) ha consolidato la capacità di convogliare le sue riflessioni in una cinematografia popolare in cui emozioni e sentimenti vanno di pari passo con la narrazione mainstream e con una forma che fa suoi i codici della produzione indie promossa dal Sundance Film Festival, rintracciabile nella mescolanza tra racconto classico e stile indipendente, nella libertà dei formati (il frequente ricorso agli home movies), nella desaturazione delle scelte fotografiche e soprattutto nel modo in cui le forme del documentario intervengono sulla natura delle immagini per rafforzarne il contenuto di realtà.

Che poi nel farlo Salles costruisca un ritratto di famiglia borghese, quella dei protagonisti, capace di introiettare senza alcuna contraddizione la retorica dei miti artistici, politici e sociali della cultura europea sessantottina, trova risposta nella necessità di una condanna resa ancora più forte dal senso di giustizia che emerge nel momento in cui la violenza nei confronti della nostra famiglia equivale a quella portata avanti nei confronti dei valori di chi si oppone a qualsiasi tipo di fascismo.
Presentato in concorso all’81 Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica "I’m Still Here" vede Walter Salles e Fernanda Torres entrare di diritto nella lista dei candidati a uno dei premi maggiori.


Carlo Cerofolini

(recensione già pubblicata su ondacinema.it)

domenica, settembre 15, 2024

MARIA

Maria

di Pablo Larraìn

con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher

Cile, Italia, Germania, 2024

genere: biografico, drammatico

durata: 124’

Anche quest’anno Venezia ha accolto in concorso una nuova opera di Pablo Larraìn. Dopo il non troppo apprezzato “El Conde”, l’autore cileno riprende la sua trilogia dei personaggi femminili del ‘900 che aveva cominciato prima con “Jackie” e poi con “Spencer”. Stavolta è il turno della celebre soprano Maria Callas, interpretata da un’Angelina Jolie in odore di candidatura agli Oscar più per l’importanza della figura realmente esistita che per l’interpretazione in sé.

La storia si apre il 16 settembre 1977, giorno della scomparsa della diva, in quel di Parigi. Da lì, a ritroso, saltando tra i momenti salienti della sua carriera, alternati alla musica e alle opere che hanno reso celebre la soprano, Larraìn cerca di tratteggiare il dipinto di un’icona senza tempo (e spazio), facendosi aiutare dall’escamotage di un’intervista al tramonto della carriera.

Prendendo spunto da quel “Viale del tramonto” al quale la Maria di Angelina Jolie sembra strizzare continuamente l’occhio, si susseguono sullo schermo eventi reali e non, mescolati a sommo studio a causa di tutti i medicinali che la Callas era costretta (e intenzionata) a prendere continuamente.

Dopo aver solo intravisto il corpo ormai senza vita della Callas, veniamo proiettati indietro, attraverso una lunga e interessante carrellata che mostra la vita e le esibizioni, il pubblico e il privato di quella che ancora oggi è osannata in tutto il mondo come una delle voci più belle di sempre.

Con il canto, elemento fondante di quest'opera, spesso reso visivamente dal bianco e nero, come un ricordo impresso nella mente non soltanto della protagonista, ma anche di tutti coloro che la circondano e la osservano, va di pari passo la “dipendenza” dai medicinali, tra quelli autorizzati e quelli "desiderati". Il silenzio che accompagna l’assunzione di quello che dovrebbe essere un aiuto per la voce, la mente e la salute della Callas è significativo di un momento che forse solo lei conosceva veramente. Come se quel silenzio racchiudesse un’intimità segreta che solo lei (e pochissimi altri) era in grado di conoscere e gestire.

            Il palco è nella mia testa.

Come un mantra questa frase torna nel film, anche se a pronunciarla è soltanto una volta, ma è come se questo fosse l’obiettivo della Callas rivisitata da Larraìn, dove ci si concentra sull’approccio dell’artista al palcoscenico, alla musica e sul suo modo di vivere questo tramonto inevitabile e inesorabile.

Prendendo apparentemente le distanze dalla vita “pubblica” e dalla relazione con Aristotele Onassis, Larraìn rivisita a suo modo, come tipico del suo cinema, la vita della protagonista. Introduce Onassis nella storia, ma si limita a tratteggiarne le fasi salienti, dalla conoscenza e l’avvicinamento dei due alla storia d’amore (sempre celata nella pellicola) destinata a lasciare presto spazio a un'altra figura di spessore, la Jackie già ampiamente approfondita nel primo capitolo della trilogia.

