lunedì, aprile 30, 2018

THE AVENGERS: INFINITY WAR


The Avengers: infinity war 
di Joe Russo, Anthony Russo
con Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo
USA, 2018
genere, azione 
durata, 149’



Dalla nascita dell'universo, sei gemme elementari rappresentano i vari aspetti fondamentali del cosmo e chi le possedesse tutte raggiungerebbe l'onnipotenza. È questo l'obiettivo di Thanos, il titano pazzo che ritiene di poter rimediare alla sovrappopolazione universale e pensa di essere una misura necessaria e giusta, persino benevola: agli altri, però, il suo operato appare come una serie di genocidi. Gli Avengers e i Guardiani della Galassia dovranno cercare di fermarlo, ma come se non bastasse la sua inarrestabile potenza ci sono dalla sua armate aliene e quattro letali "figli", ognuno deciso a consegnargli le gemme dell'infinito.
A chiarire da subito il tono, l'incipit è una scena di un massacro e un personaggio importante in molti film Marvel perde la vita nei primi minuti.
La varietà dei poteri di tutti i personaggi in campo è presa in considerazione, gli avversari non trattengono i colpi e pure gli eroi sono costretti a scatenarsi. Il risultato è lontanissimo dai rocamboleschi inseguimenti di “Capitan America: Il soldato d'inverno” e pure dalla rissa del parcheggio dell'aeroporto di “Captain America: Civil War”. I Russo sembrano irriconoscibili ed è solo l'inizio.
Il secondo scontro in realtà è un passo indietro, con una battaglia in una specie di magazzino ben più terra a terra, e pure l'incontro tra Thor e i Guardiani della Galassia pare virare su uno humour troppo caricato e gratuito - sebbene in parte giustificato dal tono dei film dei “Guardiani” e in fondo pure dall'ultimo “Thor”. Si tratta, però, solo di una fase di riposo prima che arrivi la tragedia, una dimensione davvero cosmica e le leggi della fisica piegate in più modi della gemme dell'infinito. 

In fondo forse la principale novità è che per la prima volta c'è un villain di peso, capace non solo di manipolare gli Avengers come Loki, ma pure di affrontare anche i più potenti tra loro faccia a faccia e di uscirne vincitore. Il lavoro di motion capture realizzato su Thanos è così buono che, al di sotto dei lineamenti alieni, si coglie la recitazione di Josh Brolin, chiamato a interpretare un personaggio forte all’ennesima potenza eppure anche a mostrarne a tratti una inattesa umana fragilità. I luogotenenti di Thanos si rivelano, così, avversari potenti ma dimostrano personalità deboli. Le loro azioni e quelle del loro padre hanno più volte esiti imprevedibili e anche chi conosce bene la Marvel a fumetti avrà di che meravigliarsi di fronte a certi drammatici colpi di scena.
Riccardo Supino

domenica, aprile 29, 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Damien Chazelle

ARNAUD DESPLECHIN: MASTERCLASS


Considerato tra i cineasti più importanti del cinema francese, Arnaud Desplechin è un autore ancora poco conosciuto nel nostro paese. Organizzata nell'ambito del Rendez Vous 2018 Festival del nuovo cinema francese, la Masterclass tenuta dal regista è stata l'occasione per approfondire stile e poetica
Ogni film che faccio va contro ciò che ho fatto prima. I miei giorni più belli per esempio parlava della giovinezza, del primo amore e gli interpreti erano totalmente sconosciuti perchè alcuni non avevamo mai recitato prima d’allora. Il successivo, ovverosia I fantasmi d’Ismael, parla forse dell’ultimo amore e vede la presenza di attori che sono quasi tutte delle star. Insomma, è esattamente l’opposto dell’altro, o, per meglio dire, una reazione al lavoro precedente.



Lavorare con gli stessi attori è qualcosa che ho fatto da subito. Dopo l’esordio con La vie des morts (1991) è stato naturale utilizzare gli stessi interpreti ne La sentinelle (1992). Le persone dicevano che tale scelta avrebbe fatto sembrare il film meno innovativo, ma il punto è che avevo talmente amato questi attori da voler girare di nuovo con loro. A parte la storia con Mathieu Almaric che merita un capitolo a parte, ho lavorato molto anche con Hippolyte Girardot, ma devo dire che il ritrovarsi sul set non agevola le cose, anzi le rende quasi più complicate. È come il terzo o quarto  appuntamento con una ragazza. La prima volta è più facile sorprenderla, poi sempre meno. Ogni volta che ci ritroviamo sul set sono nervoso perché mi domando sempre come riuscirò a coinvolgerli nel mio lavoro.


Il mio esordio è stato all’insegna di una grande incoscienza. La storia che avevo scelto per La vie des morts (1991) era molto forte. Si trattava di una riunione famigliare organizzata per dare sepoltura a qualcuno che non è ancora morto. Col passare delle ore l’attesa si trasforma in una sorta di vacanza e come regista la sfida consisteva nel combinare i sentimenti leggeri e divertenti di chi si ritrova in una situazione piacevole con il dolore provocato dall’attesa della fatidica notizia. Ai miei attori dicevo di immaginarsi in un western perché in questi film i luoghi e le comunità ci sembrano molto felici, ma in realtà sappiamo che i loro privilegi sono stati ottenuti a discapito dei nativi. Analogamente, immaginavo la famiglia in questione come una gruppo di persone felici, senza dimenticare che tale stato d’animo era costruito sul dolore e sulla sofferenza dei loro defunti.

Ne I re e la regina (2004) ogni uomo avvicinato dalla protagonista finisce per morire. Molte persone trovavano respingente il personaggio di Nora mentre Almaric e soprattutto l’interprete, Emmanuelle Devos, erano felici di avervi a che fare. Il mio pensiero potrà scandalizzare, ma credo che Nora sia la sintesi di una femminilità cosciente del proprio potere di seduzione e degli effetti mortali del suo eccesso.

