lunedì, aprile 29, 2013

Olympus Has Fallen / Attacco al Potere

di: A. Fuqua.
con: G. Butler, A. Eckhart, M. Freeman, R. Yune, D. Mc Dermott, A. Bassett, A.Judd.
USA 2013
120 min



Antoine Fuqua, come qui tra i "moviemaniacs" abbiamo già avuto modo di dire, e' un regista la cui discontinuità rende imprevedibile: stargli dietro sui sentieri del cinema di genere, infatti, significa procedere in avanti ("The replacement killers"/"Costretti ad uccidere", esordio del 1998; "Training day"/id., 2001; "Brooklyn's finest"/id., 2010); fare passi indietro ("Bait"/"L'esca", 2000; "Tears of the sun"/"L'ultima alba", 2003; "King Arthur"/id., 2004) e cimentarsi in deviazioni ("Shooter"/id., 2007). Con questo "Olympus has fallen"/"Attacco al potere", siamo dalle parti delle incursioni "a latere" se e' vero, come e' vero, che il film passeggia con discreta disinvoltura tra una fitta successione di luoghi tornati di nuovo comuni ma e' tenuto in carreggiata da una favorevole inerzia, dalla corrispondenza eminentemente "fisica" tra attori e personaggi e dalla baldanza "muscolare" della messinscena.

Al seguito di una delegazione sud coreana e con l'ausilio di una talpa all'interno dell'apparato governativo dello Zio Sam, un gruppo di terroristi nord coreani appartenenti ad una organizzazione paramilitare, dopo aver semidistrutto la Casa Bianca, prende in ostaggio il Presidente e il suo staff ristretto. Mike Banning/Gerard Butler, ex ranger delle forze speciali, ex capo della sicurezza del Presidente, s'insinua fra le maglie allentate del sistema e in solitaria tenta di rovesciare le sorti della partita...

Registrando, in generale, dopo la lunga elaborazione seguita al fatidico "11/9", il ritorno di una traccia narrativa classica, quella "terroristica" (di simile ispirazione vive anche l'imminente "White House down" di Emmerich) e una qual ribadita tendenza del cinema USA nell'anticipare/leggere l'attualità - qui e' la matrice coreana del disegno eversivo (ma, forse, l'intero assunto potrebbe essere ricondotto, e sia detto come spunto, entro una fisiologica altalena nella finzione di trame e volti che scimmiotta la storica ricerca/necessita' da parte di una nazione avvezza alla preminenza di individuare un nemico da additare/abbattere) -, il lavoro di Fuqua si caratterizza, affidandocisi - con tutte le incognite del caso ma senza farsene sommergere - per uno schematismo logico e ideologico elementare (ragione tutt'altro che marginale per inquadrare il discreto successo ai botteghini a stelle e strisce) quanto funzionale alla resa epidermica; di facile immedesimazione come pure di minimo impatto concettuale (ciò che preme, in fondo, e rende superfluo calcare troppo la mano sul lato "(geo)politico" o "guerrafondaio" della faccenda e' che l'Eroe/Buono/dalla nostra parte non la faccia passare liscia all'Antieroe/Cattivo/sulla barricata opposta) e ad un'estetica - irrobustita da venti e passa anni di costanti progressi sul versante "effetti speciali" e tenuta a bada dalla mano esperta di Conrad W. Hall - che da precedenti significativi solo orecchiati o tenuti vagamente presenti, approda alla levigatezza steroidea dell'"action movie" tardo-post reaganiano. Per intendersi: questo micro genere orchestrato attorno ad un complotto ad alto livello/un Presidente (o una Nazione) in pericolo per minaccia interna o esterna/un solo nostro uomo (un tanto scavezzacollo) in campo a cavare le castagne dal fuoco, può idealmente inserirsi in un assai vasto campo di applicazione cinematografico che, prendendo le mosse da precedenti di valore (per dire, il "Manchurian candidate" e "Black sunday", entrambi di Frankenheimer, rispettivamente del 1962 e del 1976; se non, addirittura, i Siegel e i Peckinpah estremi di "Telefon" (1977) e "Osterman weekend" (1983)), produce nel tempo una copiosa filmografia - in specie di serie B - che arriva quasi ininterrottamente (la cesura e', appunto, data dal lungo interludio successivo all'11/9) fino ai nostri giorni e verso cui "Olympus has fallen" può vantare più di una lontana parentela. Senza la pretesa di essere esaustivi, rammentiamo un percorso che si snoda dalle smanie di accerchiamento mai del tutto sopite nel Grande Paese di "Red dawn"/"Alba rossa" di J. Milius (1984), passando per i primi capitoli della saga "Die hard" inaugurata da J. Mc Tiernan nel 1988 e per "In the line of fire"/"Nel centro del mirino" di W. Petersen del 1993 e che procedendo attraverso "Murder at 1600"/"Delitto alla Casa Bianca" di D. H. Little, "Shadow program" di G. Pan Cosmatos e, volendo, "Air Force One"/"id., ancora di Petersen, tutti e tre del 1997, giunge ai più recenti "The Sentinel"/"Il traditore al tuo fianco", di C. Johnson (2000) e a "Vantage point"/"Prospettive di un delitto" di P. Travis (2008). Tutti film il cui denominatore comune e' la sostanziale convergenza sull'"azione", nei confronti della quale la materia "seria" (equilibri internazionali, rivendicazioni, strategie economiche e militari) influisce come pretesto o "sfondo nobile" - a seconda delle capacita' e delle sensibilità - più o meno plausibile, più o meno problematico.

Parimenti, "Olympus has fallen" privilegia in maniera diretta l'alternanza canonica battere/levare, azione/interlocuzione, giostrando sui tempi e riducendo al massimo le pause. In tal modo, come non piove sul fatto che, ad esempio, molte battute risultano indifendibili non tanto per il loro contenuto propagandistico quanto perché esauste causa logorio - quindi involontariamente caricaturali, parodistiche loro malgrado - (effetto simile a quello prodotto da un attore del calibro di Freeman che deve pronunciarne diverse relegandosi, e non da oggi, in una sorta di pigrissima routine manieristica), e' pure vero, fatta la tara a qualche forzatura e inesattezza, che la bilancia del godimento torna in assetto grazie alla spiccia guasconeria di un simpatico marpione come Butler che, con l'aria stanca del grosso sanbernardo costretto agli straordinari (tipica del fisico prestante con principi di appesantimento), corre, rotola, fa a cazzotti, brutalizza alcuni avversari e trova pure il tempo per fare da padre putativo al piccolo rampollo trascurato della real casa presidenziale. Su un equilibrio tale, la retorica (che per quanto trita e di parte ha sempre un suo scopo) si stempera un bel po' e viene confinata negl'incastri narrativi che tutto sommato t'aspetti: il quadretto familiare introduttivo a Camp David; i concitati vertici tra le autorità assiepate attorno all'usuale "tavolo della crisi"; il pistolotto finale che ribadisce orgoglio nazionale, coesione d'intenti e bla, bla. In mezzo, iperdinamismo e schermaglie; mestiere delle armi e una certa reiterazione violenta sulla figura femminile; aerei cargo a precipizio in primissimo piano ed elicotteri che si sbriciolano come moscerini piezoelettrici: raffiche penetranti che svellono zolle dai prati immacolati della Casa Bianca e Radha Mitchell che sembra capitata nel film per caso. Fuqua raccoglie, frulla tutto e serve un cocktail come detto retorico ma non pretestuoso/indigesto (vd. l'ultimo "Die hard") e non si perde. Non del tutto. Scarta di lato.