Come in un intreccio senza fine esiste un trait d’union tra le due (tre) “creature” quasi mi(s)tiche che Larraìn decide di portare sullo schermo. Maria e Jackie sono inesorabilmente legate, unite dall’amore di e per Onassis. Un amore destinato a dover essere "spartito". Larraìn ci mostra una Maria inizialmente restia, ma poi profondamente innamorata dell'uomo tanto da accettare che quest'ultimo possa preferirle, almeno pubblicamente, Jackie, salvo poi rivelare alla soprano il suo profondo sentimento nei suoi confronti. Jackie, che mai si mostra in questo terzo capitolo, ma che viene solo menzionata, è posta allo stesso livello di Maria (non è un caso che, per entrambe, il regista cileno scelga il nome proprio, a differenza di quanto fatto per "Spencer"). Se per la Lady Diana amata da tutti c'è tempo e spazio per una sorta di redenzione, almeno cinematografica, per Jackie e per Maria ciò non è possibile, destinate a mostrarsi con le proprie debolezze e i propri demoni, probabilmente con la "colpa" di aver vissuto una vita comunque piena.

            Il mio corpo sapeva che ero una tigre.

Sembra quasi che, così facendo, la Maria futura riesca a parlare alla Maria passata, comprendendo i limiti che il suo corpo le mostra. Perché oltre alla musica, inevitabilmente perno della narrazione, un altro protagonista importante è il corpo, sia come corpo fragile, destinato a perire davanti al sopraggiungere del destino, sia come corpo che deve mostrarsi, a prescindere da tutto e da tutti, come qualcosa da esaltare, osannare, ammirare. Maria va nei bar soltanto per ricevere complimenti e adulazioni da camerieri, passanti, fan e da chiunque, senza però accettare di poter, anche solo per poco, ascoltare la propria voce che si è compiuta in un dato momento in un dato luogo e che non potrà mai più ripetersi esattamente allo stesso modo, come lei stessa afferma in un impeto di rabbia. La voce diventa il tramite tra la figura iconica di Maria e un corpo sempre più decadente. Corpo che risulta centrale anche per gli altri personaggi, dalla domestica interpretata da Alba Rohrwacher al tuttofare al quale presta il volto Pierfrancesco Favino. La prima non in grado di comprendere realmente le sfumature della bravura della soprano, il secondo, invece, concentrato su un lavoro sul corpo e sulla corporeità esemplare, che, invece di ridurlo a macchietta, lo mostra nella sua umanità (e nella sua realtà), di pari passo con la propria “padrona”.

Un’ultima ode alla divina Maria Callas.


Veronica Ranocchi

sabato, settembre 14, 2024

'DICIANNOVE' CONVERSAZIONE CON GIOVANNI TORTORICI

Prodotto da Luca Guadagnino e presentato in concorso nella Sezione Orizzonti dell’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Diciannove è il coming of age di un giovane Holden Italiano. Di Diciannove abbiamo parlato con il regista del film Giovanni Tortorici.

Diciannove è prodotto da Frenesy, Pinball London, MeMo Films, AG Studios, Tenderstories, con il contributo del Ministero della Cultura.

Il titolo del film è indicativo di un’età in cui si ha per la prima volta la facoltà di decidere senza però avere ancora la consapevolezza del mondo e delle cose. Volevo partire da qui chiedendoti se il titolo rimandasse a questo tipo di condizione?

Sì, assolutamente. Ero indeciso tra più titoli. Mi ricordo che ne proposi una lista ai produttori. Uno di questi – I diciannove anni di Leonardo Gravina – era un pochino più letterario però poi pensando che il film parla del primo anno accademico di un ragazzo di diciannove anni ho ho pensato che l’età, quella in cui generalmente si finisce il liceo, fosse un fattore molto importante. Da qui la scelta di concentrare il significato del titolo solo su quella.

Sempre a proposito del titolo, Diciannove riproduce un po’ la dimensione esistenziale del protagonista, il suo essere sempre fuori fase rispetto alle persone e alle cose che lo circondano. Diciotto infatti è l’età che segnala uno spartiacque tra il prima e il dopo mentre diciannove sposta l’esistenza in una sorta di limbo temporale dove non si è né carne né pesce.

Sì sì, capisco cosa vuoi dire. In realtà pur essendo il più prossimo ai diciotto il diciannovesimo anno di età segna un tempo meno definito rispetto a quello precedente che è sicuramente più simbolico. In effetti come dici tu diciannove suggerisce come il protagonista sia un ragazzo fuori sincrono rispetto alla realtà in cui vive.

Come succedeva al protagonista de Il giovane Holden Leonardo possiede uno spirito critico e una sensibilità superiore a quella dei suoi coetanei.

Il giovane Holden non l’ho letto però devo dirti che sono stati molti a dirmi della similitudine con il personaggio del romanzo.