Il privilegio del cinema è quello di dare una grande importanza ai personaggi femminili. Non a caso un grande filosofo americano ha detto che la nascita del cinema corrisponde con l’inizio dell’emancipazione della donna moderna. Lo segnalo per sottolineare come la settima arte da sempre abbia sostenuto tale cambiamento attraverso la creazione di grandi personaggi femminili. Anche io, nel mio piccolo, faccio la stessa cosa, attribuendo una valenza mitologica alle donne, e, nel contempo, enfatizzando gli aspetti più ridicoli della controparte. La sequenza di Rio Bravo in cui John Wayne indossa mutande da donna e una ragazza gli fischia dietro penso sia l’esempio del ridicolo di cui parlavo, anche in considerazione del fatto che a esserlo è un simbolo di virilità come Wayne. Ancora, l’importanza dei caratteri femminili ritorna anche ne I fantasmi di Ismael dove sono Carlotta e Sylvia a determinare il destino del protagonista e non il contrario.

In fase di scrittura elaboro frasi che neanche io capisco e che però si rivelano le più riuscite. Quando mi vengono in mente sono il primo a sorprendermi e, allo stesso tempo, so già che agli attori piacerà pronunciarle. Dire, come capita al protagonista de I fantasmi d’Ismael, “Tu sei la mia patria” è qualcosa di enorme e di gratificante per chi la pronuncia; la stessa cosa vale per Sylvia quando dice a Ismael “Ti strapperò la maschera e farò di te un principe”. Sono parole molto forti perché ci si chiede come lei riesca a vedere la grandezza dietro un uomo tanto debole, come pensi di trasformare in principe una persona allo sbando. Sono affermazioni come queste, più grandi dei personaggi a cui le metto in bocca, ad assicurare la riuscita dei miei lavori. Nel cinema realista i personaggi dicono delle frasi più piccole di loro mentre in nei film romanzati succede esattamente il contrario. Anche le sequenze seguono lo stesso procedimento delle parole. Le organizzo mentalmente, poi cerco di capire qual è il significato e come sono arrivate fino a li.

Adoro passare da un genere all’altro, utilizzando la commedia, il melodramma e persino il western. In Racconto di Natale (2008) c’è una scazzottata tra Almaric e Girardot accompagnata da una musica irlandese che non centra nulla con la zona della Francia in cui è ambientata questa situazione. Mi riesce difficile capire il motivo per cui l’ho inserita, forse è una rimembranza proveniente da certe atmosfere che si respirano nei pub d’oltremanica, fatto sta che pur nella sua anomalia il risultato funziona con il resto del film. Questo per dire quanto mi piace passare da un registro all’altro. Senza queste variazioni girare diventerebbe noioso.

Ho usato per la prima volta l’espediente di far parlare l’attore in faccia alla mdp con il personaggio di Esther, una delle protagoniste de Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle). Nella sequenza incriminata lei è arrivata a un punto morto della sua vita e ne sta per parlare al fidanzato attraverso la lettera che sta scrivendo. Non sapevamo come girare la scena, poi vedendo Emanuelle Devos rivolta verso la mdp ho capito come farla. Nel camera look gli attori non recitano per se stessi ma piuttosto con se stessi, mettendosi a nudo insieme ai personaggi. Di Emanuelle Devos adoro la qualità del viso che può essere bellissimo ma anche sgraziato; la sua bellezza non è sempre cosi evidente e questa sensazione la trovo molto affascinante.

Da giovane ho guardato tantissimo i film di Federico Fellini, poi ho dovuto smettere per riuscire a vedere altro. Cinque anni fa mi è capitato di rivederne l’intera filmografia e 8½ è risultato uno dei miei titoli preferiti. Quando inizio a scrivere una sceneggiatura stilo sempre l’elenco delle opere che possono essere attinenti alla mia. Ne I fantasmi d’Ismael, parlando di un regista che non riesce a finire il suo film è chiaro che in cima alla selezione ci sia il capolavoro di Fellini, come pure Il caimano e Providence di Alain Resnais.


Sono molto affezionato al personaggio di Sylvia. Quando Ismael le chiede come mai non abbia avuto figli lei risponde che è stata solo con uomini sposati, suggerendo di aver avuto fin lì un’esistenza vissuta alla finestra. In questo senso mi identifico molto con lei, anche se ritengo che a un certo punto ci si debba mettere in discussione. Sylvia è esitante a mettersi con Ismael perché lui è uomo che può mettere paura. Quando questo accade e le cose andranno male le è chiaro che non potrà più tornare indietro. La stessa cosa succede a Ester ne I miei giorni più belli. All’inizio la ragazza è piena di fidanzati e nella sua condizione di forza nulla sembra toccarla. Poi si innamora e diventa vulnerabile; pur infelice nella sua nuova condizione è troppo coinvolta per poter lasciare il fidanzato.

Il personaggio di Carlotta (Marion Cotillard) terrorizza perché lei è come una bambina, agisce con una coscienza e una libertà che sono quelle tipiche dell’infanzia. Quando il padre, in di vita, le chiede di farlo morire essa rifiuta proprio perché non concepisce l’idea della fine. Nella scena in cui balla sul pezzo di Bob Dylan o quando si presenta nuda davanti a Ismael è eccitante, elettrizzante ma allo stesso tempo sconvolge per il suo vitalismo.

Ho diversi dubbi sulla possibilità di adattare le opere dei grandi drammaturghi perché non credo di poter trovare una chiave originale per trattare questi lavori. Non ho studiato per cui non sono un accademico. Avendo iniziato a lavorare sul set a diciassette anni e sperimentato ogni tipo di mestiere, mi limito a prendere in prestito i testi dei grandi autori teatrali e letterari e cerco di inserirli nei film. Mi piace mettere in contrasto riferimenti così alti con questioni più prosaiche. Spero di non perdere mai la passione di combinare cose banali con argomenti più nobili. Ne I miei giorni più belli questa cosa è sintetizzata dalla sequenza in cui il protagonista per convincere la professoressa di greco a prenderlo nella sua classe le dice che con lui potrà avere almeno uno studente non all’altezza della situazione. Sono queste le situazioni che amo.