TFK

venerdì, aprile 26, 2013

IRON MAN 3D


Iron Man 3
di Shane Black
con Robert Downey Jr, Gwyneth Paltrow, Don Cheadle
Usa, 2013
genere: azione, avventura
durata. 130'
   
Dopo la saga degli X-Men, ormai diventata talmente autoreferenziale da fare storia a se in termini di numeri ed affiliazioni (Wolverine è una serie a se stante oppure un appendice da conteggiare all'interno della casa madre mutante?) in casa Marvel si festeggia il raggiungimento di un'altra trilogia. A celebrarla sono da una parte il miliardario Tony Stark ed il suo alterego Iron Man, coppia di "ferro" del cinema fumetto, dall'altra Robert Downey Jr e la sua carriera ritornata in auge grazie all'interpretazione di un eroe dal mood altrettanto problematico. Così se l'attore deve aver trovato più di una motivo per amare un personaggio che gli fa da specchio in termini di mood e guasconeria, con la novità degli attacchi di panico di cui Stark a garantire la giusta dose di nevrosi del prometeo contemporaneo, esiste più di un indizio che l'avventura sia giunta al termine  a cominciare dalla trama che spinge verso il definitivo congedo se non della serie almeno di chi ci mette la faccia, dapprima con un venir meno della ragione stessa del nostro eroe, e cioè l'invincibile armatura, messa fuori uso dall'arsenale nemico e poi trascinata come un relitto per le strade d'america dall'uomo che l'ha creata; successivamente con un trapasso (materiale e simbolico) celebrato con i fuochi d'artificio provocati dall'esplosione delle varie armature che l'ossessione di Stark aveva serializzato nel corso delle sue notti insonni. Sullo sfondo il possibile un possibile sostituto rapprensentato da Iron Patriot (Don Cheadle), variante governativa ed irreggimentata del prototipo, e soprattutto un villain, il Mandarino, la cui vera identità getta più d'un'ombra su un momento cruciale della storia americana, riproponendo nelle analogie con la figura di Bin Laden, i dubbi a suo tempo emersi sulla reale esistenza del defunto principe saudita, per alcuni paravento di un sistema che l'aveva inventato per inasprire il controllo sul paese e sulle persone. In questo scenario destabilizzato e destabilizzante, in cui l'azione e l'avventura si fanno desiderare è altrettanto palese che il mix drammatico ed insieme scanzonato del protagonista riesce a tenere in piedi "Iron Man 3", in costante affanno dal punto di vista del ritmo, slabbrato da spiegazione troppo lunghe e momenti di stasi inusuali per un film di questo genere. Ed è forse per questo che nel finale a lieto fine si adombra la possibilità di una staffetta che a questo punto potrebbe essere salutare per trovare le ragioni di un proseguio che ad oggi fatichiamo a vedere.

LENGUA MATERNA

di Liliana Paolinelli
ARG - 2010 - 78 min
Selezionato fuori concorso al 28 Torino GLBT Film Festival.


Ecco una bella e piacevole - e non presuntuosa - commedia davanti alle quale riesco ad entusiasmarmi così tanto da gridare al miracolo. E' un film semplice e sincero, un lavoro senza velleità di capolavoro, ed il mio entusiasmo è soprattutto dovuto al successo di arrivare fino in fondo senza annoiarmi, senza dover patire l'abusato ricorso alla parolaccia per far ridere, e senza lo sforzo di ricordarmi qual era l'argomento del film. Il miracolo, in questo caso, è doppio, perché Lengua Materna oltre ad avere il dono della grazia e della leggerezza - che non precludono affatto la sostanza - riesce a superare la tematica strettamente legata al festival che lo ospita - non è l'orientamento sessuale ad essere protagonista o tema principale in questo film - ed essere apprezzabile universalmente.

La storia è molto semplice: cosa succede quando una madre scopre che sua figlia ha una fidanzata con la quale convive da quattordici anni? Inizia così per l'anziana donna un percorso di apprendimento costellato da improvvisi mancamenti e sostenuto da una testarda curiosità che produce momenti esilaranti, tutti molto misurati e mai caricaturali. Fino a quando, in un movimento circolare di presa di coscienza, la distanza iniziale che dolorosamente separava madre e figlia si chiude con il loro riavvicinarsi in una scena finale che oltre a farsi ironicamente beffe dei pregiuduzi ristabilisce l'intimità e il reincontrarsi delle loro anime.

Secondo lungometraggio, tutto al femminile, dell'argentina Liliana Paolinelli che qui scrive e dirige. Sulle brave interpreti spicca l'irresistibile Claudia Lapacò nel ruolo della madre.


giovedì, aprile 25, 2013

LE STREGHE DI SALEM

Le streghe di Salem
di Rob Zombie
con Sheri Moon Zombie, Dee Wallace, Ken Foree, Meg Foster
Usa, 2013
genere horror
durata 101'

Filmare la paura ed insieme riuscire a suscitarla è ancora possibile? Chiederselo non è solo un quesito d’ordine etico ma per un artista diventa la discriminante di un’estetica chiamata a plasmare una materia naturalmente  “inguardabile”. Un imperativo tanto più urgente quanto attuale se riferito a Rob Zombie,  il cantate regista considerato dagli appassionati il nuovo guru dell' horror dopo una manciata di film che hanno scosso un genere pigramente appiattito su inutili remake. Così se il cinema è soprattutto una questione di sguardo è proprio su quello che il regista lavora per dare vita a “Le streghe di Salem", a suo modo ispirato ad uno dei fatti più bui della storia americana, con le donne accusate di stregoneria decise a vendicarsi sui discendenti dei persecutori, spianando la strada ad un Belzebù intenzionato ad assicurarsi una nuova progenie tra i cittadini di Salem. Zombie approfitta di una trama volutamente semplice, sfruttando al meglio le zone "morte" di un intreccio scontato, tanto nella progressione del male quanto nelle sue conseguenze, con la possessione di Heidi Hawthorne a suggellare la missione delle diavolesse, per organizzare il suo spettacolo iconografico. Immergendo la visione in una litania di distorsioni musicali che sembrano la chiave per entrare in contatto con un'altra dimensione e potendo contare su una colonna sonora "Greatest Hits" – da Bruce Springsteen e  Velvet Underground a classici come Bach e Mozart ed anche se stesso – Zombie mischia alto e basso, sacro e profano immortalando la "sua" Madonna, al secolo Sheri Moon, con una serie di tableaux vivant che ragionano sulla natura di un orrore prodotto dal cortocircuito dei soggetti di quelle composizioni. In questo modo ed in maniera progressiva le oscurità demoniache per nulla misteriose e volutamente grottesche si tramuta in un presepe di luce e di colori, popolato da figure che ripropongono una sacralità profanata dagli scandali del presente (la corruzione delle istituzioni religiose e le accuse di pedofilia) trasposto nell'ossessione onanista immortalata dalla scena dei porporati intenti a stimolare la propria eccitazione, oppure in quella in cui Heidi sconvolta dalle spaventose apparizioni si rifugia in chiesa in cerca d'aiuto ed è poi costretta ad una fellatio, reale o presunta, da chi la dovrebbe salvare. Una rappresentazione citazionista, postmoderna (una delle scene finali con Heidi a sovrastare una montagna di cadaveri completamente nudi dovrebbe riproporre la copertina di un disco di Jimmy Hendriks) e molto kitsch che riconosce i propri limiti di fronte alla crudeltà del mondo attraverso un horror vacui, in cui la rinuncia alla seduzione della bellezza - le streghe sono vecchie e vengono mostrare nude nella decadenza del loro corpo - a favore di un opulenza sovraccarica di oggetti e di significati è la risposta alla domanda iniziale, ed insieme la rifondazione di un modo di spaventare che non potendo più far leva su un’interiorità anestetizzata dall’overdose informativa, preferisce concentrarsi sul visibile, aumentandone l’evidenza per poi esorcizzarlo con una teatralità, psichedelica e posticcia, enfaticamente esibita. Ma "Le streghe di Salem" è anche l'omaggio a Sheri Moon, la sposa di Satana, mostrata con carnale generosità e poi gradualmente santificata dal sabba sonoro e visuale che Zombie le regala. E' lei il trait union di un’operazione che punta molto sull'intelligenza dello spettatore, dimenticandosi che il metacinema - richiamato dai riferimenti alla purezza del cinema delle origini riflessa nei poster di "Viaggio nella luna" (1902) George Melies che fanno bella mostra nell’abitazione di Heidi ed a cui Zombie palesemente s’ispira quando preferisce girare dal “vivo” riducendo il photoshop degli effetti digitali – dovrebbe essere il complemento  e non la ragione principale di un film come “Le streghe di Salem”. Ed invece il lungometraggio di Zombie seppur in odore di cult movie rimane un’opera più teorica che pratica, importante in una prospettiva di rinnovamento di un genere in cerca d’autore.