Nei coming of age i protagonisti sono un po’ come Leonardo e cioè capaci di avere una maggiore profondità di sguardo rispetto ai loro coetanei. Come quelli anche Leonardo paga la sua diversità con l’incomunicabilità tipica dell’età giovanile.

Di sicuro il mio personaggio è diverso dai suoi pari età ma io lo trovo comunque molto inconsapevole. È vero che ha preso le distanze da certe meccaniche giovanili dei ragazzi della sua età però penso non abbia la coscienza per capire il motivo per cui la ha fatto, così come non conosce il motivo delle nevrosi che continuano a tormentarlo.

Diciannove inizia come una sorta di fuga dalla terra natia e da un contesto familiare opprimente.

Una fuga dal rapporto con la madre e da quello con il padre di cui sentiamo solo la voce. Entrambi lo considerano ancora un bambino, incapace di badare a se stesso e non ancora maturo per sapere come bisogna prendere la vita. Le prime scene dovevo far emergere questa cosa delineando il contesto famigliare in cui si è formata tale idea. 

Il ritorno alla realtà di Leonardo è molto brusco. Le immagini lo certificano con un montaggio che passa dal buio del sonno alla luce del risveglio. Quest’ultima è molto forte, quasi disturbante, e in quanto tale concorre a trasmettere lo scombussolamento di Leonardo nel giorno della partenza.

La tua interpretazione mi piace molto. La scena notturna mescola onirico e simbolico e l’ho inserita più come suggestione che come elemento narrativo. L’ho fatto in maniera impulsiva e sulla scia di un aspetto autobiografico perché anche io come Leonardo soffrivo costantemente di epistassi. Lo sbocco di sangue che si vede a un certo punto mi serviva anche per mostrare il rapporto con la madre. Nel dirgli di non preoccuparsi lei gli dice di smettere di essere infantile riproponendo lo schema da cui Leonardo si allontana, almeno geograficamente.

Nella sequenza notturna l’equilibrio e l’armonia conferita all’ambiente dalla classicità delle inquadrature contrasta con la disposizione delle pareti di casa che sembrano restringere lo spazio vitale del protagonista. È come se quelle immagini suggerissero prima delle parole la condizione di Leonardo.

Essendo un film molto personale Diciannove non è per nulla razionale o comunque la ragione si mescola a personalismi che ne minano la linearità. Molte cose sono entrate nel film attraverso la pancia dunque considerazioni come la tua mi servono per illuminare aspetti che magari sono presenti a livello subliminale.

Non è un caso che dopo quell’inizio lo schermo sembra esplodere attraverso un surplus di immagini e di suoni. La libertà di Leonardo corrisponde a quella della messinscena del film.

Sì, come succede durante il viaggio dall’autostrada all’aeroporto in cui la visione delle montagne voleva rimandare all’altrove leopardiano che si cela oltre le colline. Si tratta di una sequenza un po’ sognante.

La frammentazione di quella sequenza e il modo in cui hai deciso di tenere insieme i diversi frame favoriscono la trasmissione di uno stato d’animo più che di un segmento narrativo.

Esatto, infatti in un montaggio precedente avevo inserito delle didascalie riferite alla posizione leopardiana sull’altrove che si cela dietro i “monti azzurri”. Non a caso il segmento finisce con la sensazione di libertà data dalla visione del mare per poi proseguire con la condizione di straniamento trasmessa dal rumore dell’aereo e dai suoni all’interno del velivolo su cui viaggia Leonardo.

Da lì in poi è un continuo incalzare di sensazioni e nuove situazioni che il film traduce a livello formale con un impeto visivo e sensoriale volto a riprodurre l’intensità emotiva tipica dell’età giovanile e in particolare lo stordimento che si ha quando, come Leonardo, si entra a contatto con un nuovo mondo.

Si, appunto, di un’età in cui un viaggio in areo o la visione di un paesaggio vengono vissuti in maniera molto intensa, cosa che ho cercato di riprodurre attraverso le soluzioni formali a cui facevi cenno. Mi interessava riprodurre piccole cose, avvenimenti di poca importanza che però concorrono a formare la sensibilità del ragazzo. 

L’immagine dei monti di Palermo fa il paio con la facciata del palazzo londinese in cui vive la sorella. In entrambi i casi la maniera in cui questi sovrastano la figura del protagonista, impedendogli la vista dell’orizzonte, sembra suggerire il sentimento di estraneità e la solitudine che accompagnerà la fase iniziale del viaggio.  

Effettivamente è così. In più volevo descrivere quella parte di Londra dove si ritrovano gli studenti in cui tutto sembra dominato da questi palazzoni abitati da operai. Nella prima sequenza londinese lo stridio dei corvi preannuncia un’esperienza, quella con la sorella e la sua coinquilina, non del tutto allegra.

