sabato, febbraio 10, 2007

Le luci della sera

Le luci della sera conferma semmai c’è ne fosse bisogno l’abilità di Kaurismaki di ricreare la realtà attraverso una stilizzazione che ancor oggi rimane inarrivabile: i luoghi frequentati dai suoi personaggi sono angoli di un illusione romantica non ancora arresa ai meccanismi freddi e meccanicistici della modernità, e capace di colpire al cuore attraverso un approccio diretto e spiazzante, che si ciba degli aspetti più prosaici della vita senza dimenticarne il senso più profondo, quello che permette anche agli ultimi del mondo di continuare a sperare in un futuro diverso e forse migliore. Ed è proprio nella capacità di fare poesia con gli scampoli di realtà che spesso appartengono al fuori campo di tanto cinema contemporaneo che è possibile ritrovare il talento del regista finlandese qui alle prese con un impianto filmico che si rifà al cinema noir americano degli anni 40 e 50 con il protagonista principale innamorato di una dark lady tanto bella quanto letale e immerso in un isolamento materiale e morale enfatizzato da una fotografia capace di ricreare atmosfere di Hopperiana memoria con pennellate di luce che spezzano e riscaldano di nostalgia struggente le geometrie ordinate e siderali di una Helsinki che non esiste. Laconici e del tutto privi di qualsiasi vigoria fisica, i personaggi sono ridotti ad un mutismo che non lascia dubbi sulla loro condizione esistenziale e si esprime con una recitazione al microscopio, giocata sulle impercettibili variazioni del volto e dalla posizione dei corpi all’interno della scena. In un quadro generale che si mantiene al di sopra della media spicca però una fragilità strutturale evidenziata da una trama al limite dell’inconsistenza ed una sceneggiatura che finisce per ripetere seppure con una certa classe idee e situazioni già viste che nulla aggiungono al percorso artistico di Aki Kaurismaki.
nickoftime

1 commento:

parsec ha detto...

Un sublime viaggio dell’eroe. L’isolamento, l’incomunicabilità e il desiderio di contatto umano nascosti in una poesia. Trovo che il finale sia perfetto ed essenziale e rappresenti la svolta clamorosa della vita del protagonista, il traguardo di tutti i suoi goffi, dolorosi tentativi di stabilire un contatto con il resto del mondo. Il film non può che finire proprio lì, quando il calvario finisce, quando nel duro carapace di Koistinen si apre una breccia che lascia finalmente entrare qualcuno. Koistinen è una specie di extraterrestre: è solo e triste e non sa come diavolo fare a “incontrare l’altro”, ad aprirsi, a comunicare, insomma, è terrorizzato e assolutamente incapace di stabilire uno straccio di contatto umano nonostante tutto ciò che fa dimostri che lo desidera ardentemente. Per tutto il film non ha contatto fisico con nessuno, le sole occasioni che si procura sono le risse, anche palesemente cercate (come nell’episodio dei padroni del cane), lui è sideralmente distante da tutto ciò che lo circonda, tanto da sembrare apatico e rassegnato, e proprio questa distanza incolmabile tra sé e il mondo e la sua impermeabilità ai sentimenti altrui non gli permettono di difendersi dalle botte o nemmeno di proteggersi dagli agguati dei nemici. Nel suo cammino di ricerca verso l’apertura, Koistinen accetta tutto quello che arriva perché vuole farsi raggiungere, e ogni occasione può essere quella giusta, un insulto, il tradimento, la prigione, prima o poi qualcosa verrà a prenderlo e lo porterà nel mondo degli umani. Koistinen non ha legami con niente perché l’inettitudine glielo impedisce: il modo in cui osserva e subisce le cose non è dato dalla freddezza ma dalla desolazione, dall’incapacità di tendere la mano e, quando questa brandisce il pugnale della vendetta è destinata a fallire, ma solo apparentemente, perché il valore della sua reazione è assoluto, e nel suo viaggio di avvicinamento alla Terra, rappresenta il momento che precede l’atterraggio: di lì a poco il suo guscio inizierà a scricchiolare e a rompersi. Alla fine del viaggio, il finale, composto e potente, arriva come un’epifania. E un gesto di una semplicità disarmante partorisce i primi secondi di vita del Koistinen “umano”.