martedì, agosto 30, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: BEHEMOTH

Behemoth
di  Liang Zhao
Francia, Cina 2015
Genere, documentario
Durata, 95’

Behemoth, la bestia ingorda della civiltà contemporanea

Ha avuto un grande riscontro di critica e pubblico, lo scorso settembre in concorso alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ultimo documentario del regista cinese Liang Zhao, ora in programma in anteprima alla Fondazione Cineteca Italiano presso lo Spazio Oberdan a Milano.

Il documentario metafisico e filosofico, mette in scena la vita della miniera di carbone e ferro nella provincia della Mongolia interna della Cina, dove, lentamente, la popolazione dedita alla pastorizia, in mezzo a sterminate praterie verdi, deve ritirarsi per concedere spazio e la popolazione costretta a lavorare nella nuova industria mineraria o presso l’altoforno. L’obiettivo del governo è quello di costruire le cosiddette New Town che però restano dei fantasmi, dei falsi paradisi isolati, circondati da un vero e proprio inferno in Terra.
Zhao alterna campi lunghi e lunghissimi della distesa delle montagne sventrate dalle esplosioni, violentate dagli uomini e dagli autoveicoli pesanti che segnano il territorio, trasformandolo in un vero e proprio inferno di polvere, buio, fuoco e fiamme, con i primi piani (a volte primissimi) frontali di uomini e donne ridotti a morti viventi, anime perdute e nere di carbone, condannate a una fatica senza fine e senza scopo se non quello del purgatorio dell’ospedale e poi della morte. Milioni di persone si ammalano di malattie polmonari a causa dell’inquinamento dell’aria e centinaia di migliaia muoiono. Zhao sceglie una cifra stilistica poetica dantesca per narrare il disastro umano ed ecologico che intere popolazioni subiscono. Del resto la metafora biblica del mostro-demone Behemoth è chiara: la bestia ingorda che mangia e distrugge tutto, simbolo della società capitalistica e consumistica che colpisce in modo esponenziale un paese come la Cina. E non è un caso che i documentari di Zhao siano proibiti in Cina e girati con pochissimi mezzi e troupe ridotte all’essenziale (il film è stato diretto da Zhao, insieme a un operatore e un assistente).

In questo caso il cinema diventa altro da sé: non solo denuncia sociale, ma costruzione artistica che mette in scena il male del mondo, il male di una società che si auto divora e dove gli ultimi della terra sono puri corpi sacrificabili al dio della modernità apparente, pulita, ordinata, nuova. Zhao crea cinema di poesia dove la forza delle immagini è tutta nella messa in quadro del paesaggio infernale – sia essa la miniera oppure l’altoforno o ancora l’ospedale, dove i poveri operai finiscono per andare a morire, con i polmoni pieni di carbone e di residui di metallo fuso – con pochissime didascalie di frasi evocative che fanno da interpunzione all’immagine e al sonoro diegetico (il rumore delle esplosioni, quello dei camion o degli escavatori, quello dell’altoforno) e al silenzio degli uomini, senza più parola, senza più letteralmente fiato, non solo per parlare ma per respirare, in un anelito alla vita perduta. Il sonoro extradiegetico è dato da una litania lugubre che vuole ricordare il verso della Bestia che incombe sugli uomini, il verso di una civiltà distruttiva e ingorda, senza nessuna remora a cibarsi dei propri figli.


Zhao utilizza poi due sineddoche per illustrare i temi poetici della sua opera. Da un lato, abbiamo un uomo senza vesti raggomitolato a terra inquadrato di spalle in campo lungo, a significare la “nudità” della persona di fronte all’avanzare di Behemoth, all’arrivo della civiltà distruttrice e non salvifica: il corpo nudo è indifeso, solo, totalmente scoperto e schiacciato di fronte alla vastità della rovina in corso. Dall’altro lato, vediamo un altro uomo che porta sulle spalle uno specchio, simbolo dell’impossibilità di guardarsi dentro, di voltare le spalle, di trasparenza del proprio essere, ma anche peso del narcisismo modernista di fronte alla bellezza del creato perduto. Possiamo osare dire che Zhao compie un’operazione pasoliniana di rappresentazione della realtà dimenticata, dell’innocenza di una civiltà arcaica e intatta che viene distrutta dall’avanzare della modernità e il suo è un cinema di poesia con quei primi piani di uomini sporchi, sfatti dalla fatica del lavoro: la rappresentazione della disumanità della modernità e gli effetti sugli uomini. La scena finale mostra una città moderna, pulita, ma senza anima, senza umanità, palazzoni come solitarie cattedrali nel deserto, dove gli uomini sono scomparsi o ridotti a servi della “cosa”, al mantenimento del Behemoth che si ciba di corpi e anime.
Un film necessario, un’opera intensa che ci guarda e ci osserva e riflette (su) noi stessi, quello che siamo (diventati) e dove ci porterà tutto questo se non vi porremo rimedio in tempo. Ed è un peccato che alla Mostra di Venezia la giuria non si sia accorta della potenza iconica di questo grande film e non gli abbia concesso nessun premio che avrebbe potuto dare una maggiore risonanza a un’opera artistica di altissimo livello.
Antonio Pettierre
“Behemoth - Anteprima”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dal 1 al 7 settembre 2016http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/behemoth-un-film-visionario-dalla-parte-degli-ultimi/

lunedì, agosto 29, 2016

SELEZIONE ARTIFICIALE: INTERVISTA A FABIO FOSSATI E GIOVANNI GUALDONI

Che "Selezione artificiale" ci fosse piaciuto lo avevate già capito ma l'intervista che state per leggere oltre a confermare il nostro entusiasmo è anche l'occasione per conoscerne gli autori del cortometraggio e cioè il regista Fabio Fossati e lo sceneggiatore Giovanni Gualdoni. Di quello che ci hanno detto non abbiamo voluto perdere neanche una parola convinti che l'incrocio tra cinema, fumetto e fantascienza proposto dagli intervistati sia  più che mai attuale nel nostro panorama cinematografico. 



Il fatto di utilizzare il cinema di genere era una scelta che vi permetteva più di altre di valorizzare i temi della storia o la conseguenza di una predisposizione personale?
(FABIO FOSSATI). Spesso, l'utilizzo di una metafora è la soluzione migliore per raccontare la realtà e così facendo si ha inoltre la possibilità di comunicare un messaggio che diventa fruibile grazie a diverse chiavi di lettura. Detto ciò, però, devo confessare che se “Selezione Artificiale” è un film di fantascienza lo si deve soprattutto a Giovanni. All'inizio, quando ancora le idee nella mia testa erano in fase embrionale, avevo in mente una storia ben ancorata alla realtà. È stato proprio Giovanni a convincermi ad abbracciare il genere fantascientifico e dal momento che ne sono un grande fan, mi sono detto "come ho fatto a non pensarci prima io?".
(GIOVANNI GUALDONI). Penso un po' di entrambi. Quando sceneggio, che sia per il fumetto o per il cinema - settore a cui mi sto affacciando solo di recente - non immagino il risultato finale. Da scrittore faccio il mio lavoro e creo una storia che sia equilibrata, che dia emozioni, che trasmetta un messaggio. Poi lascio che siano coloro che devono trasformare le mie parole in immagini a decidere come farlo. Credo fortemente nel lavoro di squadra e nel fatto che la somma delle competenze dei singoli possa portare a risultati inaspettati. 


