di: E.Olmi
con: C.Santamaria, A.Sperduti, F.Formichetti, A. Di Maria, C.Grassi, N.Senni.
- ITA 2014 - Drammatico - 80 min.
"Ho sognato
stanotte
una
piana
striata
d'una
freschezza
In veli
varianti
d'azzur'oro
alga"
- G.Ungaretti, "Sogno", agosto 1917 -
Il fruscio della Morte da sempre percorre i campi di battaglia. Al momento, pero', di rivestirsi di una sorta d'impenetrabilità tecnologica, ecco che perde quei tratti di riconoscibilità che lo tengono entro gli orizzonti del comune destino umano - per quanto tragico, crudele ed enigmatico - e si consegna ad una cumulazione statistica fredda, atona, disgiunta dagli illusori ma significativi contesti (in relazione all'impulso ad agire) degli
ideali e delle
ragioni, degli entusiasmi e delle
speranze, offrendosi, in definitiva, ad una necessita' più maligna e perversa - perché non solo gratuita ma come
ottusa - di qualunque annientamento.
Tale inerzia trova esemplare compimento durante i quasi quattro anni e mezzo della cosiddetta Grande Guerra, di cui quest'anno ricorre il centenario legato al suo irrompere nella Storia e della cui
necessita' non si e' quasi mai smesso di dibattere. Del resto, a pensarci - e sia detto come mero accenno - la stessa iperbole futurista circa "la guerra sola igiene del mondo", slancio febbrile all'azione in risposta alle
mollezze e ai
languori della Belle Époque, in fondo, aveva dato un certo contributo nel rendere manifesta la contraddizione che stagnava negli angoli più riposti, da un lato, dei nazionalismi e di singole mire egemoniche, la debolezza dei cui contrafforti filosofici aveva in parte alleviato; dall'altro, di coloro che opponendosi alla guerra in modo tanto reciso quanto, in realtà, poco meditato, si sforzavano di esorcizzarne il portato scandaloso ma inestirpabile, consustanziale a spinte che agitano da sempre gli strati più profondi e arcaici dell'animo umano. Palcoscenico su cui si consumano, comunque, immani eccidi, logoranti e grottesche - se non fossero tragiche -
impasse, marce lunghe e penose, aleatori tentativi di risoluzione definitiva di controversie tra Imperi scopertisi inermi e invecchiati di colpo all'alba di un nuovo secolo prepotentemente in marcia verso una
modernità che di li a qualche decennio avrebbe preteso ulteriori e ancor più giganteschi
lavacri, proprio la Prima Guerra Mondiale
vede la contesa bellica indirizzarsi in maniera irreversibile sul sentiero a senso unico che la Tecnica va tracciando sulla scorta d'innovazioni che, ridisegnandone i contorni e modificandone le logiche, via via limiteranno l'influenza e la discrezionalità del
fattore umano, fino all'alto tasso d'impersonalità dei conflitti odierni (mentre d'altro canto ma in parallelo, la Morte prende a spogliarsi dei suoi secolari abiti metaforici e simbolici per indossare, in parte, anche quelli più grigi e dimessi di una contabilità tutt'altro che problematica e foriera di riflessioni, sparendo, poi, di fatto, dal dibattito contemporaneo, in quegli amplissimi territori del
rimosso o del
negato, se non addirittura in quelli più angusti e patetici della chiacchiera consolatoria e dello scongiuro). Si pensi, per dire, all'uso su larga scala della mitragliatrice - emblema persino sovrabbondante del nuovo
guardarobadella Grande Mietitrice - meccanismo senza posa al lavoro che
falcia schiere intere di uomini protesi verso quella sua bocca tanto avida quanto impietosa. O all'impiego dei gas come l'Iprite, per l'appunto
battezzato durante gli scontri di Ypres (quattro battaglie nello scenario delle Fiandre Occidentali che coprirono, a diverse riprese, pressoché l'intero arco delle ostilità). O ancora, allo spiegamento di possenti e micidiali artiglierie, dall'una come dall'altra parte dei fronti, et.