mercoledì, aprile 24, 2013

Film in sala da Giovedì 25 Aprile

VIAGGIO SOLA
di Maria Sole Tognazzi
con Margherita Buy, Stefano Accorsi, Fabrizia sacchi, Gian Marco Tognazzi
Commedia 85 min - ITA 2013

KIKI CONSEGNE A DOMICILIO
Majo No Takkiùbin
di Hayao Miyazaki
Animazione 102 min - GIAP 1989

QUALCUNO DA AMARE
Like Someone in Love
di Abbas Kiarostami
con Ryo Kase, Denden, Rin Takanashi
Drammatico 110 min - FRA/GIAP 2012

LE STREGHE DI SALEM
The Lords of Salem
di Rob Zombie
con Sheri Moon Zombie, Bruce Davison, Ken Foree
Horror 101 min - USA 2013

IRON MAN 3 (3D)
di Shane Black
con Robert Downing Jr, Guy Pearce, Cobie Smulders, Gwyneth Paltrow
Fantascienza - 109 min - USA 2013

martedì, aprile 23, 2013

Passione sinistra

Passione sinistra
di Marco Ponti
con Valentina Lodovini, Marco Preziosi
Italia 2012
genere, commedia
durata, 90'

"A volte ritornano" è lo slogan più adatto per accogliere un figliol prodigo come Marco Ponti, regista baciato al primo colpo da improvviso ed inaspettato successo ("Santa Maradona", 2001) e poi, dopo un'opera seconda esibita in tono minore ("A/R Andata + Ritorno", 2004) scomparso per un sedicente periodo sabbatico durato una vita. Nel mezzo qualche discreta sceneggiatura, e soprattutto un film, "Ti amo troppo per dirtelo" (2011) scomparso nei meandri della distribuzione italiana nononstante interpreti del calibro di Jasmine Trinca, Francesco Scianna e Carolina Crescentini. E' quindi motivo di sorpresa ritrovarlo come se nulla fosse successo alle redini di una produzione altrettanto importante per investimenti ed attori, e per di più alle prese con un soggetto attuale e caldissimo come quello della politica e delle sue distinzioni. Accade infatti che per la sua seconda vita cinematografica Marco Ponti, da sempre alfiere di un cinema disimpegnato e divertente, scelga di addentrarsi nelle ragioni della crisi ideale ed ideologica che stiamo vivendo per interposta persona, raccontando l'incontro di due coppie divise nei modi e nelle idee dal rispettivo credo politico. Da una parte Nina (Valentina Lodovini) e Bernardo (Vinicio Marchioni) con un trascorso di sinistra ed un presente radical chic, dall'altra Giulio (Alessandro Preziosi) e Simonetta (Eva Riccobono), figli della borghesia imprenditoriale e benestante di ispirazione destrorsa. Da una parte il politicamente corretto e l'ottimismo progressista, dall'altra un opportunismo sfrenato, ed un concetto della vita inconsapevolmente darwinista. Ma come spesso succede i poli si attraggono e in questo caso la chimica farà brutti scherzi avviando un valzer delle coppie insensato, e come dice Nina sinistro, quando confessa all'amica di aver ceduto al fascino dell'odiato Giulio.

Ispirandosi ad un modello di commedia tutta americana, riferimento esplicito fin dai tempi di "L'uomo perfetto" (2005) di cui Ponti scrisse la sceneggiatura, "Passione sinistra" mette sullo stesso piano cotè estetico e impianto di scrittura. Un equilibrio precario che il film ci segnala quasi subito quando nel presentare i personaggi della storia trasforma lo schermo in un patchwork di voce over, scketch caligrafici e fermi immagine molto in voga nel cinema indie, componendo un quadro fortemente ammiccante nella vivacità dei colori e perfettamente riconoscibile per la presenza di gadgets e parole chiave. Un plus valore edonistico che "Passione sinistra" rafforza nella preminenza di un glamour attoriale che finisce per ridurre la personalità dei caratteri, con l'esuberanza fisica di Ludovini e Preziosi (ma anche Eva Riccobono non scherza in termini di allusione ad una carnalità finanche esibita) a determinare il tasso d'empatia, e con il motivo principale del film, quello di giocare con i paradossi e le magagne degli opposti schieramenti, ridotti ad un confronto di stereotipi con un "elenco della spesa" - questo si, questo no - in stile Fabio Fazio, nume tutelare del film insieme a Marco Travaglio che fa pure una comparsata, a determinare peculiarità e difetti delle due fazioni . Così eccezion fatta per la triste pre-visione del sindaco pidiessino, giovane ed innovativo ma solo per quanto riguarda le caratteristiche anagrafiche, "Passione Sinistra" è una commedia che non c'entra nulla con le diatribe tra Berlusconi e Bersani, rappresentando sotto mentite spoglie l'ennesima variante di un copione che appartiene al filone che dalle schermaglie tra Spencer Tracy e Katherine Hepburn ha preso il nome di "guerra dei sessi". Così pur giustificando Marco Ponti nella sua voglia di ritornare "visibile" - e Rai Cinema che coproduce da ampie assicurazioni in questo senso - siamo sicuri di preferirlo lontano dalle trappole di un argormento, da tempo conosciuto proprio per l'assenza di differenze che invece i suoi personaggi sembrano scoprire solo ora. Invece di scomodare il libro di Chiara Gamberale a cui "Passione sinistra" è liberamente ispirato sarebbe bastato rispolverare un capolavoro come "La messa è finità" (1985) di Nanni Moretti e ricordarsi del monito lanciato dal protagonista che così recitava: "rossi e neri tutti uguali?. Meditate gente, meditate. 

(pubblicato su ondacinema.it)

lunedì, aprile 22, 2013

NINA

Nina
di Elena Fuksas
con Diane Fleri, Luca Marinelli, Ernesto Mathieux
Italia 2012
genere: drammatico
durata,80' 

  
Ognuno di noi è il frutto dell'esperienza che si porta dietro, un concentrato d'emozioni, immagini e conoscenza riprodotte più o meno consapevolmente in ogni momento della vita. Una matrice autobiografica che è tanto più evidente, quanto più ha la possibilità di esprimersi al di fuori del sé, diventando la forma di ciò che abbiamo dentro. Un percorso d'oggettivazione individuale che la creazione artistica favorisce, e che trova nella natura spuria del cinema, contenitore e crogiolo di tutte le possibilità, lo specchio più adatto a contenere la complessa moltitudine del nostro animo. Una consapevolezza che sicuramente appartiene ad Elisa Fuksas, e quindi a "Nina", il suo film d'esordio. A testimoniarlo non c'è solo la presenza della giovane protagonista, impegnata a trovare se stessa in una Roma assolata ed afosa, e neppure la constatazione di un'attenzione allo spazio urbano - del quartiere Eur dove il film è ambientato - che le appartiene geneticamente, essendo la figlia di uno dei più grandi architetti italiani - ma piuttosto la costruzione di una vicenda che solo apparentemente si sviluppa all'interno delle strutture narrative classiche, con un inizio ed una fine a certificare il completamento di un iter psicologico e materiale (alla fine del film Nina non sarà più quella di prima, ed insieme a lei neanche le persone che ha incontrato nel corso degli eventi) e che invece si affida ad un mosaico di immagini e di circostanze che appartengono ad una dimensione da "settimana enigmistica" - che il film riproduce nel meccanismo della parola da indovinare attraverso le lettere dell'alfabeto che Nina trascrive durante le sedute con un sedicente professore di lingua cinese, il paese dove la ragazza vuole trasferirsi alla fine dell'estate - ed ancora ad un rebus vivente, con i personaggi disposti nello spazio scenico, ognuno dei quali a rappresentare non tanto un tipo umano ma il puzzle di una condizione esistenziale ricavabile dalla somma delle singole componenti. Ecco allora la scena del concerto musicale, con gli spettatori seduti sulle scalinate di marmo, con una disposizione che sembra coglierli in una sospensione da quadro di Magritte, e secondo una collocazione che lascia intuire una casualità ricercata e che forse è il segno di un linguaggio sconosciuto; oppure del podista che Nina incrocia durante le sue passeggiate, a suggerire il mistero sfuggente di una realtà indifferente alle domande che la ragazza le pone rispetto alla propria crisi esistenziale ed amorosa. Ed ancora la cifra metaforica degli altri personaggi: di Fabrizio, il musicista di cui forse Nina s'innamora, e di Ettore, il ragazzino che di tanto in tanto la affianca nei suo pellegrinaggi per le vie del quartiere. Persone con un gradiente di realtà che trascolora il più delle volte nella misura di una mancanza attribuibile all'amore che Nina non riesce più a sentire, o forse stenta a riconoscere per paura di non esserne all'altezza.