Da dove sorge la necessità di trattare una tematica sociale così attuale come quella del sovrappopolamento e l'idea di ovviare a essa in questo modo?
(F.F.). In realtà la tematica del sovrappopolamento è, almeno nella mia testa, solo una delle tante chiavi di lettura di questa storia. L'idea di questo corto, che solo successivamente ho sviluppato in chiave sci-fi insieme con Giovanni, mi è venuta quando mia moglie ed io abbiamo scoperto che saremmo diventati genitori. Questa nuova consapevolezza ha suscitato in me, oltre che ovvia felicità, anche moltissime riflessioni verso tutte le coppie o madri single che sono impossibilitate ad affrontare una condizione tale. Il più delle volte, a decidere per te è la situazione in cui ti trovi e non tu. Parlo delle cosiddette scelte obbligate. Non tutti hanno la fortuna di trovarsi in una condizione agiata o che perlomeno gli dia la possibilità di scegliere una strada piuttosto che un'altra. Non tutti hanno la possibilità di decidere della propria vita, figuriamoci della vita di qualcun altro. Soprattutto in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, dove i problemi del vivere quotidiano sono la precarietà e un futuro tutt'altro che limpido. Selezione Artificiale parte da questi presupposti e li distorce, li trasforma in chiave distopica e fantascientifica ma c'è molta realtà e quotidianità in questa storia. Per questo mi sta molto a cuore. Perchè in fondo è soprattutto una grossa dedica che faccio a mio figlio Leonardo. Si il personaggio di Massimo Poggio si chiama come mio figlio. Lui è il mio presente e il mio futuro e senza di lui Selezione Artificiale non esisterebbe nemmeno.


Il mondo di Leonardo e Sofia è grigio, scarno, quasi privato di emotività. La nascita di un figlio potrebbe farlo riaccendere o basterebbe anche solamente lo slancio “rivoluzionario" della coppia, al momento della loro fatidica scelta?
(G.G.). Sono da sempre un forte appassionato di fantascienza. Anzi, potrei definirmi un "bulimico" che divora romanzi, film, serie tivù e - persino - cortometraggi che pesco su internet. Delle tante facce che ha la fantascienza, la distopia è quella che più mi affascina. Quando Fabio mi ha proposto di scrivere una storia che parlasse del problema di una coppia ad avere un figlio ai giorni nostri, io gli ho proposto subito di ricollocarla in una realtà alternativa. Questo avrebbe reso più intrigante lo svolgimento, più sottile la metafora e, lo speriamo, più incisivo il messaggio. In realtà, per essere onesti, nel corto non si parla direttamente di sovrappopolamento, anche se, dai commenti raccolti, in molti ce l'hanno visto. Quello che abbiamo immaginato, per un'eventuale sviluppo del corto in un lungometraggio, è piuttosto un mondo dove sono le risorse che stanno terminando, dove il senso di umanità sta sbiadendo e dove, di conseguenza, si è arrivati a provvedimenti quali l'articolo 451, scontata - ma non troppo - citazione e omaggio al classico di Ray Brandbury "Fahrenheit 451".
 (F.F.). Nel mondo che ci siamo immaginati, quello popolato dai personaggi di Selezione Artificiale, gli slanci rivoluzionari contro il sistema, non importa di che natura siano, significano emarginazione, condanna. Quello dei due protagonisti è uno slancio emotivo che eleva l'uomo da un punto di vista umano ma che gli ritorna indietro come un pugno in pancia. È ciò di cui ti parlavo prima, la condizione che ti rende impossibile ogni scelta. E se vai contro questa condizione, lo fai a tuo rischio e pericolo. Spero anche che il finale del corto possa portare riflessioni nel pubblico, dal momento che si tratta di un finale aperto ad ogni possibile interpretazione. Adoro i finali alla Inception dove è il pubblico a dover scegliere una propria personalissima chiave di lettura, decidendo la sorte dei personaggi secondo il proprio esclusivo modo di vedere le cose.


La tua è una regia, che pur in un equilibrio generale delle varie componenti riesce a esaltare sia gli aspetti tecnici, e intendo in modo particolare la fotografia è il suono, che il lavoro degli attori, specialmente dei due protagonisti. (domanda rivolta al regista, ndr).
(F.F.). Visto che prima ti parlavo di metafore, provo ad utilizzarne una. Per me un film è come un piatto elaborato. Bisogna essere consci che gli ingredienti sono molti e cosa ancora più importante, bisogna rendersi conto che non basta saperli abbinare. È necessario che questi siano anche di buona se non ottima qualità. Altrimenti tutti gli sforzi per ottenere un buon prodotto finale saranno stati vani. Come in ogni piatto, però, è anche giusto far emergere maggiormente alcuni sapori mentre altri vengono percepiti in maniera più lieve. Sicuramente la sceneggiatura, la fotografia e il suono come anche le musiche e il lavoro attoriale hanno un peso estremamente importante per quello che è il mio gusto e il mio stile. Però cerco di non dare mai per scontati elementi come la scenografia, i costumi e la confezione in generale dell'opera. Ad esempio ho una cura maniacale della titolazione di coda e della sua veste grafica anche se so che poi siamo in pochissimi a guardare un film fino alla fine dei titoli. Quando vado al cinema, mi ritrovo sempre solo in sala quando compaiono i loghi di chiusura!. 

La tua scrittura e' abituata a tenere conto dell'immagine per cui ti volevo chiedere, se ci sono state, quali strategie hai messo a punto rispetto al dispositivo cinematografico. (domanda rivolta allo sceneggiatore, ndr).
(G.G.). Come sto scoprendo, e come forse la gente non immagina, scrivere fumetti, narrativa o cinema sono cose solo all'apparenza simili. Si tratta di universi paralleli che a volte si toccano ma, per lo più, funzionano con leggi fisiche tutte proprie. "Selezione Artificiale" è stato il mio primo corto e, anche se ora sto lavorando su altre pellicole, scriverlo è stata una sfida appassionante. Nel fumetto e in narrativa lo sceneggiatore dispone di molti trucchi per raccontare qualcosa. Trucchi che, sullo schermo, non funzionano oppure spettano ad altri, in primis al regista, ma anche al direttore della fotografia, al compositore, al montatore, agli attori, ecc. E' davvero un lavoro di concerto dove ogni strumento deve suonare bene da sè ma anche armonizzarsi con gli altri. E in questo ammetto che Fabio è stato un ottimo direttore d'orchestra. Sperando che il mio "trombone" non abbia stonato troppo. 


A proposito del suono nel film, e mi riferisco alla scena del protagonista alla fermata del bus, mi ha colpito il carattere marcatamente espressivo attraverso il quale lo spettatore entra nella testa del personaggio e nel trauma che ha appena subito. Mi puoi dire in che modo hai lavorato a questo aspetto del film? (domanda rivolta al regista, ndr).
(F.F.). È un'idea che ho avuto sin dall'inizio, mentre lavoravo ai piani di regia. Come ti ho detto, per me il suono è estremamente importante e sono assolutamente convinto che molte volte sia in grado di raccontare le situazioni anche meglio delle immagini stesse. Nulla togliere alla fotografia ovviamente, però spesso si da troppo poco peso all'importanza del suono e alla qualità di esso, sia tecnicamente che artisticamente e narrativamente. Se all'inizio del film lo spettatore riesce ad immedesimarsi in Leonardo, il protagonista, è quasi ed esclusivamente grazie all'utilizzo narrativo che si è fatto del suono. Così è anche per la scena in cui Sofia, seduta nella sala d'attesa della clinica, si estranea da tutto e da tutti. Il punto di vista e di ascolto dello spettatore è in continuo mutamento grazie all'utilizzo delle soggettive sia video che audio in questo caso. Se inizialmente lo spettatore vede e sente con gli occhi e le orecchie del personaggio stesso, successivamente c'è un brusco ribaltamento percettivo dove il punto di vista e di ascolto dello spettatore ritornano ad essere quelli di uno scrutatore esterno alla vicenda. Lavorare al suono di “Selezione Artificiale” è stato stimolante anche per via della bravura e meticolosità di Mirko Barbesino e grazie alla forte sintonia che ho con lui. Oltre ad essere fonico di post-produzione e sound engineer del film, Mirko ha anche composto le musiche originali del corto, il che ha sicuramente dato una marcia in più al carattere sonoro di “Selezione Artificiale”.

