Molto forte incredibilmente vicino” (Extremely Loud & Incredibily
Close” 2011) è il quarto lungometraggio del regista inglese Stephen
Daldry.
Delle gambe, delle scarpe, un corpo sfuggente, un viso, un’ombra negli
occhi. Senza enfasi alcuna, smussa senza titoli come un vuoto d’aria,
la discesa agli inferi di un animo innocente e di un padre in festa.
Né risale con noi, il volare leggero dei pezzi, come carta di nuvole
imbiancate, del titolo impresso nel mesto cielo.. “Molto forte
incredibilmente vicino”, tratto dal libro di Jonathan Safrab Foer
(quello di “Ogni cosa è illuminata” da cui è strato tratto l’omonimo
film), mostra una forza narrativa, seppur didascalica, decisa e
convincente; con senso di ricerca interiore, dove una bara vuota
rappresenta e ne simboleggia la recita intrinseca di un funerale
insoluto e di un pianto sconosciuto. Oskar, un bambino di nove anni,
che vive disperatamente senza padre dopo la sua morte nel ‘giorno più
brutto’, come dice spesso, l’11 settembre 2001, dentro alle Torri
Gemelle, cerca di sfuggire dal ricordo struggente che opprime ogni suo
gesto. E con la chiave della speranza di un passato cicatrizzato che
il bambino suona in ogni portone per carpire il sogno di un’apertura
agognata: quella della vita libera da ogni oppressione e stendardo
funereo. Un nome ‘black’ (un nerissimo giorno) che gli dà la forza di
ritrovare la vita dentro i messaggi in segreteria: la voce di suo
padre come una spada di Damocle dentro il forziere dell’erba ancora da
crescere. Quella voce ripetuta, costantemente, quel telefono mai
alzato e quel silenzio tombale tra i suoi sguardi futuri e le ceneri
volate di un corpo distrutto. Il film di Stephen Daldry si regge
(quasi) totalmente sulla prova encomiabile e pastosa di Oskar (Thomas
Horn) che riesce a reggere il racconto fino alla fine. E non è poco
per una storia dove i possibili personaggi potevano essere tanti
(oltre i genitori del bambino) come le segmentazioni: come il libro
d’origine facilmente poteva creare. La sceneggiatura di Eric Roth (già
autore di pellicole come “Forrest Gump”, “Alì”, “Insider”, “L’uomo che
sussurrava ai cavalli”) tende alla formalizzazione del contesto e a
scandagliare i rapporti di Oskar con un metro particolare. Il percorso
della madre a ritroso nella vita del figlio, la sola voce del padre,
l’incontro muto con Thomas Schell, le fugaci figure dietro ai portoni,
i silenzi e gli schermi tv, sono tutti proiettati nell’intimità
profonda di un bambino nascosto nei suoi pensieri con una bara (vuota)
accanto in modo permanente. Con i fantasmi che s’aggirano perennemente
attorno allo sguardo spaurito e compresso di Oskar.
Traspare nella regia un’emotività rigurgitante, un candore funereo,
una stoltezza umana inespressa: la retorica racconta se stessa quando
si schiude per lacerarsi il pulsare di una famiglia e lo snodarsi di
una vita. Lo sgretolarsi di un vuoto fisico che dischiude il gioioso
nucleo di ‘bella gente’, come amava salutare Thomas ad ogni rientro a
casa salutando sua moglie e il suo Oskar, scandisce il fagocitare
irrisolto di un oscuro, spettrale e merdoso ‘giorno più brutto’. Tutto
inacidisce, tutto si comprime, tutto in una voce: una mente felice e
smaniosa si spaventa di una ricerca ansiosa. Il lascito della chiave e
di un nome, Black, e i quattrocentosettantadue da visitare a New York
city per schiudere la serratura giusta ed avere una voce vera di suo
padre per meglio sognarlo e allontanare l’angustia impressa dentro. Un
uomo muto (Thomas Schell Sr.) che a Dresda ha lasciato la voce del
ricordo si insinua, con i suoi bigliettini pronti al dialogo, nel
sentiero numerico di Oskar. Un bambino virtuoso, mai domo, ingegnoso
di tutto, esperto del buon indizio si mescola con l’occhio lucido di
un vecchio ardimentoso. Bei i quadri disegnati dal regista in questo
vicinato rapporto tra tragedie lontane, immani e sedimentate in tempi
diversi. Mai colme e ricolme le ceneri di bare disperse e i fuochi di
bandiere ammainate. Oskar tra il 1945 e il 2001, tra morti
innumerevoli, cimiteri lontani, civili spenti e ardori in conflitto.
Un vegliardo ricompone il secolo di ieri ed un inizio scandito da un
orologio di morte. Dentro l’uomo e senza paracadute. Un volo
nell’abisso. Oskar trova qualcosa in quella chiave, arriva ad un
dialogo di vita mentre sua madre ricorda la voce del suo uomo. Una
retorica dimessa e guardinga si perpetua in questa pellicola
imperfetta ma ricca di significato, dove le ombre e i loro silenzi
nascondono verità inespresse.