C’è una parola che ho conosciuto tardi ma che ho imparato a utilizzare, ed è Epifania. L’ho presa da James Joyce e mi serve per spiegare il miracolo che avviene durante il montaggio dei miei film. Si sta lì a cercare di mettere insieme una scena e di colpo questa emerge da sola, lasciandoti stupito. Dopo aver visto Gente di Dublino di John Huston comprai l’Ulisse senza però riuscire a leggerlo. Successivamente mi sono affidato a Nabokov che è capace di spiegarlo passo per passo e improvvisamente le difficoltà sono state superate. Leggendo il libro di Joyce mi sono imbattuto per la prima volta in un personaggio maschile che aveva un rapporto terribile con la madre. Per quanto ne sapevo io il cinema e la letteratura avevano preferito mettere le figlie contro le proprie madri; scoprire il contrario è stato davvero strepitoso.

Sono commosso di trovarmi nella sala di Nanni Moretti. Prima di diventare regista temevo che non sarei mai riuscito a trovare la mia voce. Poi sono successi due fatti miracolosi: il primo è stata la lettura di Philip Roth, il secondo la visione dei film di Nanni Moretti. Vederli mi ha illuminato perché ho capito la possibilità che avevo come regista di mascherarmi da me stesso. Nei suoi film lui è Moretti, lo vediamo come se stesso e come un altro che indossa la sua stessa maschera. Per me è stata un sorta di rivoluzione copernicana ed è per questo che gli sarò sempre grato per avermi indicato la strada che volevo seguire.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)


sabato, aprile 28, 2018

INTERRUPTION


"Non solo questo governo ma tutti i governi
che sono stati in carica durante gli anni della crisi,
hanno dato false speranze alla gente...
I greci hanno votato Syriza perché erano disperati. 
Un popolo disperato non è mai lucido"
(Petros Markaris,  dal Fatto quotidiano del 22 Aprile 2018)



Nell'ambito della crisi finanziaria che ha colpito il mondo occidentale, quella che ha messo in ginocchio la Grecia ha assunto nel corso del tempo significati diversi e capaci di tirare in ballo gli aspetti più ancestrali della sua cultura. In particolare, se teniamo conto della sovrapposizione esistente tra la difesa della propria identità con quella dei confini territoriali, tipica del popolo ellenico, non si fatica a capire quale sia stata la portata dell'impatto causato dall'esplosione incontrollata del debito di questo paese. Chiamati a confrontarsi con la matematica inesorabile del PIL, vero e proprio braccio armato del capitalismo moderno, i discendenti di Pericle e Leonida hanno assistito impotenti (seppur in parte complici) all'espropriazione stessa della propria sovranità, concretizzatasi in un saccheggio materiale e morale delle prerogative che identificano l'esistenza di uno Stato in quanto tale. In altre parole, si potrebbe dire che laddove non è riuscita la satrapia persiana, ha avuto buon gioco la ragionieristica burocrazia europea, gettando nello sgomento ampie fasce di comuni cittadini, destinatari ultimi dell'apocalisse in corso.

Il cinema dal canto suo non è rimasto indifferente a questa che è una della tante declinazioni assunte dal tramonto dell'Occidente, regalandoci attraverso film - nello specifico - di registi come Lanthimos, Avranas e di Konstantatos visioni in grado di registrare l'abisso del reale attraverso storie centrate in primis sulla progressiva dissoluzione dell'istituto famigliare. A essere declinata in questo senso è stata la tragedia greca (nella costante che vede genitori uccidere i propri figli) attraverso trasposizioni in chiave moderna delle opere dei vari maestri della drammaturgia classica. Da questo punto di vista, "Interruption" di Yorgos Zois si presenta come una novità poiché, nonostante l'irruzione di un gruppo di sconosciuti nel teatro in cui si sta rappresentando "L'Orestea", con successivo stravolgimento della messa in scena (da quel punto in poi diretta dai presunti terroristi e interpretata da alcuni esponenti del pubblico), il film non teme di raccontarne l'evoluzione su un proscenio ma, soprattutto. il suo imporsi per il tramite degli elementi fondanti del pensiero filosofico e poetico appartenente alla tradizione. Se, infatti, il nucleo drammaturgico della pellicola ruota attorno al duplice stupore dello spettatore in sala, da un lato, e di quello che nel contesto della vicenda ne contempla la rappresentazione, dall'altro, di fronte agli improvvisi cambi di prospettiva e persino alle morti - vere o presunte non importa - degli attori, a inverarlo è l'atteggiamento assunto dai personaggi rispetto al senso delle parole scritte da Eschilo oltre duemila anni fa. Sorvolando sull'ovvia modernità del messaggio tramandatoci, "Interruption" pone al centro della sua dialettica il rapporto tra finzione e realtà, collegando la dissoluzione del regno di Argo con quello dell'odierna polis greca.


Sul piano stilistico, si nota una corrispondenza ancora più marcata tra una messinscena essenziale, quasi metafisica (il palco è immerso nel buio e al centro prevede una struttura cubica in vetro) e gli stilemi espressivi (analogie ricercate, immagini evocative e anti-realistiche) dell'opera eschilea, in un quadro generale in cui, a differenza di come si potrebbe pensare, è il Teatro a mettersi a disposizione del Cinema e non viceversa, dando vita a uno spettacolo per certi versi ostico quando si tratta di cogliere tutte le implicazioni presenti nel testo originale, quanto affascinante per il coraggio e la costanza con cui il regista persegue il suo obiettivo, vale a dire quello di mostrare la vertigine che procura la messa in discussione del confine che divide la regola dalla sua trasgressione. Ambizione ribadita nel sotto finale ambientato in una sala da ballo, in cui la presenza di personaggi deceduti anzitempo all'interno del teatro e la similitudine con cui viene organizzata la successione delle danze (anche qui a scandire le azioni è un uomo che dà ordini tramite un microfono) assolvono allo stesso tempo a funzione catartica pur non smarrendo un'ambiguità di fondo, quella propria di Eschilo, a dire una sostanziale impossibilità da parte dell'agire umano di sottrarsi al ripetersi delle cose. Se tale scena può essere anteposta (come lo spettatore avrà modo di constatare) ai fatti raccontati, contestualmente, la stessa, potrebbe segnalare il ripresentarsi della medesima situazione. A riprova di quanto affermato dall'autore eleusino.
Carlo Cerofolini
(pubblicato per ondacinema.it)

mercoledì, aprile 25, 2018

RENDEZ VOUS 2018 FESTIVAL DEL NUOVO CINEMA FRANCESE: I FANTASMI D'ISMAEL


I fantasmi d'Ismael
di Arnaud Desplechin
con Mathieu Almaric, Charlotte Gainsbourg, Marion Cotillard
Francia, 2018
genere, drammatico
durata, 110'