La bigger than life vissuta da Leonardo è introdotta dall’utilizzo di una musica operistica chiamata a scandire gli avvenimenti segnalandone l’enfasi emotiva.

La musica mi serviva per sostenere le scene di quella parte di film e per esempio quella in cui loro si preparano per andare in discoteca. Lì le musiche sono nel contempo leggere e malinconiche, allegre e più gravi per sottolineare la mescolanza d’umori in Leonardo.

Dei coming of age Diciannove ha tutte le caratteristiche, presentandoci un quadro di isolamento, solitudine e disagio a cui fa da corollario la contestazione dell’autorità precostituita che Leonardo mette in discussione attraverso il rifiuto di frequentare le lezioni universitarie per mancanza di stima nei confronti del professore. La diversità con altri film di questo genere sono le soluzioni formali che ti permettono di raccontare l’esperienza di Leonardo dall’interno. Una diversità che rispecchia quella di Leonardo rispetto al contesto in cui vive.

Un’altra cosa che secondo me differenzia Diciannove dai film simili al mio è che forse manca un po’ la parabola che porta al cambiamento del personaggio. Alla fine Leonardo rimane sicuro delle sue idee nonostante la sincerità della conversazione con il collezionista con cui si conclude il film. La risata finale con cui Leonardo sembra commentare le parole del suo interlocutore segnala la volontà di rimanere nelle proprie nevrosi.

In effetti il finale è privo di catarsi. In più l’ultima sezione del film ambientata a Torino arriva all’improvviso senza essere mai annunciata. Anche il finale è altrettanto netto e senza una conclusione vera e propria perché l’intento è quello di cristallizzare la condizione di Leonardo senza proporre una ricetta salvavita.

Io vengo da una formazione letteraria, nel senso che i primi anni di studi li ho dedicati alla letteratura. Volevo diventare uno scrittore poi a un certo punto mi è venuta l’idea del cinema che dati i trascorsi ha risentito della mia fissazione abbastanza maniacale nei confronti della forma. In particolare mi rifacevo all’idea di tanti scrittori che amavo, i quali dicevano che tutte le storie sono state già raccontate e che quindi a fare la differenza il modo in cui vengono narrate. È per questo che inizialmente ho amato i registi un po’ formalisti, quelli che vedono nella forma il modo più efficace di esprimere un’idea. Ho sempre un occhio attento alla messinscena.

Leonardo è sempre alla ricerca di uno stile capace di fare la differenza. Il film anche in questo fa da specchio alla modalità del personaggio.

Mi ricordo che Bernardo Bertolucci nel fare Prima della Rivoluzione diceva che un carrello è più morale di Riso Amaro.

La vicenda raccontata nel film, parlo decisione di lasciare la Sicilia, andare a Londra per poi stabilirsi in un’altra città italiana in cerca del proprio posto nel mondo, sembra rispecchiare non solo la tua vicenda umana ma anche quella del tuo produttore Luca Guadagnino.

Conosco abbastanza bene Luca. Mi ha raccontato spesso della sua adolescenza e devo dire che se penso a Leonardo e lo confronto con Luca mi sembrano persone agli antipodi. Luca è una persona molto speciale che sin dalla sua infanzia ha vissuto con un grado di libertà fuori dalla norma. Leonardo è un nevrotico che tende a sublimare le sue pulsioni attraverso i libri e l’isolamento. Certo in termini di spostamenti geografici la similitudine di cui parli esiste ma lo spirito con cui si compie il viaggio è diverso.

Parliamo del cinema che ti piace.

Ai tempi in cui studiavo letteratura amavo il neorealismo italiano forse perché vicino a una letteratura classica. In quel periodo vedevo a ripetizione Le notti di Cabiria e Sedotta e Abbandonata. Poi quando senti di avere una visione più cinematografica ho iniziato a guardare i b movies e i poliziotteschi. Mi piacevano tantissimo Castellari, Di LeoFulci ma anche Mario Bava Dario Argento. Dopo sono arrivati i vari FriedkinDe Palma, Peckinpah. Ovviamente Godard Infine ho un grande amore per il cinema di Hong Kong e quindi per i Johnnie To, gli Tsui Hark, e i John Woo.  


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)

venerdì, settembre 13, 2024

THE ORDER

The Order

di Justin Kurzel

con Jude Law, Tye Sheridan, Nicholas Hoult

USA, 2024

genere: storico, thriller, azione

durata: 116’

"The Order" è immerso dall’inizio alla fine nella realtà dei fatti eppure ciò che conta di più nelle quasi due ore di proiezione è constatare quanto sia importante per la Storia la forza che l’immaginario ha di imprimersi nei nostri pensieri.