Affrontare un genere come quello fantascientifico, pur limitatamente ad alcuni aspetti, si rivela quasi sempre appannaggio di corto e lungometraggi indipendenti. E' stato difficile mettere mano ad un genere così poco praticato in Italia?
(G.G.). È una cosa su cui abbiamo riflettuto molto, sempre in funzione di poter espandere il corto o dargli un eventuale seguito che mostri meglio questa realtà alternativa che, nella nostra immaginazione, abbiamo comunque ben delineata. Nella nostra visione la 451 non è - ovviamente - l'unica cosa fuori legge. Anzi, di crimini contro la Società se ne possono commettere molti. Per tutti, però, e qui forse è la cosa che ci interessava esplorare meglio, la punizione è sempre la stessa. Qualcosa su cui i protagonisti si trovano a riflettere, dopo l'onda di emotività e positività della loro scelta, solo negli ultimi istanti del corto. E che è poi un invito a riflettere agli spettatori stessi relativamente a quanto le nostre vite siano ormai dipendenti dagli altri e su cosa ci accadrebbe se, all'improvviso, quel cordone ombelicale venisse reciso di netto.  
 (F.F.). Diciamo che scegliere la fantascienza come genere è molto rischioso, soprattutto per piccole produzioni come la nostra. Il rischio è sempre quello di "aver provato a fare la fantascienza ma senza esserci riusciti". Noi ovviamente lasciamo che sia il pubblico a dare l'ardua sentenza! Purtroppo il discorso relativo alle produzioni italiane è un discorso complesso. Si potrebbe sintetizzare dicendo appunto che si guadagna di più e più sicuramente con commedie demenziali e che l'alternativa risiede al massimo in commedie non demenziali e film d'autore. In realtà una delle ragioni per cui non si producono quasi più film di genere in Italia è perchè costa meno doppiare i film di genere che arrivano dall'estero. Non ho nulla contro il doppiaggio, anzi, penso che la maggior parte dei nostri attori migliori siano doppiatori e ben venga il doppiaggio se può far riempire le sale. Però e qui parlo anche da spettatore, mi piacerebbe che le produzioni italiane a volte avessero più coraggio. Dopotutto in Italia, anche se non lo sa nessuno, abbiamo alcuni dei migliori professionisti nel campo degli effetti speciali e della CGI. Come anche della fotografia. Tutta gente che lavora per produzioni statunitensi o comunque estere. Quindi gli elementi per confezionare qualcosa di diverso ci sarebbero in realtà.
(Interviene di nuovo lo sceneggiatore, ndr). (G.G.). Una delle contraddizioni della fantascienza in Italia è quella di possedere moltissimi fan, tra registi e sceneggiatori, ma pochissimi - se non alcuno - tra produttori disposti a investirci. La ragione, piuttosto ovvia, è che si tratta di un genere costoso da realizzare e che non assicura i ricavi delle commedie comiche. E quando anche si riesce a realizzarla con i limitati budget disponibili nel nostro paese, la concorrenza con i lungometraggi statunitensi non lascia scampo. Negli ultimi anni, però, qualcosa sta cambiando. Produzioni televisive europee hanno dimostrato che, con delle buone idee, si possono fare cose interessanti anche senza capitali stratosferici. Basti pensare alla serie britannica "Black Mirror", a quella svedese "Real Humans", alla francese "Trepalium" o all'iberica "El Ministerio del Tiempo". Il "trucco" è sempre lo stesso: non strafare! Utilizzare quanto si ha a disposizione per mettere in scena quanto di più credibile possibile. Che è poi più o meno ciò che abbiamo fatto noi. Non una saga ambientata "tanto tempo fa in una galassia lontana lontana", ma una storia comune in un mondo che potrebbe "quasi" essere il nostro. E per questo, forse, ancora più spaventoso.

Leonardo è un quasi eroe all'interno del racconto, si evolve nella narrazione e muta radicalmente, pronto ad affrontare le conseguenze delle sue scelte contro la società in cui vive. Quanto di “eroe bonelliano” c'è in “Selezione Artificiale” e nei suoi personaggi?
(G.G.). In realtà poco o nulla. I personaggi classici Bonelli, mi riferisco a Tex e Zagor ad esempio, nascono e restano immutabili nel tempo. Questa loro caratteristica è stata in buona misura una delle ragioni del loro successo. I lettori, a distanza di anni, ritrovano un amico che sentono di riconoscere. Nei film, anche se solo dei cortometraggi, il protagonista deve compiere quello che Vogler ha riassunto nel suo "Il viaggio dell'eroe". Deve nascere in un modo e come motore degli eventi evolversi e diventare appunto eroe della vicenda. Una cosa tanto facile da dire quanto difficile da mettere in pratica. Tanto più nella brevità di un cortometraggio. Noi, ovviamente, speriamo di esserci riusciti. Ma l'ultima parola è sempre quella dello spettatore.   
(F.F.). Come giustamente ha già detto Giovanni, di bonelliano o fumettistico in genere, nei personaggi di Selezione Artificiale non c'è nulla. Leonardo si potrebbe definire un eroe come tutti coloro che hanno il coraggio di riconoscere i propri limiti e superarli avendo anche un effetto positivo su chi gli sta vicino. Anche se penso che il vero eroismo di Leonardo sia quello di (ri)prendere coscienza della sua condizione di compagno nonché di futuro padre, accettarla nonostante gli venga imposto di non farlo e andare contro tutto e tutti pur di fare la cosa giusta per se stesso e per la sua famiglia.

Vi siete ispirati al racconto "Il marchio dell'invisibile" di Robert Silverberg? Quanto vi ha influenzato la letteratura distopica come quella di Ballard?
(F.F.). All'interno di “Selezione Artificiale” vi sono molte ispirazioni. Quella più sentita è sicuramente “Fahrenheit 451”, del quale facciamo una citazione più che evidente. Sono un fan della fantascienza ma devo ammettere che la cosa riguarda più che altro il grande schermo. La letteratura sci-fi, Fahrenheit 451 a parte, la seguo di meno perciò mi è anche più difficile trarne ispirazioni. È Giovanni l'esperto in questo caso!
(G.G.). Conosco il racconto di Silverberg, anche se, lo ammetto, senza averlo letto. Ho letto invece "Condominium" di Ballard e ammirato l'ottima trasposizione cinematografica di Wheatley, "High-Rise". Di nuovo, però, devo dire che le fonti d'ispirazioni a cui ho fatto riferimento sono altre. Il marchio sulla fronte è la versione moderna della lettera scarlatta che le donne considerate adultere dovevano indossare nella Nuova Inghilterra puritana del XVII secolo. Questo, unito al detto "la colpa ti si legge in faccia". Ma con anche un sottile richiamo ai numeri che i nazisti tatuavano sulle braccia dei prigionieri dei campi di sterminio. Inizialmente, infatti, il 451, che doveva essere un codice a barre, sarebbe dovuto stare sul braccio, ma poi ci è venuta l'idea di apporlo in fronte, così da risultare molto più scenografico e d'effetto. Per l'Italia distopica che fa da sfondo al corto, invece, i riferimenti sono molteplici, alcuni più "nobili", come "1984" di Orwell, altri più "ludici", come la trilogia young adult "Matched" di Ally Condie e della quadrilogia di "The Giver"di Lois Lowry. Ma anche a film come "Equilibrium" di Kurt Wimmer o al più recente "Equals" di Drake Doremus. Mondi dove l'individualità è stata sacrificata al prezzo - o, meglio, con il pretesto - della sicurezza collettiva. Forse una delle forme di dittatura più spregevoli, dove i prigionieri sono i carcerieri di se stessi.