Quello di Arnaud Desplechin è un cinema da maneggiare con cura per evitare il rischio di vederselo scivolare dalle mani. D’altronde, se c’è una cinematografia allergica alle classificazioni è proprio quella del cineasta francese, il quale, per nulla scoraggiato dalla volubilità del pubblico pagante  e incurante dei giudizi della critica più cinefila, continua imperterrito a filmare  tasselli di un universo a se stante, dove le rimembranze dei ricordi personali si mescolano con motivi che nascono dagli interessi più disparati del regista: non solo il cinema, inteso come contenitore di memorie perdute ma, più in generale, materie come scienza, psicoanalisi e filosofia, le quali, in un rapporto dialettico con il farsi degli eventi si offrono al protagonista come strumenti per tentare di decifrare il caos che lo circonda. Alla pari de “Essere John Malkovich” di Spike Jonze anche ne I fantasmi d'Ismael l’osservazione del film  mette lo spettatore nella condizione di entrare nella testa ( e nel cuore) del regista, permettendogli di immergersi nel flusso visivo che ne scaturisce. Senza alcuna intenzione di realismo che sia quello di riportare con esattezza epistemologica le emozioni e gli stati d’animo dei personaggi, il film punta in tutt’altra direzione, sottoponendo la linearità della storia a detour narrativi che restituiscono come meglio non si potrebbe i molteplici alter ego del regista. 


Per riuscire a farlo, Desplechin sintonizza il montaggio sugli umori del protagonista e sull’evolversi della sua condizione psicologica, destabilizzata fino allo follia dalla comparsa di Carlotta (Marion Cotillard), l’ex moglie tornata dal passato e causa del malessere in grado di mettere in crisi il menage tra Ismael e Sylvia (Charlotte Gainsbourg). Così, se le immagini riferite ai momenti più felici sono collegate con ferrea razionalità, quando il fantasma di Carlotta inizia a incalzare Ismael, il deragliamento sensoriale dell’uomo viene trasferito sullo schermo da una consequenzialità più labile, derivata non tanto dal nesso di causa effetto provocato dai suoi comportamenti ma frutto di uno sparpagliamento sequenziale corrispondente  all’anarchia degli stati d’animo.   


Da qui la conferma di un cinema, quello di Desplechin, che per essere compreso nella sue sfaccettature ha bisogno di un coinvolgimento attivo da parte dello spettatore, chiamato con la sua volontà a entrare in sintonia con la complessità dei personaggi di Desplechin. Nondimeno, la presa di coscienza sull’impossibilità di restringere il campo di indagine nel tentativo di decostruire il film in questione non può fare a meno di trovare punti d’appiglio, come capita quando ci si imbatte nella continuità de I fantasmi di Ismael con I miei giorni più belli. Caratteristica riferibile tanto ai contenuti, per la contiguità delle esperienze vissute dai protagonisti dei due film, i quali, raccontanti in diverse fasi della vita (nel primo film, la giovinezza, nel secondo, l’età adulta) condividono lo stesso cognome (Dedalus) e potrebbero essere addirittura fratelli; quanto alla forma che ne I fantasmi di Ismael così come nell’altro, è frutto di una commistione di generi capace di mescolare dramma e commedia, grottesco e melodramma, arrivando a far convivere l’intimismo del paesaggio francese con il gioco di specchi e gli infingimenti del deserto orientale destinato a fare da sfondo alla spy story che a intermittenza si inserisce nella vita dell’irrequieti protagonisti. 

Ma il romanzo cinematografico di Desplechin è prima di tutto il modo utilizzato dal regista per esorcizzare le proprie ossessioni, tra le quali ancora una volta hanno un posto di rilievo la morte - reale o metaforica - intesa come perdita dei propri cari, e la prospettiva di un’esistenza consegnata alla sua versione più mitologica e fantasmatica. Il tutto accompagnato da una tragicità che - alla pari delle ultime opere di Dumont -  si pone in antagonismo con i mali della contemporaneità facendosene sberleffo con il ridicolo in cui spesso si rifugia la disperazione di Ismael. A differenza del suo collega, però, Desplechin lo fa con una passione cinefila certificata tra le altre cose dalla presenza di due icone del divismo francese come Gainsbourg (alla quale il regista offre uno dei più bei ruoli degli ultimi anni) e Cotillard, con le quali  il regista, conferma di saper declinare le sue storie con una sensibilità che funziona sia con i personaggi maschili che in quelli femminili. Film d’apertura della 70ma edizione del Festival di Cannes e punta di diamante del focus dedicato al cineasta di Roubaix da parte del Rendez Vous 2018 Festival del nuovo cinema francese I fantasmi d'Ismael è un titolo imprescindibile nella filmografia del regista. 
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidriver.it)



JEANETTE D'ARC: INTERVISTA A BRUNO DUMONT



L’umanità dei suoi personaggi si è spesso espressa su due piani, quello del bene e del male. In questo caso Jeanette è un personaggio puro, senza macchia e, alla fine del film, senza paura. Può essere questo atteggiamento una risposta al timore che attraversa la Francia scossa dal terrorismo?