"The Order" lo testimonia dentro e fuori dalla vicenda che racconta perché si può anche non conoscere gli avvenimenti a cui si ispira il regista australiano Justin Kurzel, quelli ricostruiti dal libro inchiesta "The Silent Brotherhood", relativa ai movimenti di ultradestra che da anni minacciano il cuore della democrazia americana. Impossibile però è non distinguere nelle puntute e provocatorie risposte del giornalista ebraico agli interlocutori del suo programma radiofonico, con cui inizia il film, la figura del giornalista Alan Berg ucciso nei primi anni Ottanta da elementi appartenenti ai gruppi neonazisti. È bastato che il cinema se ne occupasse almeno una volta, grazie a Oliver Stone e al suo "Talk Radio", per farcelo ricordare ogni volta che ci viene riproposto un modo di fare radio lontano anni luce dalle posizioni politicamente corrette dei nostri giorni. Ma c’è di più, perché a ispirare l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, così come i numerosi attentati effettuati da gruppi neonazisti in territorio americano (compresi quello di cui si parla nel film), è il pensiero contenuto nel romanzo distopico "The Turner Diaries", scritto da William Luther Pierce nel 1978.

Seppur dietro le quinte e comunque all’interno di un lungometraggio che si affida alla capacità del cinema di raccontare storie, "The Order" sembra metterci all’erta sulla circolazione incontrollata delle idee e sull’importanza di non sottovalutare chi, di volta in volta, ne deforma il significato per affermare il proprio ego. Se il cinema come sappiamo interroga la Storia per trovare risposte alla complessità del presente, non c’è dubbio che "The Order" rappresenti di per sé, indipendentemente dalla sua riuscita, un film importante per la capacità di riportare il dibattito sullo scontro tra Repubblicani e Democratici alla radice, facendo luce sul sostrato socio-culturale a cui ha fatto leva Donald Trump per sostenere il suo messaggio suprematista.

Da questo punto di vista "The Order" assolve in pieno la sua funzione divulgativa per la linearità con cui riesce a riassumere pensiero e azione delle diverse componenti in gioco. A differenza di altri - per esempio "Patriot Days" di Peter Berg - che sullo stesso tema avevano mantenuto un approccio di stampo documentaristico, per la preoccupazione di diminuire la potenza del messaggio attraverso una narrazione troppo sbilanciata sul racconto di finzione, "The Order" non si mette limiti nel virare verso le forme di genere allestendo una sorta di western contemporaneo in cui, come spesso succede, la provincia americana diventa il cuore di tenebra di un paese sull’orlo della guerra civile.

In un contesto diviso tra buoni e cattivi, in cui a rivaleggiare sono da una parte gli agenti del Federal Bureau of Investigation, incaricati di contrastare la minaccia, e dall’altra i militanti di un'organizzazione suprematista che prepara il terreno favorevole a un'insurrezione di popolo, a fare la parte del leone, ovvero a monopolizzare l’epica del conflitto, è la sfida che vede il detective Ask, interpretato da un ottimo Jude Law, impegnato a spegnere i piani di rivolta del capo popolo Bob Mathews, incarnato dall’altrettanto bravo Nicholas Hoult. Carismatici, tormentati e maledetti quanto basta per appartenere di diritto alla categoria dei tanti antieroi raccontati dal cinema americano, i due personaggi hanno potenzialità caratteriali ed esistenziali per elevare la vicenda a una dimensione archetipica riproponendo il sempiterno scontro tra bene e male in un paesaggio che non ci mette molto a diventare luogo dell’anima.

Peccato però che, con il passare dei minuti e con l’incalzare dell’investigazione, Kurzel si dimostri più preoccupato a ricalcare i passi di chi lo ha preceduto piuttosto che procedere di suo pugno e, dunque, di popolare la rappresentazione con i fantasmi dei modelli più riusciti, come per esempio "Sicario" di Denis Villeneuve, ma anche "Il cacciatore" del compianto Michael Cimino. A prendere il sopravvento è un'enfasi che riduce tutto all’azione dimenticando di approfondirne le premesse con un racconto verticale. Il risultato è un film di superficie in cui la regia soggiogata dagli stereotipi del genere non trova di meglio che aumentare ogni volta l’enfasi della performance. A venire meno è il mistero del male e l’ineluttabilità del bene e con essi l’emozione che in questi casi fa la differenza tra novità e routine. Presentato in concorso all’81esima Mostra d’Arte Cinematografia di Venezia, "The Order" faceva sperare ben altri esiti.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, settembre 12, 2024

KJÆRLIGHET (LOVE)