Avete preso in considerazione altri lavori o avete apprezzato alcune pellicole dello stesso genere uscite, più o meno recentemente nelle sale italiane (ad esempio “Lo chiamavano Jeeg Robot” o “Index Zero”)?
(F.F.). Ho da sempre, come tutti del resto, dei punti di riferimento, registi o opere che ammiro e da cui prendo spunto. Se ci pensiamo bene è già stato pensato e creato tutto, in ogni settore, non solo nel cinema. Ciò che bisogna fare è prendere spunto da ciò che è già stato fatto e plasmarlo sotto una luce diversa che è solo nostra. Solo in questo modo riusciremo a creare qualcosa di nuovo. Voglio dire, una sedia è pur sempre una sedia ma in quanti modi è stata disegnata? Purtroppo non ho ancora avuto modo di vedere “Lo Chiamavano Jeeg Robot” ma spero di rimediare presto dal momento che mi incuriosisce molto!
(G.G.). Il corto, in realtà, ha avuto una gestazione piuttosto lungo. Il soggetto risale a circa 2 anni fa e all'epoca non conoscevo ancora Mainetti (se non come attore), che ho avuto il piacere di incontrare solo qualche mese fa, mentre di "Index Zero" mi hanno accennato qualcosa da pochissimo. Quest'ultimo, fra l'altro, mi pare non sia ancora stato distribuito. Il che, da quello che ho visto, mi spiace molto perché mi sembra davvero un gran bel lavoro. Quindi, no, i riferimenti per "Selezione Artificiale" affondano in produzioni più distanti nel tempo: prima tra tutte il già citato "THX 1138", passando per "La fuga di Logan" e arrivando a "Brasil". Il tutto, ovvio, con le dovute distanze tra quei capolavori e la nostra modesta storia. 

Quali sono i registi e le opere che più sentite vicino?  Penso a “Gattaca" di Andrew Niccol oppure a “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron vedendo il vostro film.
(F.F.). Sicuramente “Selezione Artificiale” rimanda a un genere ben preciso e l'associazione con opere che trattano lo stesso argomento viene quasi spontanea. “Gattaca" e I Figli Degli Uomini sono produzioni davvero molto grosse. Il nostro è un piccolo corto e speriamo che un giorno possa essere sviluppato in un lungometraggio. Mi lusinga molto che tu lo abbia messo a confronto con due esempi del genere. “Selezione Artificiale” deve sicuramente qualcosa a film come “THX 1138” o “Equilibrium" che a sua volta era già un rifacimento di “Fahrenheit 451”, se vogliamo. A dir la verità c'è anche una piccola citazione a “Terminator 2 Judgment Day”, anche se in maniera più che velata. Ecco, come Giovanni, anche io sono un fan delle opere più che degli autori. Se, però dovessi citarti dei nomi ti direi James Cameron, Christopher Nolan, Ridley Scott giusto per menzionarne qualcuno. Come opere invece mi sento di dirti “The Terminator” e “Terminator 2 Judgment Day” ovviamente, “The Matrix”, “Mad Max Fury Road”, “Alien”, “Aliens”, “Blade Runner”, “Inception”, “Interstellar”, la trilogia originale di “Star Wars” e alcuni esempi di cinecomics moderni dove la fantascienza ha decisamente un ruolo chiave anche se trattato con leggerezza come nei film Marvel o DC. “Guardians Of The Galaxy” e “Iron Man” sono un esempio. O dove la fantascienza non c'entra nulla come nella Dark Knight Trilogy.

(G.G.). Si tratta, ognuno per il suo verso, di due grandi film. "Gattaca", in particolare, ha influenzato moltissimi registi e sceneggiatori - me tra i tanti - mostrando un tipo di fantascienza elegante, anziché roboante. Impossibile, quindi, non amarlo. Riguardo "I figli degli uomini", sono combattuto. Come spettatore mi è sicuramente piaciuto, ma come sceneggiatore non mi ha dato quanto altre pellicole. Più che i registi o gli scrittori, infatti, io prediligo appassionarmi alle opere, a dispetto di chi le ha realizzate. Non credo infatti che, rarissimi casi a parte, qualcuno sia in grado di scrivere o dirigere sempre dei capolavori. O, al contrario, solo prodotti commerciali di bassa lega. Un esempio su tutti è Carpenter, regista di "La cosa" ma anche di "Fantasmi da Marte". Ma se dovessi fare qui un elenco di opere che sento vicino al mio gusto, sarebbe una lista infinita. Restando nel campo della distopia mi limito a citarne una, recente, che ho trovato davvero magnifica e che dimostra come si possano girare opere originali, taglienti e appassionanti senza la carta di credito di Lucas o il conto di banca di Spielberg. Parlo di "The Lobster" scritto e diretto da Yorgos Lanthimos, e ambientato in un mondo dove non si può essere single... pena la trasformazione in animali.
di Alessandro Sisti, Antonio Pettierre, Carlo Cerofolinii

domenica, agosto 28, 2016

sabato, agosto 27, 2016

SELEZIONE ARTIFICIALE

Ogni mese riceviamo molte segnalazioni da parte di giovani autori che ci chiedono di prendere visione dei loro lavori e se vogliamo di porli all'attenzione dei nostri lettori. E se molto spesso a mancare non è l'interesse verso queste opere bensì il tempo necessario per potersene occupare,  nel caso di "Selezione artificiale" di Fabio Fossati è stato impossibile non farlo, talmente buono è sembrato alla redazione la qualità del corto realizzato dal regista piemontese. Ecco quindi la nostra recensione a cui nei prossimi giorni seguirà la pubblicazione di una lunga intervista al regista e allo sceneggiatore Giovanni Gualdoni.
Carlo Cerofolini






Selezione Artificiale
di, Fabio Fossati
con: Massimo Poggio, Daniela Tusa, Carlotta Zucchetto
Italia, 2016 
genere, fantascientifico
durata, 13'



Sopravvivere psicologicamente ad una doppia rivelazione, come quella che avviene nella coppia composta dai due protagonisti di Selezione Artificiale, è assai difficoltoso e mostrare calma o impassibilità non è cosa da tutti, soprattutto se la propria sopravvivenza coniugale, oltreché individuale, all’interno della società in cui si vive, dipende direttamente da alcune condizioni appena entrate in crisi. La meraviglia della nascita di un figlio fa il paio con la tragedia di una prematura disoccupazione ed i due fattori si intersecano fino a rendersi inscindibili, lacerando il rapporto nel periodo possibilmente più florido dello stesso. Il mondo che orbita attorno a Leonardo e Sofia inizia ad incupirsi, le aspettative della donna iniziano a vacillare ed il definitivo crollo è dietro l’angolo, supportato dall’impossibilità sociale di essere ufficialmente riconosciuti come coppia in seguito ai due eventi occorsi. Al rientro in casa dell’uomo la concitazione del dialogo e l’incedere narrativo decollano, la collera prende lentamente il sopravvento sul sentimentalismo e la disgregazione affettiva appare ormai irrimediabile; l’uomo lascia alla propria compagna il compito di decidere sul da farsi, conscio del fatto che il mondo cinico in cui vivono si appresterà a masticarli e sputarli lontani da esso, in caso di decisione errata. 