Elena Fuksas descrive una frammentazione dell'io - "prima di un grande inizio deve esserci caos" afferma la protagonista in una delle scene iniziali - con uno stile ellittico e frammentario, in cui ad essere in campo è una condizione di solitudine e di incomunicabilità che potrebbe assomigliare al "deserto" emotivo celebrato da un maestro come Michelangelo Antonioni, se non fosse che il tono surreale e stranulato dei tipi umani, a cui bisogna aggiungere Omero, il cane da pastore la cui presenza permette a Nina di rimanere in contatto con la realtà, e la stravaganza di molte sequenze - su tutte quelle girate all'interno dello studio del professore tuttologo interpretato da Ernesto Mathieux - avvicinano il film della regista ad un modello cinematografico altrettanto ambizioso come quello di Peter Greenaway. Dal regista inglese, citato espressamente nelle ripetute sequenze del maratoneta in cui Nina quotidianamente s'imbatte ("Giochi nell'acqua" 1998), la Fuksas preleva una composizione dell'inquadratura dominata da simmetrie lineari, e dalla costante ricerca di equilibrio tra figure umane e paesaggio architettonico, realizzato con prospettive frontali, espressione di un esistenza indecifrabile, oppure laterali, con l'esasperata profondità di campo ad indicare significati sfuggenti e misteriosi. Se i protagonisti di "Nina" sono degli alieni esistenziali, il quartiere romano ricreato dalla Fucksas è un'astronave spaziale popolata da immagini che rimandano costantemente alle gabbie mentali dei suoi argonauti, con la protagonista sovente inquadrata attraverso i vetri di un acquario che sembra contenerla, oppure per riflesso, nelle condizioni di cattività degli uccellini del negozio d'animali che Nina libera dalle gabbie in una sequenza ad alto tasso di catarsi. Una personalità di sguardo, quello della Fuksas, a cui fa difetto una certa inconsistenza, contrassegnata da una scrittura senza respiro, attenta al dettaglio ma non al quadro d'insieme, e con un passo narrativo composto da una serie di parti che faticano a diventare storia ed assomigliano ad aneddoti. Diane Fleri, bravissima nella parte di Nina, meriterebbe invece maggiori chance

(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, aprile 19, 2013

Festival di Cannes 2013, una selezione di grande bellezza


In un periodo di overdose distributiva, con film, soprattutto italiani, stipati a forza nelle sale ed obbligati a contendersi uno spettatore già distratto dai primi caldi primaverili, la  presentazione del cartellone ufficiale del festival di Cannes cade a fagiolo perchè riporta al centro della questione un fattore imprescindibile: la bellezza dei film. Una caratteristica che la selezione del direttore Thierry Frémaux ci tiene a mantenere, con una ricetta che ha come ingredienti principali l'arte, ma anche lo spettacolo. Un cinema, quello selezionato dal festival di Cannes, che pur con picchi di autorialità per pochi eletti, ha l'ardire di rivolgersi ad un pubblico eterogeneo, senza per venire meno alla qualità che da sempre è parte integrante della sua identità.
Solo per rimanere alla selezione ufficiale, e considerando che molte delle cose più belle si nascondono nelle sezioni collaterali - per esempio "The Bling Ring" di Sophia Coppola, un pò ridimensionata e collocata in quella di Un certain Reguard dove farà compagnia all'esordiente Valeria Golino ed al suo "Miele", ed al vincitore del Sundance 2013 "Fruitvale Station" di Ryan Coogler - troviamo tra i registi in gara, oltre allo stradominio della bandiera francese, presente con ben 4 rappresentanti- di Desplechine, Ozon, Keshische, Despallieres più qualcun'altro sotto mentire spoglie come quello della Bruni Tedeschi, una delle sorprese della selezione - il peso e l'importanza della compagine a stelle e strisce, con i Fratelli Cohen di "Inside Llewin Davis" incentrato sulle memorie di un celeberrimo folk singerJames Gray, attesissimo dopo la consacrazione ricevuta con "Two Lovers" e qui impegnato a dirigere la diva locale Marion Cotillard, Alexander Payne ("Nebraska") e Steven Doderbergh ("Behind the Candelabra" sulla vita del pianista Liberace) in odore di scandalo per l'amore omo tra Michael Douglas e Matt Damon, a tenere alto l'onore della patria. Fuori dalla grandi coalizioni ma non per questo meno agguerriti un gruppo di outsiders (sempre molto menzionati da queste parti) e poi le schegge impazzite come Only God Forgives, storia di violenza e corpi tumefatti con la coppia Nicolas Winding Refn/Ryan Gosling, Le Passe, dell'Asghar Farhadi di "Una separazione", "Venus in Fur"di Polanski, montato in fretta e furia per essere in gara, ed ultimo ma solamente in termini di scrittura, Paolo Sorrentino un habituè della croisette, quest'anno in lizza con "La grande bellezza", già ribattezzato "La dolce vità" del nuovo millennio. Dobbiamo aggiungere altro? Certo ci sarebbe da parlare ancora molto perchè questo articolo è solo l'aperitivo di un menù che si annuncia più ricco che mai, ma ogni cosa a suo tempo. Magari venendoci a leggere nel Journal quotidiano dedicato al festival in cui renderemo conto delle sensazioni e degli umori provenienti dalla vetrina cannense. Seguiteci e ne riparleremo.

No Oblivion for Christina's World


La tirannia di esperienze che non vogliono essere dimenticate. La dannazione di un corpo difettoso che reclama ogni istante. L'ambigua paura di perdere un eterno presente: Jack/Cruise, il futuro mai davvero compiuto; Christina, il passato mai davvero trascorso; Victoria/Riseborough, l'oggi espanso oltre il tempo. In mezzo, la tela di Wyeth. Nel '48 il pittore di Chadds Ford ritrae per la prima volta la poliomielitica Christina Olson a Cushig, nel Maine, e non smette più fino alla morte di lei, nel '68. Fermare la clessidra. Ricordare per vivere. Nel futuro, Jack sfida l'oblio violento indotto da una forza maligna. Nel passato, Christina rifiuta l'oblio e impone un tenace mondo interiore. Qui e ora, Victoria s'illude nel suo oblio anestetico e negando un'altra vita distrugge la sua...

giovedì, aprile 18, 2013

RazzaBastarda

RazzaBastarda
di Alessandro Gassman
con Alessandro Gassman, Giovanni Alzaldo, Manrico Gammarota, Matteo Taranto
Italia 2012
genere: drammatico
durata, 95'