Kjærlighet (Love)

di Dag Johan Haugerud

con Andrea Bræin Hovig, Tayo Cittadella Jacobsen, Marte Engebrigtsen

Norvegia, 2024

genere: drammatico

durata: 119’

“Kjærlighet (Love)” di Dag Johan Haugerud, film norvegese presentato in concorso alla 81esima mostra del cinema di Venezia, è parte di una trilogia. Secondo capitolo di Sex Drømmer Kjærlighet, il film del regista approfondisce uno di questi concetti, quello dell’amore, dopo aver parlato di sesso nel primo capitolo. E lo fa attraverso dei dialoghi onnipresenti e densi di significato che aiutano il progredire della storia più della storia stessa.

Marianne, una dottoressa pragmatica, e Tor, un infermiere compassionevole, stanno entrambi evitando le relazioni convenzionali. Una sera, dopo un appuntamento al buio, Marianne incontra Tor sul traghetto. Tor, che spesso passa lì la notte in cerca di incontri fortuiti con altri uomini, le racconta di esperienze di intimità spontanea e di importanti conversazioni. Incuriosita da questa prospettiva, Marianne inizia a mettere in discussione le norme sociali e si chiede se tale intimità casuale possa essere un’opzione anche per lei.

Kjærlighet è parte della trilogia Sex Drømmer Kjærlighet. (Fonte: Biennale)

Con una scansione temporale che vede il susseguirsi di giornate casuali in un agosto indefinito, il film è come diviso in capitoli, ognuno dei quali mostra un’evoluzione della concezione dell’amore nei personaggi.

Fin da subito sbattiamo contro di loro, contro la realtà e contro una realtà che loro in particolare, medico e infermiere, ci vogliono mostrare e dimostrare.

Tutto inizia con un’inquadratura fissa su quello che si scopre essere un paziente al quale viene diagnosticato un tumore alla prostata. Mentre vediamo il suo volto interrogativo che non riesce a capire cosa sta succedendo, sentiamo la voce della dottoressa che spiega la diagnosi. Questo ci introduce all’approccio dell’intero film: un cambio di prospettiva. Dall’amore, in tutte le sue forme, in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi generi (le relazioni queer sono sempre centrali nella trilogia di Dag Johan Haugerud) alla voglia, ogni volta, di sperimentare un punto di vista differente. E questa prima scena anticipa quello che poi sarà centrale nel film e nella trilogia.

Addirittura fa da trait d’union tra il precedente film e questo la spiegazione delle opere d’arte cittadine che richiamano, secondo la visione di quella che dovrebbe essere una sorta di “guida” in quel momento, un’idea della sessualità, della libertà sessuale e dell’amore.

Se Anna, l’amica di Marianne, ha il compito di instradare lo spettatore in questo nuovo capitolo, arriva poi subito a farsi da parte nel momento in cui entrano in campo Marianne e Tor come nella significativa inquadratura sul traghetto che la pone in disparte, intenta solo ad ascoltare quello che i due dicono.

Il primo dei tanti dialoghi che i due hanno nel corso dell’intero film e che hanno poi anche con altri personaggi, in grado di farli dubitare delle proprie certezze.

Le parole in Kjærlighet (Love) assumono un significato più importante delle azioni e la quantità di dialoghi serrati che si alternano nel film ne è la chiara dimostrazione. Un aspetto significativo, indice anche di un tempo che, senza parole, senza dubbi, rimane statico, facendo scorrere le giornate senza nemmeno accorgersene.

Parole che tagliano come lame e che inducono riflessioni ben più grandi di quanto si possa pensare, come dimostra il commento, anche un po’ sprezzante, di Anna nei confronti dell’amica che ha trascorso la notte con uno sconosciuto. A insinuare il dubbio in Marianne e a farla mettere in discussione diventano quindi le parole e il giudizio della donna piuttosto che l’azione in sé.

Il corpo è un campo di battaglia.

E come tale deve essere pronto ad accogliere, accettare e rifiutare. Perché se in Kjærlighet (Love) le parole sono centrali, lo è allo stesso modo anche il corpo, qualunque esso sia. Anche quello di uno sconosciuto o di un paziente che ha solo bisogno di cure e attenzioni. Amore e corpo sono due binari che viaggiano in parallelo così come i personaggi di Marianne e di Tor che, seppur in maniera diversa, cercano di evadere da una normalità e una quotidianità che stanno loro strette.