L’insensibilità che li accoglie nella clinica in cui sono costretti a recarsi, accompagnati da una quasi robotica infermiera, permette ai due di aprire gli occhi sulla realtà: lo sprezzo generale della vita che si respira in quel luogo e i grotteschi pensieri che affollano la mente di una coppia a loro vicina non lasciano presagire nulla di positivo per il loro immediato futuro. La necessità del fantascientifico viene risolta a favore di una costante attenzione alle due direttrici tematiche affrontate, quella del sovrappopolamento – problematica non troppo futuristica e di imminente incombenza – e quella più diffusa della possibilità di crescere un pargolo in condizioni economiche precarie, in un gruppo sociale avido e freddo, i cui unici valori accettati sono legati alla moneta, bene di cui questa famiglia si vede ormai privata. 


Lo script di Gualdoni è affilato, perfettamente in grado di amalgamare realtà e finzione e sezionare la società moderna, clonandola in un suo doppio distopico e lasciandoci in balia di una eventualità che si ha timore possa divenire certezza. Le sequenze sono orchestrate con stile, la storia prosegue su binari non usuali sino al suo finale anti-consolatorio ed i due attori si dimostrano per quel che sono, professionisti affermati che hanno stoffa da vendere, perfettamente calati nei ruoli dei due combattivi coniugi pronti a sfidare una comunità decisa ad esiliarli dalle proprie cerchia, destituiti di ogni diritto civile e giuridico per il loro nuovo status quo genitoriale in condizioni di precariato e assediati da domande sul proprio futuro che troveranno risposta solamente dopo aver lasciato quella sala d’attesa, cullati unicamente dalla sicurezza che ognuno potrà contare sull’altro, senza bisogno di nulla ed eccezione di loro stessi. 

La selezione artificiale del corto può dirsi riuscita solamente in parte, poiché il sentimento universalmente più forte tra tutti sarà battagliero e foriero di vittorie, contrariamente al corto in sé, pienamente riuscito, in grado di camminare sulle proprie gambe – riuscendo a correre, in alcune sequenze -  e mostrando come un’idea forte, opportunamente supportata in fase tecnica, possa lasciar venir fuori una piccola perla. Capiranno il loro sbaglio e torneranno indietro, afferma il medico. Lo fanno sempre, continua. Quasi tutti almeno, conclude.
Alessandro Sisti

venerdì, agosto 26, 2016

ESCOBAR

Escobar
di, Andrea di Stefano
con, Josh Hutcherson, Benicio del Toro, Brady Corbet
Francia, Spagna, Belgio, Panama, 2014 -
genere, thriller
durata, 120'


Presentato al Festival internazionale del Film di Roma nel 2014 e da lì dissoltosi nel dimenticatoio distributivo sino a questa estate, quando la sempre oculata Good Films vi ha posto gli occhi sopra, Escobar è il ritratto dei mesti traffici a cui assiste lo spaurito Nick in un impero economico di natura utopistica con sede in Colombia. Il re del narcotraffico Pablo Escobar, presentato in modalità narrative differenti rispetto alla serie di successo targata Netflix Narcos, è per la popolazione locale il novello Robin Hood, un uomo che guadagna onestamente e ridistribuisce i proventi dei propri affari tra i compaesani più disagiati; Nick  si trasferisce in Colombia per lavorare insieme al fratello e scopre la meraviglia in quelle coste, conformi anche alla sua passione: il surf. Grazie a questo passatempo conosce Maria, una ragazza dolce e sensuale, che lo ammalia e lo trascina con sé alla scoperta della sua famiglia: Maria è la nipote di Pablo Escobar, l’uomo amato in patria e temuto al di fuori, dalla nomea che lo precede, il boss rischioso da contraddire o tradire. Nick si guadagnerà la fiducia del capo ed entrerà in punta di piedi nelle rigide cerchia familiari, comprendendo solo in seguito quanto ciò potrà essere deleterio per la propria esistenza. Andrea di Stefano, attore alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, si getta in un progetto corposo ed importante, dimostrando la propria dote d’audacia e spregiudicatezza, compensate da un piglio registico fermo e coadiuvato da uno stile sporco, in linea con i business trattati nella pellicola. Sotto la sua egida si riconferma attore di prim’ordine Benicio del Toro, nuovamente alle prese con un personaggio storico di caratura notevole, il quale infonde al suo Pablo Escobar un’umanità sconcertante nelle assemblee di piazza, quando viene in contatto con la gente che lo acclama a gran voce, e nei momenti di gaudio familiare, dove emergono i lati eminentemente positivi del suo carattere. 


La ferocia e le efferatezze di cui son colme le pagine storiche vengono occultate in pubblico, coperte da un sottile strato di finto perbenismo pronto a distaccarsi alla prima occasione nefasta, lasciando nuovamente visibili i segni delle violenze perpetrate ai danni degli sfiduciati. Nick crede di aver trovato il paradiso nel Sud America, ma è la stessa Maria a fargli notare come spesso gli stranieri scambino quella terra per l’Eden, celando la realtà sociale – amalgama di analfabetismo, povertà e violenza – dietro false effigi turistiche e lo stesso ragazzo commette questo errore valutativo due volte, credendo di  poter trovare convenienza nella costruzione di un rapporto con un personaggio enigmatico come Escobar. Il boss arriverà ad affidargli un compito delicato che muterà completamente i loro equilibri e lascerà nudo il personaggio vissuto da Del Toro – perché l’interpretazione è intensa, vissuta – mostrando al ragazzo il vero volto del re del narcotraffico colombiano. Se Josh Hutcherson, reduce dai giochi con Jennifer Lawrence, nell’interpretare il bravo ragazzo si trova a suo agio, senza tuttavia eccedere o strafare, è Del Toro il vero catalizzatore dell’attenzione, pur ritrovandosi costretto in un canovaccio in cui il suo personaggio risulta marginale rispetto alle direttrici principali della narrazione, unite nel tentativo riuscito di tratteggiare un’apparentemente potente storia d’amore sorta in un delicato momento storico. Tecnicamente ineccepibile, con una fotografia giustamente premiata a Roma ed un’incisiva e poco sfruttata colonna sonora, Escobar è il riuscito ritratto di un ragazzo divenuto uomo, pronto a cambiar vita ed abitudini per amore di una donna, vissuto nelle fila del più tremendo capo cartello della Colombia, costretto a nascondere il potere economico di cui dispone per il futuro della propria famiglia, nel periodo in cui le fondamenta del suo impero iniziavano a scricchiolare, pronte a deflagrare in pochi mesi, lasciandosi alle spalle un boato ancor’oggi udibile. 
Alessandro Sisti

giovedì, agosto 25, 2016

DIRITTO DI UCCIDERE

Diritto di uccidere
di Gavin Hood
con Helen Mirren, Aaron Paul, Alan Rickman
Gran Bretagna, 2015 
genere: drammatico
durata, 102


Il colonnello Powell guida a distanza una squadra di militari antiterrorismo nella cattura, in territorio keniota, di una cittadina inglese che ha rinnegato il proprio Paese per il fondamentalismo islamico di Al Shaabab. Quando l'esercito, servendosi di droni, scopre la verità sui piani dei terroristi, l'urgenza di fermarli con ogni mezzo diviene una priorità. Ai vertici, però, nessuno vuole prendersi la responsabilità di un attacco letale e dei suoi danni collaterali. Quasi una rappresentazione teatrale, in cui su un tema destinato a dividere vengono esposti i diversi punti di vista. I tre poteri dello stato, militare, giuridico e politico, si trovano a dover scegliere il male minore. Qualche innocente, in ogni caso, verrà danneggiato. Hood non fa sconti, esibendo cadaveri tra le macerie, senza morbosità, ma con il piglio verista di chi vuole ricostruire con la massima fedeltà una vicenda esemplare. Se Michael Bay ha scelto di concentrarsi sull'eroismo dei riservisti e sugli errori dei burocrati e Andrew Niccol sul dramma umano di chi gioca al videogame della guerra, uccidendo esseri umani in carne e ossa, a Gavin Hood interessa il dilemma morale. 