"Razzabastarda" è già cinema ancor prima di girarlo. La sua genesi si nutre infatti di quella magia che appartiene ai sogni in celluloide, essendo il film di Alessandro Gassman la versione filmata di un testo teatrale, "Cuba and his Teddy Bear", strappato all'anonimato dall'intuito di Robert De Niro, che negli anni 80 decise di produrlo e di interpretarlo nei teatri off di Broadway, riscuotendo un insperato successo. Questioni d'intuito direbbe qualcuno, oppure di fortuna, se è vero che quella fu l'unica occasione in cui l'attore americano si prestò ad un'operazione del genere. Eppure il rapporto mancato tra un padre e un figlio, sullo sfondo di una periferia degradata e disumanizzata, ha non solo la forza di una tragedia shakespeariana per la consistenza violenta ed ancestrale di quel rapporto familiare, ma si adatta alla perfezione a un presente che anche in Italia è sempre più caratterizzato dal meticciato socio-culturale descritto a suo tempo dalla pièce di Reinaldo Podov.
Ambientato a Latina e girato prevalentemente in interni, "Razzabastarda" è la storia di un amore dimezzato dai condizionamenti del milieu delinquenziale ed ambiguo in cui si muovono Roman, pusher romeno ed analfabeta di origini gitane (da cui il titolo del film) e il figlio Nicu, adolescente prematuramente abbandonato dalla madre e in cerca della propria identità. Nella baraccopoli che costituisce la loro casa e funge da negozio per l'attività di gommista, Roman spaccia droga nella speranza di assicurare a Nicu un'esistenza diversa e migliore, e nel frattempo si occupa di lui soffocandolo con attenzioni incapaci di leggerne il disagio. Nel tentativo di contribuire al sodalizio, e all'insaputa del padre, Nicu si intromette negli affari del genitore con conseguenze imprevedibili e drammatiche.
Girato in un bianco e nero di una consistenza materica che sembra espellere dallo schermo la sporcizia morale e anche fisica di ambienti e personaggi, "Razzabastarda" esplode la sua rabbia in uno stile concitato e ferino che tende ad accumulare sensazioni e stati d'animo in una regia che non molla per un attimo gli attori; e una recitazione di stati d'animo tradotti da un attrito continuo di facce e di corpi che insieme costruiscono la rappresentazione di un mondo tribale e violento, applicato tanto agli immigrati romeni, ripresi in un sottobosco scandito da senso appartenenza - esemplare la scena in discoteca dove si sfiora la rissa fratricida per questioni di purezza di sangue - e desiderio di potere - il personaggio interpretato in maniera sorprendente da Matteo Taranto assomiglia a un padrino in salsa balcanica - che alla componente indigena, tra drogati, malavitosi e poco di buono, cristallizzati in un quadro di generale sopraffazione. Sdoppiato nel duplice ruolo d'attore e di regista, Alessandro Gassman se la cava egregiamente nel primo caso, accompagnato anche dalla bravura degli altri interpreti tra cui si segnala il promettente esordio di Giuseppe Ansaldo, mentre nel secondo dimostra di possedere un senso dello spettacolo che proietta il suo film dalle parti del cinema americano con una regia pragmatica, attenta al ritmo e concentrata su ciò che si vede - su tutti e tutto una fotografia espressionista giocata sulla prevalenza di ombre e chiaroscuri - in un modo che in tempi recenti avevamo già ammirato in "Acab". Meno efficace risulta invece il messaggio sociale, quello legato a una realtà di tipo pasoliniano, e contenuto in un'analisi del tessuto sociale che, in termini di resa testimoniale, rimane sacrificata alle esigenze di fruibilità e di azione. Un difetto che appartiene anche al cuore dell'opera, con il rapporto padre figlio un po' troppo a senso unico nella sua mancanza di sfumature. Ciononostante, il film è ben realizzato e non mancherà di trovare il suo pubblico.
(pubblicato su ondacinema.it)

mercoledì, aprile 17, 2013

OBLIVION

Oblivion
di Joseph Kosinski
con Tom Cruise, Morgan Freeman, Olga Kurylenko
Usa 2013
genere, fantascienza
durata

All'inzio fu una graphic novel realizzata da un regista a mo di appunto, talmente indaffarato da temere che l'idea prodigiosa si perdesse nei meandri di una quotidianità iper attiva. Poi, grazie al successo di altri lavori ed alla credibità conquistata il regista si accorse che quell'idea gli frullava ancora in testa e che forse era il caso di non perdere tempo e di realizzare "Oblivion". Il prtagonista dell'ennesima versione del sogno americano è il regista Joseph Kosinski promosso a pieni voti dopo il successo di "Tron:Legacy" sequel del capostipite del cinema elettronico capace di soddisfere cultori e botteghino.
Per realizzarlo, visto il costo e l'azzardo - il film si regge quasi interamente sulla presenza del protagonista principale - ci voleva un nume tutelare che scommettesse sull'impresa. Il risultato è stato Oblivion, diretto da Kosinski ed interpretato da una star che di copioni se ne intende, avendo nella sua oculata carriera sbagliato quasi nulla in termini di scelte. Il succo del film e quindi la necessità di realizzarlo sta nella visione di un mondo che non può fare a meno della sua umanità. Per quanto virale nel condannare la specie di appartenenza e quelle che con lui condividono il pianeta terrestre, l'essere umano e la sua socialità rimangono l'unica alternativa possibile ad una vitsa disumana. Per dimostrarlo Kosinski si inventa un mondo disabitato, fantasma di un impero che non esiste più e di una città ridotta al fantasma di se stessa. Una distesa di terra sconfinata attraversata dal drone di Jack Harper, una specie di Last Man Stand (in realtà c'è anche la compagna che però si rifiuta di mettere piede sul suolo terrestre) impegnato in una missione a termine: preservare quel che resta del mondo e delle sue risorse energetiche fino a quando non raggiungerà i propri simili stanziati su un altro pianeta. Un compito eseguito con metodica efficenza riparando i droni danneggiati dalla razza aliena che ha invaso la terra. Tutto procede per il meglio fino al giorno in cui dopo un drammatico ammaraggio Jack salva l'unica superstite di un equipaggio di una navicella terrestre. Da quel momento nulla sarà come prima.
Senza svelare le sorprese che si susseguono in maniera sin troppo generosa, iniziamo col dire che "Oblivion" è caratterizzanto da una disfunzione interna provocata da un'evidente dualismo: da una parte troviamo infatti un formalismo pressochè perfetto, che riguarda tanto gli spazi naturali, desolati e maestosi quanto le architetture e l'oggettistica dell'habitat di cui vive e si serve Jack (dalla casa sospesa nel cielo all'elicottero utilizzato per gli spostamenti), dall'altra ci sono invece gli arizigogoli di una trama che ogni tanto sembra perdere il filo, arrivando a malapena, e non sempre, a rendere conto del continui cambiamenti di prospettive che ogni volta azzerano le certezze fin li raggiunte. Per contro "Oblivion" è abile nell'organizzare una partitura drammaturgica in cui riesce a far convivere tre diversi movimenti. Il primo, quello preponderante è rappresentato dal tempo materializzato nel suo divenire e testimoniato dal sublime delle rovine dell'epoca che fu, ed emotivo, visualizzato negli inserti onirici che riguardano il passato di Jack. C'è poi il complesso della vita affettiva, che interessa non solo gli aspetti relazionali del protagonista nei confronti del duopolio femminile, ma anche il vagheggiamento dell'american Style of Life omaggiato dal rifugio edenico che Jack si costruisce in segreto nella landa di terra incontaminata dove si riposa ascoltando le canzoni dei Procolarum ed immaginando una vita normale; infine la tenzone militante e guerrafondaia, quella rappresentata dalla scontro tra umani ed alieni, di cui "Oblivion", alla pari di un capodopera come "Signs"(200") ma qualcuno potrebbe preferire l'accostamento con "Io sono leggenda" (2007) con Will Smith, riesce per lunghi tratti a fare a meno, privilegiando la suspence dell'ignoto e del sorprendente alla manifestazioni di potenza sciorinate dalla maggior parte del cinema blockbuster. Una scelta che deluderà i fan del cinema di fantascienza più spinto, quello risolto nello spargimento di sangue e di effetti speciali, ed invece quest'ultimo scorcio di cinema del futuro, pensiamo ad "Host" ma anche al prossimo "After Earth" questa volta con Shyamalan insieme a Will Smith  ci costringe a fare i conti con mondi rarefatti e spogli, il cui vuoto è riempito da un grande senso di solitudine (Oblivion ne è pieno) e da una palingenesi che ci invita a tornare ad uno "stato naturale". In questo senso "Oblivion" pur con i suoi momenti di retorica - la scena in cui Jack mima il lancio decisivo di una famosa partita di football tra i resti del vecchio stadio è veramente fastidiosa -  ed i difetti che abbiamo accennato riesce a far passare il messaggio con un intrattenimento di classe, che riesce a non perdere un colpo in fatto di ritmo e di performance attoriale, con Tom Cruise a proprio agio con un'interpretazioni di quelle che piacciono a lui, in cui l'abilità fisica conta quasi come quella espressiva. Per l'attore americano un altro passo verso la riabilitazione nel firmamento hollywoodiano. Aspettiamo di vedere come reagirà il pubblico americano prima di affermare la fine del periodo nero.