Scegliendo direzioni diverse si ritrovano, però, entrambi confinati in un traghetto che rappresenta in qualche modo il luogo degli incontri, fortuito o meno, che il destino (o qualche app di incontri) è pronto a riservare loro, ma anche una critica socioculturale al modo di approcciarsi e di vedere amore e sessualità nel contemporaneo.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

mercoledì, settembre 11, 2024

'CAMPO DI BATTAGLIA' CONVERSAZIONE CON GIANNI AMELIO

In concorso per il Leone d’oro a Venezia 2024 Campo di battaglia di Gianni Amelio si pone in perfetta continuità con la filmografia del maestro italiano confermandone la poetica e il carattere. Del film abbiamo parlato con Gianni Amelio.

Interpretato da Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini, Campo di Battaglia è stato prodotto da Kavac, IBC Movie, OneArt, Rai Cinema.

Campo di Battaglia è un film sulla guerra in cui non si spara un colpo e dove sono bandite le strategie formali tipiche del genere. Era questa la premessa per la storia che volevi raccontare?

Sì. Spesso i film “di guerra” si trasformano in racconti d’avventura. La guerra invece va raccontata nella sua terrificante potenza, scavando nell’orrore di chi ci si trova dentro. Non era mia intenzione fare un comizio né una predica, ma guardare in faccia le vicissitudini di chi subisce le conseguenze dello scontro. Nel film ci sono da una parte gli ufficiali medici che devono rimettere in sesto i soldati per rimandarli al fronte “col fucile in mano”, dall’altra i soldati che hanno vissuto la ferocia di quell’esperienza e sono disposti a tutto, anche a tornare a casa senza un braccio o un occhio, pur di evitare quel luogo di morte. Ho voluto raccontare la vita dentro un altro campo di battaglia, in questo caso l’ospedale militare che diventa anche lo spazio del tradimento, dove esplode il rifiuto della guerra e si cerca il modo di combatterla.

Il titolo del film spiega molto di quanto hai appena detto. Il campo di battaglia infatti è il terreno dove si materializza un altro scontro, ma è anche lo spazio che ci ricorda come il nemico si manifesti prima di tutto dentro di noi.

È l’interpretazione esatta del film. Il titolo contiene anche un altro concetto: le guerre sono manovrate dal delirio di potere di chi ha le chiavi del comando, e a farne le spese sono gli innocenti, gli ultimi, i disperati. Soprattutto la Grande Guerra è stata una mattanza di povera gente, di giovani reclutati tra i disoccupati, i contadini, e usati come carne da macello. Il soldato meridionale non capiva nemmeno il modo di parlare di quello del nord, per lui era quasi come avere di fronte un altro nemico, anziché un fratello. Parliamo di un’Italia in cui per andare dal sud al nord ci volevano giorni. In un momento del film un soldato di Catania dice di non essere mai andato in licenza perché la Sicilia è lontana e i superiori hanno paura che i soldati una volta lì non tornino più. Il sentimento negativo che accompagna tutte le guerre è reso ancora più forte perché parliamo di un conflitto manovrato dall’alto, una guerra sanguinosa che ha toccato le persone più fragili, e soprattutto i giovani perché si andava in guerra già a diciotto anni.

Non è raro che i tuoi film interroghino la Storia per trovare risposta alle domande di oggi. Per te la Storia non è mai una cornice ma parte integrante della narrazione. Succede così anche in Campo di Battaglia ambientato nel 1918, ultimo anno di una lunga e sanguinosa guerra.

Se non si parte dai problemi più urgenti dell’oggi, la Storia diventa solo un modo per fare sfoggio di erudizione. Se certi problemi sono attuali il discorso cambia. Quando giravo il film non pensavo solo alle esigenze di una ricostruzione d’epoca, ma a venirmi in mente era ciò che accade in Ucraina, a Gaza, e che continua ad accadere in Medio Oriente.

La Prima Guerra Mondiale è stata un conflitto molto diverso dagli altri.

È stata una guerra combattuta da giovani non per motivi economici ma perché obbligati a farlo. Oggi ci sono gli eserciti mercenari, allora c’era l’obbligo di andare a difendere la patria. Poi in realtà sappiamo che dietro questo concetto c’è sempre la manovra del potere. Anche il fatto di allearsi con un Paese o con un altro nasce dalla convenienza politica. L’Italia, per esempio, la guerra non l’ha vinta, ma il fatto di essersi alleata con la coalizione che ha prevalso, le ha concesso di sedersi al tavolo dei vincitori. Le perdite in termini di vite umane sono state enormi, a fronte di una guerra combattuta per motivi tattici e non, ad esempio, come risposta all’invasione di un nemico. Qualche volta sembra che ci siano guerre “giuste”, ma non penso che i problemi si possano risolvere solo con bombe e fucili. La politica esiste per evitare che questo si verifichi.