Medesimo frusciare insidioso si avverte nell'incedere grave di "Torneranno i prati", ultima fatica di Ermanno Olmi, ispirato dalla novella "La paura" di F.De Roberto (1921), girato nelle zone montane di Asiago (teatro, peraltro, delle vicende riportate in "Un anno sull'altipiano" di Emilio Lussu, testimonianza fra le più alte riguardo quegli anni fatali) e narrante le vicissitudini di un distaccamento presso un avamposto d'alta quota costituito da un gruppo di militari inchiodati - in quel novembre del '17 - da una coltre nevosa di quasi cinque metri, tutt'intorno; dall'occhio sempre vigile dei cecchini nemici, di fronte; dal martellamento delle batterie e dei mortai ad intervalli più o meno regolari, dalle valli; nonché dallo spauracchio del diffondersi di una "strana influenza" (la peste, tristemente nota in seguito come spagnola, che avrebbe decimato soldati e civili in giro per l'Europa e non solo con uno zelo assai affine a quello delle armi usate in battaglia). All'interno di un solco cinematografico di argomento bellico nutritissimo e vario, il lavoro di Olmi si differenzia innanzitutto per la scelta di rifuggire tanto la variante spettacolare cara a molti war movies, quanto l'enfasi anti-propagandistica oggi come oggi poco incisiva alla luce di stratificazioni storiografiche oramai pluridecennali, per concentrarsi sui gesti (minuti, fragili e affaticati), sui silenzi e sui volti degli uomini (più esterrefatti che atterriti; più ostaggio di un'atroce meraviglia che della paura: più di tutto, esausti, incommensurabilmente stanchi, consumati e verso cui la Morte sembra intenzionata a compiere anche la beffa più infame per chi e' già quasi uno spettro, quella di tardare ad arrivare) o, meglio, su ciò che resta di essi dopo essere diventati preda di un ingranaggio immenso, crudele e sconsiderato, nel contesto di una Natura, per converso, ancor più meravigliosa nella sua indifferenza, irriducibile e imperturbabile nel suo insistere, invece, sulla Vita, non si sa se per irridere una volta per tutte l'animale umano risucchiato nel vortice della distruzione o se solo per assecondare una propria indole misteriosa e - come escluderlo ? - impertinente. Fatto sta che tra un istante di sconforto e un incrocio di sguardi che non ammette più parola, la neve riprende a scendere, una lepre zigzaga sul manto bianco appena depositatosi, una volpe torna ogni sera a far capolino nel campo visivo di una sentinella attonita, e la guerra-tecnica intensifica la sua efficienza (non ci sono scontri diretti, infatti, in "Torneranno i prati"), con la Morte a reclamare ciò che le spetta grazie, ad esempio, all'imposizione di ordini demenziali; all'esasperazione che porta a spararsi un colpo in bocca; a bombardamenti serrati che riducono corpi e oggetti ad avanzi informi...
Opera austera, laconica - ottanta minuti appena, contati i dialoghi - virata sui toni del grigio piombo, del bianco sporco, dei bruni terrei, del blu livido; calata in una semi-oscurità perenne a sprazzi rischiarata da pallori lunari che avvolgono piante, pietre e animali entro soffici aloni di funerea mestizia - quelli di un mondo/purgatorio dimentico e dimenticato - "Torneranno i prati" somma inquadrature di ieratica compostezza e antico rigore espressivo (quasi mai inclini al patetico o al bozzetto), la cui ricercata impassibilità restituisce altresì una gamma ampia di suggestioni figurative che va dalla muta ingenuità delle foto d'epoca, ad echi sparsi di pittura caravaggesca e tardo impressionista, fino al nitore astratto di certi squarci di trincea o alle nature morte di sparute suppellettili o di spogli accantonamenti. Su queste direttrici, Olmi tratteggia, così, una sorta di orazione sfinita di taglio teatrale ai lasciti della Memoria, il cui retrogusto religioso non si sostanzia di ingredienti dottrinali ("Il Padreterno non ha salvato Suo Figlio, perché dovrebbe ricordarsi di noi cani ?", borbotta un infermiere) ma finisce per caratterizzarsi in ragione dell'emergere oltre le differenze di ceto, di censo, di età, del nudo denominatore comune umano, unica spezia in grado di rendere praticabile quell'abbraccio tra eguali - l'ultimo - intriso di consapevolezza e lealtà che rende tollerabile e meno oscena la Morte. Anche per questo, allora, se "quando la guerra sarà finita, qui crescerà l'erba nuova e di quello che abbiamo patito non resterà niente, come non fosse mai successo", sarebbe il caso di chiedersi - chiedersi davvero - cosa n'è stato dell'erba ricresciuta in questi cento lunghi anni.
TFK