Film in sala da Giovedì 18 Aprile

TRENO DI NOTTE PER LISBONA
Night Train to Lisbon
di Bille August
con Jeremy Irons, Mélanie Laurent, Martina Gedeck, Bruno Ganz, Charlotte Rampling, Jack Huston
Drammatico 110 min - SUI/GER/POR 2013

PASSIONE SINISTRA
di Marco Ponti
con Alessandro Preziosi, Valentina Lodovini, Vinicio Marchioni, Geppi Cucciari
Commedia 91 min - ITA 2013

IL MINISTRO
L'éxercise de l'état
di Pierre Schoeller
con Olivier Gourmet, Michel Blanc, Zabou Breitman, Laurent Stocker, Sylvain Deblé, Arly Jover
Drammatico 115 min - FRA 2013

ATTACCO AL POTERE
Olympus has fallen
di Antoine Fuqua
con Gerard Butler, Aaron Eckhart, Melissa Leo, Radha Mitchell, Morgan Freeman, Ashley Judd
Azione 120 min - USA 2013

CHAVEZ - L'ULTIMO COMANDANTE
South of the Border
di Oliver Stone
Documentario 102 min - USA 2009

NELLA CASA
Dans la Maison
di François Ozon
con Fabrice Luchini, Ernst Umhauer, Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner
Thriller 105 min - FRA 2012

NINA
di Elisa Fuksas
con Diane Fleri, Andrea Bosca, Luigi Catani, Ernesto Mahieux
Drammatico 84 min - ITA 2012

RAZZA BASTARDA
di Alessandro Gassman
con Alessandro Gassman, Giovanni Anzaldo, Manrico Gammarota, Sergio Meogrossi
Drammatico 95 min - ITA 2012

SCARY MOVIE 5
Hypnotisoren
di Malcolm D. Lee
con Lindsay Lohan, Charles Sheen, Ashley Tisdale, Sarah Hyland, Kate Walsh
Commedia 85 min - USA 2013

SHEER
di Ruben Mazzoleni
con Michael Jefferson, Aaron Barcelo, Frances E. Koepenick, Rachel Brookner
Drammatico 91 min - USA 2012

BOMBER
di Paul Cotter
con Shane Taylor, Benjamin Whitrow, Eileen Nicholas, Sara Kessel
Commedia 84 min - GB 2009

SONO UN PIRATA, SONO UN SIGNORE
di Eduardo Tartaglia
con Giorgia Surina, Francesco Pannofino, Veronica Mazza, Eduardo Tartaglia, Maurizio Mattioli
Commedia 116 min - ITA 2013

martedì, aprile 16, 2013

NOI NON SIAMO COME JAMES BOND

Noi non siamo come James Bond
di Mario Balsamo e Guido Gabrielli
con Mario Balsamo, Guido Gabrielli, Daniela Bianchi
Italia 2013
genere, documentario
durata, 73'


Oramai ne siamo certi: in Italia esiste un nuovo tipo d'animale cinematografico, nato dalla necessità di superare i limiti imposti da una crisi che nel cinema deve fare i conti non solo con la mancanza di soldi, ma ancor più con il degrado culturale in cui versa il nostro paese.
Se non fosse così non si spiegherebbe un fenomeno come quello registrato dal film di Mario Balsamo e Guido Gabrielli, "Noi non siamo come James Bond" premiato all'ultima edizione del Torino Film Festival con una menzione speciale, e nonostante questo costretto ad inventarsi una distribuzione a macchia di leopardo, non diversa da quella di altre pellicole, e sono molte - citeremo per brevità due casi emblematici come "Il mundial dimenticato"(2012) ed ultimamente "The Summit" (2013) - impegnate ad affermare la propria esistenza potendo contare solamente sulle proprie qualità e sul passaparola del pubblico.

Un tipo di cinema condannato da un appeal commerciale extra circuito, in cui artigianalità e buone idee sono chiamate a supplire la mancanza di attori di richiamo ed un'adeguata campagna promozionale che per il film di Balsamo e Gabrielli è tanto più stridente se si pensa che Rai Cinema figura, seppur in compartecipazione, tra i distributori ufficiali del film.

Di certo, ed è un pregio, "Non non siamo come James Bond" appartiene alla categoria di quei film di difficile collocazione, perchè pur avendo le caratteristiche del documentario, con gli autori nella parte di se stessi, pronti a raccontarsi partendo dal paragone con il James Bond di Sean Connery, modello inarrivabile di un amicizia trentennale, riesce nell'impresa di imitare la finzione "mettendo in scena" quei ricordi alla maniera di un Buddy Movies involontario, con i protagonisti ripresi nel corso del viaggio che nelle intenzioni gli consentirà di conoscere il mitico interprete di 007.

Una missione difficile ma non impossibile per due tipi sopravvissuti alla condanna di una malattia definitiva e per questo allenati a non scoraggiarsi di fronte a nulla. Ed è proprio il fatto di non essere riconducibile ad un modello precostituito, di nutrirsi di una diversità che riesce a disfarsi di qualsiasi artificio per sovrapporsi alla vita, ad aumentare il fascino di un'opera che a dispetto dell'apparente semplicità è invece il risultato di una scrittura filmica attenta al dettaglio: nella composizione dell'immagine, determinata da un cromatismo capace di restituire le variazioni emotive che si accavallano nel corso della storia, e resa poetica da un utilizzo dello spazio che privilegia l'umanità dei personaggi con una collocazione capace di trasformare i limiti fisici in un plus valore di armonia e dignità (a testimoniarlo basterebbero le sequenze girate in riva al mare); nello sviluppo narrativo, frammentario e caratterizzato da una narrazione a maglie larghe, in cui il motivo principale rappresentato dal cammino di avvicinamento verso l'oggetto del desiderio si confonde, fino a perdersi, con le testimonianze di un vissuto in cui la malattia, seppure centrale nell'economia della vicenda, diventa lo spunto per affermare il superamento di un disagio (quello di non essere, come James Bond, all'altezza di qualsiasi situazione) affermato nelle battute iniziali del film, e poi lasciato indietro dalla consapevolezza di aver vinto la sfida più difficile.

Mario Balsamo, documentarista navigato, e Guido Gabrielli prestato al cinema per motivi contingenti, procedono per gradi. Inizialmente concentrandosi sull'affermazione del titolo, con lo smoking indossato per entrare nella "parte", emulando la compita eleganza dell'agente segreto, passando per il rendez vous con Daniela Bianchi, bond girl di "Dalla Russia con amore" (1963) nel quale emergono evidenti le prime avvisaglie di una discrepanza tra cinema e realtà (uno dei temi del film), progressivamente separati mediante una serie di telefonate di Balsamo all'attore scozzese, concluse da un finale a sorpresa, con la voce di Sean Connery che declinando una proposta di lavoro mai formulata, ribalta le posizioni di partenza, consegnando ai nostri eroi il primato di una dignità completamente ritrovata. 