È cinema antico il suo, che della contemporaneità utilizza la moltiplicazione degli schermi e dei dispositivi o la prospettiva del drone; il resto è classicità pura, affidata a due interpreti straordinari. Helen Mirren sceglie di scaldare il cuore gelido del colonnello Powell, consapevole della crudeltà di alcune scelte, ma dedita esclusivamente al raggiungimento del proprio obiettivo. Alan Rickman, invece, nella sua ultima interpretazione, regala al generale Benson un assaggio della sua inconfondibile ironia british. Senza negare mai la propria funzione di film che si presta all'apertura di un dibattito, la pellicola riesce umilmente a rinverdire i fasti di una forma di cinema troppo spesso trascurata. Questo anacronistico film diventa caso di studio, erede de "La parola ai giurati" di Sidney Lumet o, per restare in tema bellico, di "Orizzonti di gloria" di Kubrick. È una meticolosa ricostruzione dei fatti, destinata a toccare dei punti sensibili: politici, comportamentali, etici e a rendere problematica una presa di posizione chiara che prescinda dalle ragioni dell'altra parte. Il fatto che la sensazione di imperdonabile indecisione di fronte al dubbio morale che attanaglia sia ribaltata dallo schermo allo spettatore è fortemente voluto. Tutti questi elementi, uniti alle interpretazioni impeccabili di Rickman e Helen Mirren, elevano "Il diritto di uccidere" al di sopra della mediocrità in cui rischia, colpevolmente, di finire relegato. L'unico difetto è rappresentato da un epilogo che mostra ciò che è superfluo, sbilanciando irreparabilmente l'equilibrio dialogico fin lì esemplare.
Riccardo Supino

mercoledì, agosto 24, 2016

IL CLAN

Il Clan
di, Pablo Trapero
con, Guillermo Francella, Peter Lanzani, Lili Popovich
Argentina, Spagna 2015 
genere, thriller 
durata, 108'


L’affollamento di casi cronachistici e vicende giudiziarie trasposte, spesso abilmente, su grande schermo non sembrano inficiare minimamente la progressiva e costante ricerca di originalità profusa nella loro realizzazione, impedendo difatti l’implosione e la concatenata atrofizzazione del genere. El Clan zigzaga a folle velocità tra i topoi e gli stantii stereotipi, li evita accuratamente e si ammanta di una freschezza stilistica inusuale, tipica delle produzioni latine del periodo contemporaneo. Il materiale di repertorio sul quale si basa l’intera vicenda fa da apripista ad un potente incipit che mostra il clan in medias res, la concitazione del momento resa nel frenetico susseguirsi di inquadrature a cambi focali alterni, una figura complessa e mai così magnetica di pater familias come protagonista quasi assoluto del narrato. Arquimedes Puccio monopolizza l’attenzione dello spettatore, calcola con lucida freddezza ogni mossa prima di agire e dimostra un’impassibilità degna dei peggiori villain. Guillermo Francella, attore di derivazione televisiva e di stampo prevalentemente comico, regala al proprio personaggio uno spessore unico ed un’interpretazione fieramente cinica, ergendosi a paladino della famiglia, orgoglioso nel proprio consolatorio ruolo di preservatore del nucleo domestico. Il clan è anche famiglia e l’azione non avviene mai in solitaria, le mansioni sono equamente suddivise, ogni membro è coscientemente o inavvertitamente succube e complice del patron, non ci si sottrae a tali imprese tanto facilmente e le conseguenze sono implicitamente già contenute nelle premesse. Il legame con il figlio, il membro maggiormente coinvolto nell’impresa di rapimenti eccellenti, sembra incrinarsi, il vincolo fiduciario viene a mancare per un breve lasso temporale e l’intero asset casalingo sembrerebbe avvertirne le ripercussioni, salvo poi riapparire più solido che in precedenza, fortificatosi nel finanziamento della modesta attività imprenditoriale filiare. Il nuovo impiego, tuttavia, non scalfisce neppure in minima parte la frequenza di tali operazioni, abilmente coreografate e corredate da un impianto musicale in grado di sottolineare con pressante impellenza il ritmo concitato delle scene. 

Il film si fa ritratto antropologico di un nucleo familiare fondato sull’illegalità, operante senza remora alcuna in acque intorbidite dalla mano di potenti la cui ombra si allunga sin sull’operato dei Puccio. La ricerca di inquadrature inusuali, spesso frutto di abili cambi focali giostrati in sede fotografica e opportunamente filtrati, rende il ritratto di tale spaccato microcosmico dell’Argentina dittatoriale necessario, valido nel suo procedere lentamente, con le sequenze scandite musicalmente e un’atmosfera pregna di un’ironia marcescente che imputridisce le migliori intenzioni del pater. L’oscurità dovrà dissiparsi e nel finale l’ormai decaduto appoggio politico causerà la definitiva deflagrazione dei Puccio, un’implosione sostanziale che riflette il progressivo disfacimento in cui stava versando il clan. I pesci piccoli soccombono tragicamente, i pesci grandi non sopravvivono ma boccheggiano. E alla grande.
Alessandro Sisti

lunedì, agosto 22, 2016

DAVID LYNCH, LA TRASCENDENZA VISIVA E L'IMMANENZA NARRATIVA


La Fondazione Cineteca Italiana programma una rassegna completa dei dieci lungometraggi del cineasta del Montana presso il cinema Oberdan di Milano dal 22 agosto al 7 settembre 2016.


Nato nel 1946, David Lynch oltre a essere uno dei più affermati e geniali registi e sceneggiatori della Settima arte è anche un pittore, scrittore e artista completo. Durante la sua giovinezza frequenta diversi corsi di arte e musica, dedicandosi a sperimentazioni e pittura materica e astratta (la Triennale di Milano gli dedicò una personale completa nel 2008, con il corredo di un bel catalogo), che hanno (avuto) una notevole influenza anche sulla sua concezione dell’immagine e delle opere cinematografiche e sperimentali da lui create. Dopo i corti a passo uno, composti da disegni e oggetti animati, Lynch passa alla realizzazione del suo primo lungometraggio Eraserhead – La mente che cancella (Eraserhead, 1977) che inizia nel 1971, con un budget di appena diecimila dollari, mentre frequenta i corsi del conservatorio dell'American Film Institute a Los Angeles. La lavorazione dura, tra diverse interruzioni per i più disparati motivi, fino al 1977, anno dell’uscita dell’opera, portando a periodi di estrema povertà che lo costrinsero a vivere per lunghi periodi sul set che aveva a disposizione per girare il film. Eraserhead è un’opera sperimentale sulla vita di una giovane coppia in una periferia industriale di una grande anonima città e di un concepimento di un bambino che si rivela un piccolo mostro. Metafora della difficile vita familiare che stava attraversando Lynch in quel periodo, il film rivela fin da subito il genio artistico del regista americano: tra allucinazioni psichedeliche, l’uso dell’immagine in modo straniante, la messa in scena statica e piena, l’inserto di intermezzi onirici e fantastici (come la piccola famiglia di mostri che vive nel termosifone della piccola stanza dei giovani sposi), Lynch racconta tutta l’anomia contemporanea della sua generazione, con uno sguardo pittorico e un uso della colonna musicale con suoni industriali o musiche contemporanee che si’innestano nel tessuto filmico, dando un respiro alle immagini che scorrono sullo schermo. Il viaggio di un marziano sulla terra, la visione stroboscopica di una mente senza confini pur relegandola a spazi fisici circoscritti ben delineati, ma senza limiti immaginativi né figurativi.