Mi piace riferirmi all’umanità delle persone ordinarie. Qui avevo a che fare con un vero mito francese, capace di contenere in sé tutto ciò che è il mio paese. Se prendessimo in esame gli schieramenti politici, si vedrebbe che Jeannette è amata tanto dall’estrema destra che dalla sinistra. A me però interessava la Jeannette bambina, quando ancora era una persona comune e il germoglio della sua icona si trovava già dentro di lei. Da  questo punto di vista, il film dimostra proprio questo, e cioè che la grazia comincia alla fine della vita profana, dell’esistenza ordinaria. Nessuno ne è privo, però io volevo raccontare la fase di germinazione, quando appunto la grazia inizia a fare i primi passi dentro la protagonista.

L’interesse verso i bambini attraversa tutto il suo cinema (per esempio con P’Tit Quinquin). I giovani sono spesso al centro della sua opera, forse perché le offrono la possibilità di guardare il reale da una prospettiva priva di sovrastrutture? 
Perché è la fonte della miseria e della violenza. Quello dei bambini è il terreno primario, il luogo dove tutto è ancora possibile. Ciò che mi affascina è che nella gioventù si trovino allo stesso tempo la peggior vigliaccheria e la migliore santità per cui ognuno può decidere se diventare santo o diavolo. Questa cosa succede anche quando siamo vecchi perché il nostro bambino interiore continua a essere lì. Gli studiosi dicono che ogni cosa si decide entro i dodici anni, per cui l’uomo che ne ha sessanta e come un bambino di dodici. Si accorge di invecchiare solo perché si guarda allo specchio, altrimenti penserebbe di essere ancora un giovinetto.

Jeannette è un icona della cultura francese, ma il suo stile di vita è uguale a quella di un bambino siriano o libanese che fa il pastore e vive le sue giornate immerso nella natura. In questo senso Jeannette – L’enfance de Jeanne d’Arc è anche un film universale.
È la storia di tutti quelli che vanno in Siria e poi fanno esplodere le bombe, qui è là. Ed è un po’ l’ambiguità di Jeannette, che è una brava persona, ma è anche una matta scatenata perché riesce a cacciare gli inglesi in nome di Dio, e a me quelli che agiscono in nome di Dio mi sembrano tutti matti.

Capita infatti che la stessa bambina innocente e pura possa essere anche quella che, manipolata dagli adulti, diventi uno strumento di morte.
Ma il cinema serve proprio a questo. In realtà la settima arte deve fare un lavoro di catarsi. Jeannette – L’enfance de Jeanne d’Arc lo fa rispetto alle persone che fanno coincidere la violenza e il sangue, facendosi esplodere in Europa e uccidendo degli innocenti. La sua visione ci impedisce di farlo ma il problema è che la gente di questo tipo non va al cinema.

Jeannette dice che per fermare la guerra bisogna ammazzare la guerra. Volevo chiederle: anche per lei non ci sono alternative in questo senso?
Secondo me il cinema è l’unico modo di uccidere la guerra. Noi siamo dei potenziali guerriglieri, tutti noi, per cui ognuno è chiamato a epurarsi da questo istinto omicida attraverso il cinema, la musica, la cultura. Non bisogna dimenticare che siamo tutti assassini, tutti molto pericolosi. Io non lo sono perché riesco a fare arte, ed è ciò che mi protegge, come per lei la sua cultura, che le impedisce di essere un poco di buono.

Però anche l’arte può essere pericolosa.
Si, ma è un pericolo mistificato dall’arte, per cui è una forma di illusione. Hadewijch (2009), per esempio, non era un film pericoloso, perché eroicizzare il male era la catarsi necessaria per liberarsene. Il problema delle persone che mettono le bombe è che non hanno cultura, sono dei cretini. Tutti quelli che la sfuggono sono pericolosissimi perché considerano il reale come una sorta di spettacolo. Oggi, quest’ultimo non coincide con il cinema ma con la televisione. Non esiste più separazione tra realtà e finzione, per cui si guarda la TV come se ciò che mostra esistesse davvero.

Lei guarda spesso la realtà attraverso gli occhi delle persone umili come Jeannette, capaci di reagire alle sollecitazioni esterne senza mezzi termini.  Questo le consente un’osservazione scevra da ogni infingimento. Il fatto che le sue storie siano collocate nella natura, tra boschi, dune e stagni, mi sembra che vada in questa direzione, così come la corrispondenza tra ambiente e personaggi.
Nel cinema la natura corrisponde all’interiorità dell’essere umano. Quando la piccola Jeannette salta nella sabbia è come se balzasse sulla nostra testa. Il reale nel cinema è trasfigurato. La rappresentazione della realtà sullo schermo non è mai qualcosa di esterno ma è l’interno esteriorizzato. D’altronde quando si vede un film lo si fa all’interno di se stessi, non nel mondo circostante.

Il suo è un cinema antagonista. Negli anni novanta si opponeva all’ottimismo dei tempi, presagendone lo spettro della fine. Nelle sue ultime opere, invece, mi sembra accada il contrario, con barlumi di speranza che si oppongono al dilagante pessimismo attaule. Anche la scelta della forma musicale sembra andare in questa direzione.
Ha ragione, è un mezzo di lotta sempre più esacerbato contro il reale. La miscela tra tragico e comico è un modo per affrontare il nostro tempo che è oramai disincantato dal cambiamento delle abitudini politiche. A questa disfunzione ne corrisponde sempre, e dico sempre, un’altra di ordine estetico. Se si guarda lo stato del cinema italiano in rapporto alla grandezza passata, questo è proporzionale a quello della politica perché è lei che ne influenza l’estetica. A tal proposito si potrebbe dire che avete l’estetica che meritate. E la cosa ovviamente vale anche per la Francia e per gli altri paesi.

La composizione delle sue immagini è essenziale, direi quasi scarna, eppure in Jeannette l’ambiente bucolico è ritratto con un equilibrio da cinema classico. Volevo chiederle quali erano dal punto di vista estetico i riferimenti del suo film.
Si, in Jeannette c’è qualcosa di estremamente accademico, di classico che è rappresentato dalla presenza della natura, poi ci sono suggerimenti poetici abbastanza elaborati che sono un modo per trasfigurare il paesaggio naturale. Si tratta di confrontare il reale classico e la tragicità poetica: il tragicomico è uno dei modi di essere moderni. Il comico serve a deridere il reale perché l’esistenza è ridicola, poi c’è sempre la speranza che le cose cambino, che è comunque un concetto classico. Io non sono disperato. Bisogna essere lucidi ma pieni di speranza.