E poi gradualmente, spostandosi verso un altrove emozionale, con le testimonianze ed i ricordi affidati alle parole dei due protagonisti, chiamate ad evocare i momenti più difficili, con un pudore totalmente estraneo ai patetismi da reality, e quelli esilaranti, e c'è ne sono molti, frutto di una dialettica che si avvale in buona parte delle peculiarità fisiognomiche e della mimica sghemba dei due autori. Balsamo in questo caso non si affida ad immagini di repertorio (una vera eccezione in questo tipo di operazioni) ma fa confluire quei trascorsi in un eterno presente, dove la circolarità di un racconto che procede parallelamente a quello della gita sulla spiaggia su cui il film ritorna e si conclude, riesce a far convivere due piani temporali diversi: quello della rimembranza, forte di una rarefazione che diventa concreta nel segno fisico dei corpi provati dal morbo, e quello dell'attualità, riassunta nel tuffo dei due amici su cui il film si congeda, assumendo connotati di una catarsi simbolica e definitiva. 

Espressione di individualità profondamente marcate "Noi non siamo come James Bond" è capace di diventare paradigma di un percorso di liberazione esistenziale in cui gioie e dolori sono le tappe di una guarigione che si completa nell'accettazione di se stessi. Un messaggio universale che il film di Balsamo e Gabrielli riesce a far passare senza alcun intellettualismo e con una freschezza che ricorda il cinema degli albori. 

Cercatelo nelle vostre città ed andatelo a vedere.
Non resterete delusi. 
(pubblicato su ondacinema.it)

lunedì, aprile 15, 2013

28esima edizione da Sodoma a Hollywood: TORINO GLBT Film Festival








CI VEDIAMO DOMANI

Ci vediamo domani
di Andrea Zaccariello
con Enrico Brignano, Burt Young, Francesca Inaudi
Italia 2013
genere: commedia
durata, 103'

Forse è una questione di formato ma il caso è ancora aperto. Soprattutto se paragonato ad illustri predecessori l'approdo al grande schermo di Enrico Brignano risulta ancora problematico. Rispetto a tutto questo "Ci vediamo domani" al di là delle facili battute sull'ennesima commedia che tenta di sfruttare la popolarità di un personaggio televisivo, bisogna dire che questo nuovo episodio della carriera cinematografica di Brignano mostra un tentativo di cambiamento in direzione di un cinema meno superficiale, certificato da una sceneggiatura scritta dal regista Andrea Zaccariello insieme a Paolo Rossi, che cerca di sorridere affrontando temi importanti come la morte e la vecchiaia. Argomenti che la storia del film si va a cercare attraverso le peripezie di Marcello Santilli, figlia a carico e moglie in naftalina, pronto a scommettere sull'attività di pompe funebri aperta in un paesino di ottuagenari con l'obiettivo di rimediare alle conseguenze di un tracollo finanziario. Una speculazione altamente vantaggiosa e maliziosamente calcolata se non fosse che gli arzilli vecchietti si rivelano sanissimi e per nulla intenzionati a rinunciare alla vita. Per Santilli è l'inizio di un incubo ma anche l'inizio della sua rinascita.
Costruito su un impianto prevedibile, con la situazione di partenza destinata a ribaltarsi al termine di una serie di episodi che sembrerebbero confermarla, "Ci vediamo domani" dopo un inizio giocato sulla maschera tragicomica del suo protagonista, messo in mezzo da un losco faccendiere - un Ricky Tognazzi in versione Man in Black - ed in fuga dalla consorte che gli chiede gli alimenti, cambia improvvisamente faccia trasferendosi nelle atmosfere più sfumate e nei ritmi rallentati del piccolo mondo antico dove si compierà l'educazione emotiva e esistenziale del protagonista.

Senza abbandonare del tutto la ricerca dell'aneddoto, soprattutto quando il film costruisce le peculiarità di una comunità immarcescibile e le conseguenze di un paradosso che finisce per demolire le credenze del protagonista - che finirà per ammalarsi al posto dei suoi clienti - "Ci vediamo domani" si allarga ad una professione di fede che riscopre (lambendo lo stereotipo) la saggezza della vecchiaia, e rilancia - in chiave laica - un ottimismo riassunto dal significato di un  titolo, quello del lungometraggio, che esorcizza la fine ipotecando il tempo che verrà. Intento lodevole che il film realizza con dialoghi scontati e pieni di parole, intercalati da monologhi dello stesso tenore che tolgono ritmo alla storia ed imbrigliano la verve di Brignano, regalandogli una parte da mattatore dimezzato. Un peccato mortale che nessuna commedia potrebbe sopportare, a cui bisogna si aggiunge la mancata brillantezza dei dialoghi, ricolmi di saggezza poco divertente, ed una sottotrama che all'insegna dell'amore e della famiglia organizza un finale a sorpresa, a cui il film si aggrappa per provare ad invertire uno swing un pò troppo monocorde. E se anche esiste un accenno all'(im)moralità dei nostri tempi, colta nell'associazione tra l'ambiente clericale in cui si muove il personaggio di Tognazzi e lo strozzinaggio che lo stesso mette in atto nei confronti del protagonista, la sensazione è quella di una contestualizzazione volta ad aumentare per contrasto la forza taumaturgica dell'altrove provinciale più che a denunciare il malcostume nazionale. Ed allora pur riconoscendo a Brignano una volontà di cambiamento non possiamo non registrare l'ennesima delusione per un artista che sta ancora cercando il suo film.

domenica, aprile 14, 2013

A proposito di: FIGHT CLUB, quattordicenne che fa domande (II)



"Fincher esprimeva qui un primo punto di vista eccentrico e lo faceva con chiarezza, senza enfasi, quasi con la rassegnata indifferenza di una consapevolezza tardiva che forse, col senno di poi ispessitosi in oltre un decennio, getta una qualche luce sul tono stizzito di taluni commenti apparsi sulla stampa, sulla generica accusa di "nichilismo" da parte di una società, la nostra, fortemente e volutamente nichilista: "l'insonnia di massa", l'apatia, l'aridita ' emotiva e in fondo la solitudine (vera patologia dei tempi), sono i tratti distintivi - anche se sempre rimossi dall'apparato rutilante dell'industria dell'informazione e dello spettacolo, dal moto apparente dei capitali e delle merci, dal benessere stratificato - del nostro vivere moderno. Un sistema talmente calibrato e compartimentato da escludere a priori ogni deriva ed ogni follia. Anzi, in grado di prevederle e riprodurle tutte, in un frustrante rimbalzare di promesse eternamente non mantenute ma sempre rinnovate, un gioco di specchi per cui guardarsi in genere vuol dire confermare l'immagine di se' nel mondo ma che talvolta può significare perdersi, ossia porre le uniche basi per una qualunque ipotesi di recupero. In questo senso "Fight Club" racconta ancora oggi qualcosa di tremendamente vicino alla nostra esperienza, qualcosa che non si fa mettere da parte dallo stratagemma per cui "si-sta-assistendo-solo-ad-un-film", come se tutto il resto per moltissimi versi già non lo sia... Le certezze su cui poggiano le vite degli uomini o almeno di quella parte di umanità che condivide la routine occidentale, formano alla apparenza un tessuto compatto e resistente (lavoro, solidità economica, famiglia, figli, oggetti, e su tutto una sistema sociale fatto di imperativi e rituali precisi), il cui scopo e' quello di restituire un'impressione di generica "completezza" (lo stesso protagonista sottolinea amaramente, dopo aver perso tutto nell'esplosione accidentale del suo appartamento, di essersi trovato sul punto di sentirsi "quasi completo": giacche costose, scarpe italiane, appartamento di proprietà, mobili minimalisti, arredi impersonali ma stilizzati, condimenti biologici et.). Quando le certezze cedono non resta che soccombere al dolore e allo smarrimento. O combatterli. L'oscuro impiegato trova il modo di lenire la disperazione guardando in faccia quella degli altri. Prendendo a seguire le riunioni di certi gruppi di sostegno per malati terminali, accade il miracolo: ritorna il sonno e la sua momentanea liberazione. Almeno fino a quando non irrompe sulla scena la figura stralunata, il caso umano insolente e pedante interpretato dalla Bonham-Carter, la cui "filosofia di vita si può riassumere brevemente: possiamo morire da un momento all'altro. Peccato che non succeda mai". Svanita la sensazione di autenticità derivante dalla prossimità con un dolore autentico la cui primitiva purezza e concretezza spezza la finzione quotidiana e l'inerzia, sporcato l'"incanto" dalla manipolazione e dal raggiro, tutto ripiomba nel prevedibile, nell'artefatto. Suona falso. Il sonno scompare di nuovo.