Proprio la visione del film convince Mel Brooks a produrre il successivo film e a farlo dirigere al nostro. The Elephant Man (1980) è ispirato alla vera storia di John Merrik, un uomo vissuto all’epoca Vittoriana, affetto da gravi malformazioni fisiche. Girato in un bianco e nero denso e materico (così come il film precedente), supportato da un’interpretazione inarrivabile di John Hurt, che sotto la maschera dell’uomo elefante ci regala una delle prove migliori della sua carriera, e da un misurato e controllatissimo Anthony Hopkins, nel ruolo del dottor Frederick Treves che prende in cura il povero malato, Lynch mette in scena un melodramma anomalo, pieno di umanità per la diversità, rendendo fisica la sensibilità di un animo nobile e d’artista in una società bigotta e reazionaria, dove lo status sociale era tutto. Il film ebbe un grande successo di pubblico regalando otto candidature ai premi Oscar di quell’anno, ma troppo ardito e anomalo per i membri dell’Academy per premiarlo all’alba degli anni 80 edonisti e dove impera la reaganomics, il concetto del massimo liberismo economico con la ricchezza diventata segno distintivo sociale e culturale.

Il successo lo porta dietro la macchina da presa a dirigere il suo unico film di fantascienza Dune (1984), tratto dalla serie i romanzi di Frank Herbert, con al centro le vicende intergalattiche di un pianeta coperto di sabbia. Forti contrasti con il produttore Dino De Laurentis producono un’opera non del tutto riuscita, ma comunque di grande fascino visivo, con lo scontro per il controllo della spezia, una droga che permette il viaggio interstellare, tra due potenti casate dell’impero galattico: i buoni Atreides e i cattivi Harkonnen. Lynch riesce a introdurre inserti visionari e illusori, gioca con immagini esteticamente poetiche, dove l’acqua, il fuoco, il dolore, la vendetta, l’amore sono alla base della narrazione visiva. Il mondo industriale degli Harkonnen e il contrasto tra tecnologia, magia, e scenografie dal gusto barocco e medioevale, danno all’opera un senso di unicità e originalità per un film di genere.


Non soddisfatto del film, Lynch ritorna a una produzione indipendente e dirige uno dei suoi capolavori, Velluto Blu (Blue Velvet, 1986), dove si ritrova Kyle MacLachlan, già protagonista di Dune, e appare per la prima volta Laura Dern (che diventerà una delle sue attrici predilette). Ma soprattutto si avvale della performance memorabile di Isabella Rossellini (all’epoca anche compagna di vita del regista) nella parte di una femme fatale, donna del boss Dennis Hopper. Lynch lavora su due livelli. Da un lato, rielabora i topoi del noir, utilizzando i colori con forti contrasti e tonalità e le icone del genere, tipizzando e realizzando una delle prime opere definibili “post-noir”(di cui un altro maestro è Quentin Tarantino); dall’altro, Velluto Blu compie una progettualità sinestetica, divenendo un’opera che coinvolge i cinque sensi: la vista (i colori, la ricerca di MacLachalan dietro le porte chiuse attraverso i fori); l’udito (il film inizia con il ritrovamento di un orecchio mozzato e con la macchina da presa che s’infila al suo interno); l’olfatto (Hopper deve respirare da una bombola di elio per eccitarsi e l’odore diviene un senso erotico-conoscitivo); il gusto (gli incontri nei locali tra MacLachlan e Dern davanti a coppe di gelato, i pranzi in famiglia); il tatto (in funzione sensoriale e sessuale con gli accoppiamenti tra MacLachlan e la Rossellini). I cinque sensi sono dunque i protagonisti, così come i dettagli, ciò che si nasconde sotto terra, sotto il velo felice della provincia americana (i bellissimi fiori e poi le formiche che lavorano alacremente intorno all’orecchio mozzato immerso nell’erba tagliata di fresco). Insomma, una rivoluzione di genere per un’opera che lo travalica e lo rifonda fin dalle sue radici, con un gusto dell’orrifico che si nasconde nei dettagli e negli improvvisi detour narrativi, con una messa in scena che cambia da idilliaca a funesta nel giro della stessa sequenza.


Nel 1990 Lynch lancia in televisione la seria Twin Peaks, creando un evento dall’impatto mondiale che lo rendono noto in tutto il mondo, ma è anche l’anno di Cuore selvaggio (Wild At Heart) che vince la Palma d’oro al Festival di Cannes. Tratto da un romando di Barry Gifford (che collaborerà alla sceneggiatura di Strade perdute), con protagonista ancora una volta Laura Dern e un Nicolas Cage molto in parte, la vicenda d’amore contrastato tra Sailor e Lula diventa un calembour visivo tra giallo, film giovanilistico on the road e fantastico con espliciti richiami alla favola del “Mago di Oz”, dove la strega cattiva è la madre di Lula, Marietta (una crudelissima Diane Ladd, vera madre di Laura Dern, in un cortocircuito metacinematografico). Cuore Selvaggio è opera che in nuce ha i temi visivi e psicologici che Lynch svilupperà al meglio nelle sue opere successive, con improvvisi scoppi di violenza, in un doppiogioco con lo spettatore, sia a livello visivo che narrativo, e inserti diegetici che creano mistero e non sempre hanno un collegamento diretto con lo sviluppo della fabula, ma donano una profondità trascendentale alla visione filmica.

Subito dopo, nel 1992, Lynch sente il bisogno di allargare e mettere in scena tutta una serie di materiale narrativo che completa la vicenda di Twin Peaks. Ecco allora che dirige Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk With Me), diviso in due parti sostanziali: il primo terzo del film ci sono agenti del FBI che indagano su uno strano omicidio di una ragazza e di scomparse di agenti, sezione fantastica e onirica, piena di scene enigmatiche; i secondi due terzi del film sono il prequel della vita di Laura Palmer con tutta una serie di spiegazioni degli eventi che portano alla serie televisiva, dove ancora una volta viene messa in scena il marcio che alligna nella profonda provincia americana. Il film finisce con la morte di Laura, lì dove inizia la serie televisiva. Opera un po’ caduca e disequilibrata, Lynch però la trasforma in un film tipicamente all’interno dei suoi stilemi: il sogno che diventa realtà e viceversa, il Male che si nasconde all’interno dell’uomo, le figure umane e animali che si trasformano in sineddoche metafisiche ed estetiche, l’utilizzo del colore con contrasti tra buio e luce, così come aveva già fatto in Velluto Blu e così come farà in Strade perdute, Mulholland Drive e Inland Empire.