Uno degli aspetti più riusciti del film è quello che riguarda la dialettica tra i personaggi principali. Il confronto tra loro non assume mai posizioni manichee. Se il Giulio di Alessandro Borghi è quello che suscita più empatia, bisogna dire che Stefano, interpretato da Gabriel Montesi, è mosso da un’onestà di fondo che finisce per salvarlo. In questo senso il personaggio di Anna rappresenta una sorta di sintesi delle posizioni assunte dai due amici.

È vero. Campo di Battaglia evita le schematizzazioni, e il personaggio di Anna è il più inquieto dei tre, ma è poi quello più deciso e umanamente forte. Anna fa fino in fondo il suo dovere. Lei non è nemmeno un medico, perché a quei tempi per una donna era difficile arrivare a quel livello. Ma poi resta dentro l’ospedale quando a una guerra se ne aggiunge un’altra, più inquietante, rappresentata dall’epidemia. A quel punto i capi se ne lavano le mani, non possono mandare a casa il corpo di un soldato morto senza una ferita addosso. Nel film c’è una scena molto esplicita in cui, di fronte all’incalzare di Stefano, il Generale si tira indietro lasciando a lui la responsabilità di decidere.

Nel film l’epidemia “spagnola” si diffonde innanzitutto tra i soldati. Si tratta di una realtà poco conosciuta su cui il film fa luce.

È, storicamente provato che i primi casi di spagnola non sono stati rilevati tra i civili ma proprio nelle trincee. Ci sono stati migliaia di morti per polmonite. Ho messo in evidenza come a una catastrofe se ne sia aggiunta un’altra. La spagnola è stata una tragedia dentro un’altra tragedia. È tutto documentato. I primi casi di pandemia si sono verificati tra i soldati alla fine di marzo del 1918.

“Qui non muore nessuno”. Di fronte alla tragedia che colpisce militari e civili, la frase pronunciata da Anna assume un punto di vista, e direi pure un sentimento, che riporta all’Albert Camus de La Peste e al Leopardi de La Ginestra. Campo di Battaglia di Gianni Amelio ci dice che nel dolore non ci resta che essere solidali uno con l’altro, aiutandoci nel raggiungimento di un obiettivo comune.

Tra i miei riferimenti avevo sia Camus che Leopardi. Anna è spinta dall’ottimismo della volontà, per cui, davanti all’evidenza dei fatti, risponde con disperata fiducia. Quella frase, apparentemente assurda, riassume l’intenzione di dare uno scacco alla morte chiamando a raccolta l’intera comunità. Di fronte all’impossibilità di affrontare da sola quella tragedia, quando guerra e pandemia si uniscono per fare strage di vite umane, è giusto che chi ha un minimo di forza accetti di resistere e di lottare per gli altri.

In Campo di battaglia figurano due temi ricorrenti del tuo cinema, quello del complesso rapporto con la figura paterna e ancora la conflittualità tra fratelli. Giulio e Stefano è come se lo fossero, però come succede in Così Ridevano, il fatto di volersi bene non impedisce loro di separarsi.

Sono contento di questo rilievo. Sia in Così Ridevano che in Campo di Battaglia esiste questo sentimento per cui uno ha bisogno dell’altro. Quando Stefano dice a Giulio che gli farebbe bene stare un po’ in trincea e Giulio gli risponde di essere pronto a partire subito, Stefano rimane in silenzio. Anche se sembra il contrario, è più Stefano ad aver bisogno di Giulio che viceversa. Giulio, anche se per il tratto della sua figura sembra più fragile, più delicato, più morbido, è in realtà il più forte dei due. Stefano invece ha tutta l’aria di star bene dentro la propria divisa, invece è esattamente l’opposto.

Parlando degli attori che, come sempre nei tuoi film, si producono in una prova eccellente, mi sembra di poter dire che la loro scelta sia partita innanzitutto dalla corrispondenza fisiognomica con i personaggi. Montesi con il volto più squadrato e i tratti più marcati rispondeva al fare duro e determinato di Stefano mentre la fisionomia più dolce di Borghi si sposa bene con la sensibilità emotiva di Giulio.

In effetti è stato un punto di partenza molto importante nella scelta degli attori. In particolare Federica Rosellini ha una femminilità particolare, qualcosa che l’avvicina al ruolo di una religiosa o di qualcuno che fa un mestiere maschile, cosa che succede nell’Italia del 1918, in cui per una donna c’era poca scelta, e peraltro non esisteva un’esposizione del corpo come avviene oggi. Detto questo, trovo che nel film sia stato fatto un gran lavoro sui ruoli dei soldati, insegnando agli attori dialetti che oggi non sono più parlati. In alcuni casi credo che gli interpreti abbiano studiato con persone molto anziane, depositarie di lingue oramai scomparse.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)