"Fight Club" a questo punto insinuava - e insinua ancora - un'altra verità poco piacevole: in un mondo in cui la felicita e' stata quantificata, monetizzata, venduta ogni giorno dalle pagine dei giornali, dai mass-media in genere, dai miraggi della pubblicità, persino istituzionalizzata (ricordiamo il "pursuit of happiness", parte integrante della carta costituzionale americana), solo attraverso la consapevolezza del dolore, del dolore fisico in particolare - tesi peraltro non nuova, sottolineata sul versante narrativo (Palahniuk) quanto in parte sovraesposta su quello filmico (Fincher) - si può contenere il dolore più grande di una vita gratuita e senza scopo. Proprio il contrario di ciò che un modello fondato sulla semplice accumulazione dei beni predica incessantemente da più di mezzo secolo ormai. Ed era proprio Brad Pitt (da poco al centro della scena, chiamato in causa dal protagonista al momento della perdita improvvisa di ogni avere) a sbattere in faccia al suo contraltare e a noi - con i suoi bei lineamenti di sano ragazzo americano da copertina, con la sua faccia da spot pubblicitario, ovvero col suo essere la quintessenza di quello stesso mondo che il film nel frattempo sta demolendo (altro sapido paradosso) - il pericoloso sarcasmo di frasi come: "Non ho paura della fine del mondo, della miseria, della morte. Io sono assediato dagli stili di vita, dalle facce che mi spiano ogni giorno dalle copertine dei settimanali (facce come la sua... ndr), dalla televisione con cinquecento canali, da un tizio che mette il suo nome sulle mie mutande. Devi ficcarti in testa che tu non sei gli oggetti che compri. Perché, alla fine, ciò che possiedi, ti possiede. Ti ossessiona...". E lentamente l'ossessione accompagna il film in una dimensione notturna, quasi onirica - caratterizzata da una pioggia battente, da una specie di umidità perenne che avvolge tutte le cose - all'interno della quale il primo scontro a mani nude tra i due (o meglio, tra le due parti della stessa personalità), sul piazzale deserto di un fetido bar, prende i toni di un rituale iniziatico, volto alla conquista permanente di quel dolore fisico tramite unico per poter sentire ancora pulsare la vita, invece che assistere da spettatore passivo alla sua recita anestetizzata. Siamo ad una sorta di torsione definitiva della coscienza che vuole essere attiva prima di una fine data sempre per imminente. Il gioco di sdoppiamento delle due figure principali tra cui oscilla sempre più smarrita quella femminile, segue le tappe della diffusione di questo nuovo virus all'interno del corpo sociale denominato "Fight Club". Norton/Pitt fonda il primo circolo, niente di più che un'accolita segreta di individui pronti a battersi non tanto per sconfiggere l'avversario ma per ridurre l'intimo senso d'inutilità, la frustrazione, il rancore che aleggia intorno ad un'esistenza insignificante. Le immagini dei combattimenti non lasciano nulla all'immaginazione (a tutt'oggi possono definirsi più che brutali) e il frequente soffermarsi delle inquadrature sulla maschera di sangue, pesta e gonfia, della faccia di Pitt - uno dei "belli" per antonomasia dell'immaginario mondiale - chiarisce l'intento di Fincher (e di Palahniuk) di svelare l'artificio e la malattia che corrode da dentro il sistema stesso di costruzione di questa mitologia della bellezza, frattaglia di lusso della "nuova carne" annunciata da Cronenberg in "Videodrome", (1983), leva per interessi colossali, oltre la quale si cela il vuoto degli stimoli, di fantasie che non siano indotte, la carenza del nostro stesso ideare moderno, incapace ormai di generare altro che non sia stato già prodotto e riprodotto, visto, rivisto, (pre)visto, quindi privo di contraddizioni, pacificato a priori, inefficace e in fondo consolatorio. Diventa così più facile comprendere - tenendo presente che stiamo parlando di un'opera tutt'altro che perfetta, di un film a volte squilibrato (soprattutto nella seconda parte), non privo di eccessi e semplificazioni, che paga il suo pedaggio ad una sorta di compiacimento "estetico" del truculento come ad una frenesia un po' confusionaria per l"assertivo" e l"esemplare"- l'ostilita ' di un pensiero, anche specialistico, placidamente adagiato su posizioni dal vago sapore "autoriale" o di mero intrattenimento, in realtà sotterraneamente contrariato dal sospetto che il mondo vero, quello "reale", si sia incamminato - e non da ora - su una china non dissimile da quella descritta nella "finzione" letterario-cinematografica. Come che sia, solo dopo un'ottantina di minuti il film si fa più spettacolare, quindi più debole. La setta segreta del "Fight Club" si espande a macchia d'olio in giro per gli Stati Uniti e si trasforma in un'organizzazione paramilitare di sabotatori anticapitalisti. Progressivamente il tipo umano interpretato da Norton capisce che qualcosa gli e' sfuggito di mano: scopre l'identificazione che gli adepti fanno tra la sua persona e quella di Pitt e si rende conto di aver dato via libera a quella parte di se' che il mondo ordinario non interpella mai, anzi tende a reprimere. La parte disincantata, amorale, insofferente alle discipline, unicamente e totalmente libera, la quale, per conservare la propria "pura" irresponsabilità non esita a distruggere. E distruggere vuol dire anzitutto eliminare - con un sinistro esercizio profetico, visti gli sviluppi della più attuale cronaca - i simboli della "libertà" e del "progresso" che sono anche i segni della costrizione e della gabbia sociale: i grandi grattacieli delle multinazionali, le banche, le sedi imponenti delle "corporations", le reti televisive. Tutto crolla rapidamente, inevitabilmente: sembra daccapo un sogno... Come il film stesso, in fondo, ne' più ne' meno che un viaggio dentro la nostra parte inconfessabile, sempre nascosta e temuta ma sempre al lavoro. Non a caso tutto si apre e si chiude su una pistola che esce di bocca e su un proiettile che perfora una mascella.
Il dolore ci riconsegna a noi stessi, tacita la parte oscura ma d'ora in poi niente sarà più lo stesso. Il mondo e' in frantumi: solo la condivisione può aiutarci a resistere (in tal senso va letta l'immagine finale di Norton e della Bonham-Carter mano nella mano). O forse no, diciamo adesso. La fine c'è già stata, l'apocalisse e' passata da un pezzo. Semplicemente, non ce ne siamo accorti, presi come eravamo/siamo dal flusso, dalla morbida euforia indotta dal passare da una scala mobile all'altra di questo immenso parco a tema che e' il volto/immagine del mondo, con tanto di catastrofe incorporata. Una catastrofe al giorno. Tante piccole catastrofi. E poi ricominciare. Ancora. Forse.

"Fight Club"

di: D. Fincher.
con: E. Norton, B. Pitt, H. Bonham-Carter
- USA 1999 -
135 min.


TFK