Per fare un cinema così libero a cosa si deve rinunciare? (Sempre se si deve rinunciare a qualcosa).

Non frequento la gente di cinema francese e siccome non li frequento non giro con loro. Non mi innamoro delle attrici francesi, quindi quel mondo non mi protegge e non facilita il mio lavoro. Spero di averle risposto (ride).
Carlo Cerofolini
(pubblicata su Taxidrivers.it)

martedì, aprile 24, 2018

JEANNETTE, L'ENFANCE DE JEANNE D'ARC

Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc
di, Bruno Dumont
con, Lise Leplat Prudhomme, Jeanne Voisin, Lucile Gauthier, Victoria Lefebvre, Aline Charles, Elise Charles
Francia, 2017
durata, 105’


Things they do look awful c-cold
Talkin’ ‘bout my generation
I hope I die before I get old
Talkin’ ‘bout my generation
- The Who -


E’ possibile contrastare i cupi presagi evocati dalla quotidianità con un atteggiamento che sia allo stesso tempo improntato alla leggerezza e intriso di una sorta di disponibilità originaria, di apertura passionale, ossia di una prossimità schietta, non mediata, con il corpo naturale del mondo e quello sociale degli uomini ? Forse sì. Almeno a giudicare dalla traiettoria disegnata dall’ultimo Cinema di un autore come Dumont - da sempre latore di una riflessione tenace quanto tormentata circa le parimenti scivolose ambiguità che individuano il rapporto tra la componente materiale dell’esistenza e gl’indizi che per contro ne adombrano un’ipotesi di trascendenza - che, almeno da “P’tit Quinquin” in poi, ha riservato segmenti sempre più ampi del proprio tragitto alla cura di un’impertinente irrequietezza, scanzonata e paradossale, ilare e disarmata, l’intento apparente, comunque coraggioso e antagonista, di distillare un antidoto alla crassa mestizia dei tempi.

Prova ne è anche questo recente “Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc”, centrato, tenendo presente Le mystère de la charitè de Jeanne d’Arc (1910) di Peguy, sui trascorsi immediatamente antecedenti la prodigiosa ascesa nelle urgenze della Storia da parte di quella che sarebbe diventata la più celebre delle pulzelle. A partire dall’estate del 1425 (nell’imminenza, cioè, del tragico assedio di Orlèans, una decina d’anni dopo la disfatta di Azincourt e concedendosi la libertà di sfasare di qualche anno l’anagrafe del personaggio storico con quella della protagonista chiamata in prima battuta a interpretarlo), Dumont coglie la piccola Jeanne - ancora detta Jeannette, prima che l’arcangelo Michele in persona ne esiga la precoce entrata nell’età adulta sopprimendo il colloquiale vezzeggiativo - una strepitosa Leplat Prudhomme (basta guatarne lo sguardo tanto stupito quanto vigile per sincerarsene), tra dune di sabbia intervallate dalla macchia e da rigagnoli sullo sfondo d’un cielo chiaro e per lo più limpido che annuncia in lontananza il mare, interrogarsi, sola o assieme alla coetanea Hauviette/Gauthier a 8 anni, Lefebvre a 13, circa i tristi destini della Francia e, più in generale, dei cristiani di buona volontà: Finché non ci sarà qualcuno in grado di uccidere la guerra, saremo come bambini che si divertono nei prati a fare dighe e ponti con la terra e il fango della Mosa. Ma la Mosa finisce sempre per passargli sopra, prima o poi (Jeannette). Per uccidere la guerra, bisogna farla. Per ucciderla serve un condottiero. Possiamo essere noi a fare la guerra ? (Hauviette). 

Conducendo al pascolo il suo sparuto gruppo di pecore Jeannette chiarisce mano mano a sé stessa l’origine dell’insofferenza patita di fronte alla desolata rassegnazione degli ultimi (Soffro di un dolore sconosciuto, oltre ciò che si può immaginare… E’ l’inferno stesso che trabocca sulla Terra. Che succede, Dio mio ? Che succede ?), inquietudine che la risolverà qualche anno dopo, in piena adolescenza (restituita dalle fattezze di Jeanne Voisin), a proporsi come paladina in armi contro l’invasore britannico.

Fedele alle proprie coordinate territoriali (l’amato Nord della Francia), di messinscena (scabri set naturali in cui la figura umana tenta ogni volta di riannodare i fili d’un dialogo compromesso, se non irrimediabilmente distrutto con il paesaggio, controparte vivente) e narrative (la progressione drammaturgica organizzata più che altro per incisi, parentesi, digressioni più o meno tra loro correlate), il regista di Bailleul si concede qui la torsione capricciosa di un ulteriore ampliamento della gamma espressiva delle immagini introducendo, a integrazione del recitativo tradizionale, inserti cantati/salmodiati - e spesso corredati da abbozzi di danza - che suonano come rimaneggiamenti di inni sacri medievali (E non c’è niente/E non c’è niente/Ciò che regna sulla faccia della Terra/non è altro che la perdizione) alla luce di distorsioni rock, lepidezze metal, ingenuità circensi. Il risultato è un singolare ibrido tra sacro e profano, che del primo conserva il candore primigenio di un entusiasmo spirituale ancora non sottoposto al tornio della formalità istituzionale e del rigore ritualistico (avversione già manifesta, per altro, nella liturgia messa in ridicolo proprio nel succitato “P’tit Quinquin”), in grado di considerare il divino - chiamato in causa da un animale selvatico prescelto e ispirato - confidente privilegiato dei parti di un immaginario in formazione, quest’ultimo animato dal trasporto e dalla devozione ma scevro dell’imbarazzo reverenziale o dottrinale. 