Il successivo è un altro post-noir, quel Strade perdute (Lost Higway, 1997) appena citato, dove il detour psichico è completo: l’uomo che uccide la moglie e si trasforma in un giovane per compiere la vendetta completa, immerso in una vicenda con inversioni diegetiche e narrative che si ricollegano come un nastro di Moebius nel finale, con un’altra femme fatale notevole come Patricia Arquette e un Bill Pullman in una delle sue migliori interpretazioni. L’assassinio e la violenza diventano solo strumenti narrativi per mettere in scena un’opera psichedelica, notturna, dove il nastro dell’asfalto della strada diventa iconico dell’infinitezza della vicenda che si perpetua all’infinito su se stessa. 
Ma l’apice Lynch lo trova con Mulholland Drive (2001), dove il detour è completo e le tematiche accennate o messe in scena nelle opere precedenti trovano la loro maturità espressiva in una visione trascendentale in quest’opera metacinematografica di amori saffici nel mondo del Cinema hollywoodiano, tra sogni infranti e suicidi artistici. Vincitore del premio alla regia al Festival di Cannes, Mulholland Drive è la summa del post-noir trascendentale lynchiano, insuperato e insuperabile, opera geniale e di forte impatto visivo, con un controllo della messa in scena totale e una sceneggiatura scritta in modo che i tasselli del puzzle possano essere ricomposti nella mente dello spettatore che diviene protagonista della visione, dove tutto è finzione, dove tutto è registrato e dove tutto non è quello che sembra a una prima visione (come nella vita).

Tra questi due film, Lynch gira Una storia vera (The Straight Story, 1999) che solo in apparenza può apparire un’opera al di fuori del corpus lynchiano, ma nella realtà pienamente all’interno degli stilemi del suo cinema. 


La storia dell’anziano Alvin Straigth, che con un trattorino tosaerba compie un viaggio di quattrocento chilometri per rivedere il fratello malato, rientra in quella concezione del viaggio esistenziale e onirico tipico di David Lynch. Girato in ordine di montaggio, è un’opera lineare, dritta come un fuso, che fa da contrappunto agli altri film frattali del regista americano. “Un film che va visto come un’unica esperienza” afferma lo stesso Lynch. Un’ode all’amore fraterno, familiare, al ricordo, alla vecchiaia (il fantastico Richard Farnsworth, stuntman e caratterista, si suicida poco dopo all’età di ottant’anni, affetto da un grave tumore alle ossa). Infine, abbiamo Inland Empire (2006) opera monstre di Lynch, la sua ultima, che racchiude tutto il cinema del regista americano, in questa messa in scena di un film maledetto, con protagonista di nuovo Laura Dern, metacinematografia allo stato puro (forse un po’ troppo lungo nel minutaggio), dove riprende temi che aveva sviluppato al meglio e con più equilibrio in Mulholland Drive. In questi anni, Lynch si è dedicato alla pittura, alla tv, alla musica e soprattutto alla filosofia trascendentale (attua la meditazione due volte al giorno da trentadue anni), girando il mondo e tenendo conferenze, avendo di fatto abbandonato il cinema (speriamo però in un suo ritorno). Nel frattempo rimaniamo in attesa della nuova serie di Twin Peaks che Lynch lancerà in televisione il prossimo anno.
Antonio Pettierre


domenica, agosto 21, 2016

sabato, agosto 20, 2016

LOCARNO 69: INTERCHANGE

Interchange
di Dain Iskandar Said
con Shaheizy Sam, Nicholas Saputra, Prisia Nasution, Iedil Putra
Malesia/Indonesia, 2016
genere, thriller, fantasy
durata, 102'



Kuala Lumpur, giorni nostri. Siamo all'Eden, un locale dove delle drag queen si esibiscono tutte le sere in numeri canori, nei loro vestiti sgargianti e il loro trucco pesante e marcato. Una di loro alla fine dello spettacolo scopre il corpo di una donna mutilato. Sotto la pioggia scrosciante della notturna metropoli arriva il detective Man che si trova davanti a uno strano omicidio rituale.

È l'incipit folgorante di questa sorpresa in Piazza Grande al 69° Festival del Film a Locarno del regista (e scrittore) malese Dain Iskandar Said che ci trasporta in un thriller venato di fantastico, giocando con tutti gli stilemi del cinema di genere. Man chiede aiuto quasi subito all'amico Adam, fotografo della polizia scientifica e dotato di una spiccata sensibilità per le scene del crimine. Man si rende subito conto che l'omicidio è una replica di un altro accaduto cinque mesi prima e ci vede la mano di un serial killer. Adam è momentaneamente a riposo e si diletta a fotografare i vicini dei palazzi intorno al suo appartamento cercando di distrarsi da strani incubi che lo perseguitano. In questo modo conosce la strana Iva, una donna che sembra abbia un oscuro passato. Ben presto i due amici si trovano invischiati negli interessi di alcuni componenti di un'antica tribù del Borneo, resi immortali da fotografie scattate su lastre di vetro e con l'aiuto di un essere divino (un uccello che si trasforma in uomo) cercano di liberarsi da questa maledizione.




"Interchange" non è solo un semplice film di genere, ma ha due temi sotterranei che scorrono sotterranei tra i frame della pellicola. Il primo è il senso di (im)mortalità, come condizione (in)umana che viene trattata secondo la tradizione orale delle tribù locali, dove gli uccelli diventano esseri dal potere simbolico in un'ottica psicoanalitica-religiosa. Essi sono traghettatori verso un altro tempo, spazio, luogo. La trasformazione di questa divinità-uccello (una fenice oppure un uccello del paradiso) in uomo e viceversa, dà il senso drammaturgico del dolore di imprigionamento in uno stato improprio e innaturale. Del resto, le vittime degli omicidi in realtà sono dei suicidi: uccidendo il proprio corpo e rompendo le lastre fotografiche, liberano il loro spirito imprigionato in un'altra dimensione. Questo spazio altro, contemporaneo al proprio, concede un interesse narrativo che spinge verso il finale catartico e liberatorio per Adam, Iva (l'immortale di cui s'innamora) e dell'uomo-uccello. L'altro tema è metacinematografico: il potere della fotografia, dell'immagine, che si fissa su un supporto artificioso attraverso la luce che ruba l'anima a chi è fotografato (credenza di molte tribù all'inizio del XX secolo), fornisce, ancora una volta, un significante al potere del mezzo-cinema, del fermo-immagine come simbolo d'immortalità dell'arte che attraversa il tempo e lo spazio.



Iskandar Said (al suo terzo lungometraggio) cita a piene mani il cinema noir americano (Hawks e Wilder, nelle atmosfere, il poliziotto Man, la dark lady, i locali equivoci, i negozi che nascondono attività losche) e Hitchcock (in particolare, "La finestra sul cortile", nella sequenza di Adam che fotografa il vicinato, e "La donna che visse due volte", nello sviluppo del rapporto tra Adam e Iva), ma riesce con intelligenza a innestare la propria tradizione culturale magico-religiosa delle tribù del Borneo. Ed è interessante assistere a un mutante uccello (apparizione più unica che rara nel cinema) che ha un ruolo determinante nelle sequenze più spettacolari del film.

A conti fatti tutto il supporto tecnico è di buon livello, svelando una cinematografia che rientra ormai in quella Orientale che si rivela ogni anno sempre più interessante da seguire. Certo, il film pecca a volte di alcune ingenuità nella sceneggiatura (in certi dialoghi tra il poliziotto Man e gli altri personaggi) e in alcuni snodi narrativi, sciolti forse un po' troppo facilmente, ma "Interchange" rimane un'opera degna di nota e con molti spunti d'interesse formale e contenutistico.
Antonio Pettierre
(ondacinema.it /speciale 69 festival di Locarno)