Dell’altro rivendica invece la componente ludica e imprevedibile, l’esaltazione interiore tutt’uno con la gioia del corpo, nella placida ma certa riaffermazione della fanciullezza come interludio privilegiato ma tale proprio perché ugualmente e potenzialmente amorevole e brutale, curioso eppure già in sentore di disincanto: in ogni caso - e quello in questione ne è valida testimonianza - ben lungi dalla trita retorica caramellosa che sovente ne ammorba la rappresentazione. Jeannette/Jean, così, nella versione/visione di Dumont, in virtù di un qual vitalismo presago, nei panni dimessi di una Menade accorta che fa dell’istinto e dell’irriverenza baluardi per la conservazione d’una intangibile purezza di fondo, sfugge senza sforzo e di fatto alle ovvie trappole della manipolazione e della mistificazione ideologica collocandosi, rara avis, tra coloro il cui sacrificio personale non sottende rivendicazioni quanto lo slancio spontaneo di un proposito dignitoso.
TFK

lunedì, aprile 23, 2018

RENDEZ VOUS 2018 FESTIVAL DEL CINEMA FRANCESE: L'AMORE SECONDO ISABELLE


L'amore secondo Isabelle
di Claire Denis
con Juliette Binoche, Gerard Depardieu, Valeria Bruni Tedeschi
Francia, 2018
genere, drammatico
durata, 94'


Come spesso accade nelle cose del cinema, non sapremo mai se ciò che stiamo per dire sia il frutto della volontà dell’attrice oppure una precisa scelta della regista. Sta di fatto che, a un certo punto del film, nel riprendere Isabelle intenta a dipingere su un panno disteso a terra, Claire Denis, invece di spezzare il montaggio per far simulare il movimento del pennello nelle mani di un vero pittore, ce la mostra con un totale in cui a mettersi in gioco è la stessa Juliette Binoche, talmente calata nel personaggio da accettare di simulare una gestualità che non le appartiene. In un’epoca in cui le possibilità di infingimento sono sempre più verosimili, Binoche decide di farne a meno per offrirsi allo spettatore senza maschere ne artifizi. Se la professionalità dell’attrice francese non è stata mai in discussione, a colpire è la ricerca di un’autenticità ancora una volta destinata a essere il marchio di fabbrica di un’interpretazione fuori dal comune.

Certo, L’amore secondo Isabelle è uno di quei film che fanno la felicità dell’attrice che ne è protagonista: presente dalla prima all’ultima scena e con la macchina da presa a valorizzarne la voluttuosa e sensuale figura, Binoche è una donna alle prese con la mancanza d’amore che, in un vortice di pathos e sofferenza, è indirizzata a crescere ogni volta che la ritroviamo sola ma imperterrita al cospetto di una nuova possibilità. La sceneggiatura è ispirata ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes: i vari segmenti dedicati agli incontri di Isabelle sono allo stesso tempo parte di un unico racconto ma anche singoli tasselli destinati a diventare il modello di una femminilità universale, capace di rispecchiare, nelle variazioni offerte dalle diverse storie in cui è coinvolta Isabelle, l’intera categoria.


Un’ambizione, quella della Denis, alla quale non poteva non corrispondere la presenza di un’attrice iconografica come Binoche, la quale, come sempre, si dimostra capace di disfarsi della sua fama, anteponendo l’autenticità dei sentimenti espressi attraverso Isabelle ai tic e alle maniere che derivano dalla padronanza dei propri mezzi. Al contrario, Binoche sembra consegnarsi allo sguardo dello spettatore, accettando di filmare uno smarrimento che sembra appartenerle in prima persona. Non si può non innamorarsene. Presentato alla Quinzane 2017 e all’ultimo Torino Film Festival, L’amore secondo Isabelle arriverà nelle sale a partire dal 19 Aprile.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

GHOST STORIES


Ghost stories 
di Andy Nyman
con Andy Nyman, Paul Whitehouse, Alex Lawther
Gran Bretagna, 2017
genere, drammatico 
durata, 98’



Il professor Philip Goodman in televisione è un investigatore del soprannaturale che ritiene possa essere sempre smascherato come una truffa tutto ciò che appare inspiegabile. Ha un mito di gioventù, un uomo che svolgeva la stessa attività, ma è scomparso da anni. Quando questi si mette in contatto con Philip, il professore vede il suo entusiasmo deluso nel trovare l'uomo non solo in disgrazia, ma pure convinto di aver sbagliato tutto. Affida a Philip tre casi per lui inspiegabili, sperando che sappia risolverli e gli dica di non aver gettato la sua vita. Il primo riguarda un guardiano notturno che ritiene di essersi imbattuto in un fantasma, il secondo un giovane che sostiene di aver incontrato una creatura demoniaca, il terzo è un uomo di successo la cui casa è infestata da poltergeist.

Costituito da più episodi racchiusi in un racconto cornice, “Ghost Stories” supera la propria struttura usando i singoli capitoli come parte di un puzzle destinato a ricomporsi in modo irresistibile.

Nasce dalla mente di Andy Nyman e Jeremy Dyson, il primo dei quali ne è anche protagonista: entrambi fanno parte della geniale troupe comica “The League of Gentlemen”, che ha avuto anche uno show su BBC dove non mancavano omaggi alla tradizione horror e gotica inglese. Prima di essere un film, “Ghost Stories” è stato una pièce teatrale che ha debuttato a Liverpool nel 2010, per poi arrivare a Londra, Toronto, Mosca, Sydney e altrove. Già ideata come una sorta di lettera d'amore per gli horror della Ealing incrociati al gusto più popolare della Hammer, trova ora sul grande schermo la sua forma più naturale. D'altra parte questa trasmigrazione porta con sé un rischio: se a teatro gli stereotipi del cinema funzionano come un omaggio, al cinema rischiano di tornare a essere stereotipi. 

Girata nello Yorkshire, non manca di citare, in questa nuova versione, anche altre opere, estranee alla tradizione inglese, come “La casa” di Sam Raimi, con la soggettiva quasi ad altezza terreno di una presenza demoniaca in corsa in mezzo a un bosco nella notte. Il protagonista Andy Nyman ha familiarità con l'horror anche splatter: era stato, infatti, tra gli interpreti di “Dead Set” di Charlie Brooker, che gli dedicava una fine particolarmente cruenta.


Ognuno dei tre episodi ruota intorno a un diverso interprete, il primo è il meno famoso fuori dai confini inglesi, il gallese Paul Whitehouse molto amato in patria per una sketch comedy. Il secondo è Alex Lawther, lanciato da serie Tv come “Howard's End” e soprattutto “The End of the F***ing World”, mentre il terzo è il più celebre Martin Freeman, che ha recentemente partecipato al travolgente successo di “Black Panther”. Ognuno di loro detta il tono del proprio racconto, il primo con un accento marcato e la decadenza dell'età e dell'alcolismo; il secondo con la frenesia paranoica che già aveva sfoggiato nell'episodio di “Black Mirror” intitolato “Shut Up and Dance”, qui coniugata al terrore per il soprannaturale. È Freeman però a essere il più sinistro, perché la sua apparenza da uomo qualunque e molto ordinato rende il soprannaturale che lo circonda ancora più sorprendente e inquietante.

Nyman riserva per sé il pezzo forte del film, il finale in cui si riannodano i fili di un arazzo solo apparentemente sconclusionato, ed è qui che la regia ricorre a soluzioni semplici eppure originali che perforano letteralmente la percezione di realtà del cinema. “Ghost Stories” riesce, così, a essere più di un film a episodi o di un semplice pastiche, regalando, con gli ultimi colpi di scena, il piacere di un'opera compiuta, non senza una bella dose di autoironia.
Riccardo Supino

domenica, aprile 22, 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA

La nostalgia della luce di Patrizio Guzmàn (Cile, Stati Uniti, Spagna , Francia, Germania, 2010)

sabato, aprile 21, 2018

L'AMANT DOUBLE

L’Amant Double
di François Ozon,
con Marine Vacth, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset
Francia, 2017
genere drammatico, thriller
durata 110’


François Ozon è un regista poliedrico che ama cambiare registro stilistico le cui tappe, nella sua ormai lunga filmografia, vanno dalle commedie (Ricky, Potiche) ai film in costume (Angel, Frantz), dai drammi (Sotto la sabbia, Il rifugio, CinquePerDue - Frammenti di vita amorosa) fino al thriller (Amanti Criminali, Swimming Pool, 8 donne e un mistero). Accomunano queste opere la ricerca del gusto per il pastiche, le svolte psicologiche improvvise, una messa in quadro classica, la cura dell’immagine pulita ma mai patinata, utilizzando la saturazione e la desaturazione dei colori secondo l’impronta emotiva della specifica pellicola.

L’Amant Double, ultimo suo lavoro in ordine di tempo, è un thriller claustrofobico, un duetto tra la Chloé (Marine Vatch, già vista in Giovane e bella) una ragazza problematica che si innamora del suo psichiatra il dottor Paul, per poi scoprire che ha un fratello gemello omozigote Louis (interpretati da Jérémie Renier, attore feticcio dei fratelli Dardenne) dalla personalità perversa.

Opera di chiara influenza hitckockiana nell’impostazione della messa in scena, L’Amant Double può essere una felice sintesi de Le due sorelle di Brian De Palma e Inseparabili di David Cronenberg con cui ha molti punti in comune, non solo per il tema affrontato – i gemelli come divisione della personalità, la metamorfosi psichica che tracima nell’assimilazione della carne – ma anche per alcune sequenze: come la scena in cui Chloé fa l’amore con i due fratelli e il suo corpo si sdoppia, in una rappresentazione onirica in cui la mente influenza l’esteriorità dei corpi; oppure, quando la ragazza si trova di fronte una se stessa ammalata e silente nella casa di Madame Schenker (Jacqueline Bisset), vecchia fiamma dei due fratelli . Alla fine, si può anche citare un’altra pellicola con cui ha elementi di contatto come La metà oscura di George Romero, dove il “fratello” gemello è stato cannibalizzato all’interno dell’altro.


Senza andare oltre, lo spettatore comprende la complessità tematica dell’opera di Ozon che riesce, con scarti della macchina da presa, a inquadrare la protagonista in molti primi piani con controcampi su specchi e finestre, moltiplicatori della sua immagine. Chloé si raddoppia nel volto di Paul/Louis, in un gioco labirintico del montaggio che confonde, mischia i punti di vista.  La soggettività scopica della ragazza si scompone, attuando un transfert della sua situazione nei confronti del proprio analista.

L’incipit è un primo piano di Chloé su sfondo neutro mentre mane anonime le tagliano i lunghi capelli liberando uno sguardo spento e fisso sullo spettatore che diventa anch’egli “doppio” del personaggio, rendendo partecipe il pubblico della mutazione allucinogena della protagonista, immergendolo immediatamente nell’atmosfera misteriosa di L’Amant Double.


Il regista francese effettua un esercizio di stile postmoderno, costruendo un vero e proprio mélange citazionistico, ribaltando continuamente ruoli e punti di vista, in un accumulo di inquadrature all’interno di spazi dalle scenografie algide e fredde. In un’atmosfera ospedaliera, dove la macchina da presa diventa un bisturi nella mano di Ozon, vero e proprio mad doctor onnisciente, che taglia in profondità la visione: l’immagine è delimitata da precisi raccordi tra sguardi e corpi che si scindono e si riproducono come frame-cellule impazzite. Così come L’Amant Double, corpo-film estraneo, abortito, assimilato, moltiplicato, ritorna a essere unico dopo la sua totale visione. E il titolo non rappresenta solo la messa in scena di un amore malato, ma l’”amante doppio” metaforicamente è anche il cinema stesso, in un rapporto gemellare tra regista e lo spettatore attraverso il corpo filmico.

L’Amant Double risulta così una pellicola disturbante, un’opera che tratta in modo originale temi e stilemi (ri)conosciuti, rendendo complice la visione dell’autore e di chi la osserva. E alla fine, come la protagonista, ci si sente svuotati e compiuti nello stesso momento, specchiati nell’ultima inquadratura. Come vedere se stessi nella profondità dello sguardo della macchina da presa.

Antonio Pettierre