Tom Hanks si ritaglia una parte minore (o per meglio dire meno
visibile) in un contesto narrativo dove la moglie (una bravissima
Sandra Bullock), il noleggiatore (un Max Von Sydow di grande classe)
fanno da contorno alla convincente interpretazione del bambino Oskar
(Thomas Horn), in uno stile desichiano, che rimane impressa nella
memoria visiva. La regia di Stephen Daldry tiene bene la storia; da
menzionare, infine, le musiche di Alexandre Desplat (che ha
collaborato all’ultimo Malick e Polanski) e la fotografia nascosta e
lucente di Chris Menges (da “Urla del silenzio”, “Le tre sepolture”
fino a The Reader” dello stesso regista).
Voto: 7 ½.
(recensione di loz10cetkind)
Close” 2011) è il quarto lungometraggio del regista inglese Stephen
Daldry.
Delle gambe, delle scarpe, un corpo sfuggente, un viso, un’ombra negli
occhi. Senza enfasi alcuna, smussa senza titoli come un vuoto d’aria,
la discesa agli inferi di un animo innocente e di un padre in festa.
Né risale con noi, il volare leggero dei pezzi, come carta di nuvole
imbiancate, del titolo impresso nel mesto cielo.. “Molto forte
incredibilmente vicino”, tratto dal libro di Jonathan Safrab Foer
(quello di “Ogni cosa è illuminata” da cui è strato tratto l’omonimo
film), mostra una forza narrativa, seppur didascalica, decisa e
convincente; con senso di ricerca interiore, dove una bara vuota
rappresenta e ne simboleggia la recita intrinseca di un funerale
insoluto e di un pianto sconosciuto. Oskar, un bambino di nove anni,
che vive disperatamente senza padre dopo la sua morte nel ‘giorno più
brutto’, come dice spesso, l’11 settembre 2001, dentro alle Torri
Gemelle, cerca di sfuggire dal ricordo struggente che opprime ogni suo
gesto. E con la chiave della speranza di un passato cicatrizzato che
il bambino suona in ogni portone per carpire il sogno di un’apertura
agognata: quella della vita libera da ogni oppressione e stendardo
funereo. Un nome ‘black’ (un nerissimo giorno) che gli dà la forza di
ritrovare la vita dentro i messaggi in segreteria: la voce di suo
padre come una spada di Damocle dentro il forziere dell’erba ancora da
crescere. Quella voce ripetuta, costantemente, quel telefono mai
alzato e quel silenzio tombale tra i suoi sguardi futuri e le ceneri
volate di un corpo distrutto. Il film di Stephen Daldry si regge
(quasi) totalmente sulla prova encomiabile e pastosa di Oskar (Thomas
Horn) che riesce a reggere il racconto fino alla fine. E non è poco
per una storia dove i possibili personaggi potevano essere tanti
(oltre i genitori del bambino) come le segmentazioni: come il libro
d’origine facilmente poteva creare. La sceneggiatura di Eric Roth (già
autore di pellicole come “Forrest Gump”, “Alì”, “Insider”, “L’uomo che
sussurrava ai cavalli”) tende alla formalizzazione del contesto e a
scandagliare i rapporti di Oskar con un metro particolare. Il percorso
della madre a ritroso nella vita del figlio, la sola voce del padre,
l’incontro muto con Thomas Schell, le fugaci figure dietro ai portoni,
i silenzi e gli schermi tv, sono tutti proiettati nell’intimità
profonda di un bambino nascosto nei suoi pensieri con una bara (vuota)
accanto in modo permanente. Con i fantasmi che s’aggirano perennemente
attorno allo sguardo spaurito e compresso di Oskar.
Traspare nella regia un’emotività rigurgitante, un candore funereo,
una stoltezza umana inespressa: la retorica racconta se stessa quando
si schiude per lacerarsi il pulsare di una famiglia e lo snodarsi di
una vita. Lo sgretolarsi di un vuoto fisico che dischiude il gioioso
nucleo di ‘bella gente’, come amava salutare Thomas ad ogni rientro a
casa salutando sua moglie e il suo Oskar, scandisce il fagocitare
irrisolto di un oscuro, spettrale e merdoso ‘giorno più brutto’. Tutto
inacidisce, tutto si comprime, tutto in una voce: una mente felice e
smaniosa si spaventa di una ricerca ansiosa. Il lascito della chiave e
di un nome, Black, e i quattrocentosettantadue da visitare a New York
city per schiudere la serratura giusta ed avere una voce vera di suo
padre per meglio sognarlo e allontanare l’angustia impressa dentro. Un
uomo muto (Thomas Schell Sr.) che a Dresda ha lasciato la voce del
ricordo si insinua, con i suoi bigliettini pronti al dialogo, nel
sentiero numerico di Oskar. Un bambino virtuoso, mai domo, ingegnoso
di tutto, esperto del buon indizio si mescola con l’occhio lucido di
un vecchio ardimentoso. Bei i quadri disegnati dal regista in questo
vicinato rapporto tra tragedie lontane, immani e sedimentate in tempi
diversi. Mai colme e ricolme le ceneri di bare disperse e i fuochi di
bandiere ammainate. Oskar tra il 1945 e il 2001, tra morti
innumerevoli, cimiteri lontani, civili spenti e ardori in conflitto.
Un vegliardo ricompone il secolo di ieri ed un inizio scandito da un
orologio di morte. Dentro l’uomo e senza paracadute. Un volo
nell’abisso. Oskar trova qualcosa in quella chiave, arriva ad un
dialogo di vita mentre sua madre ricorda la voce del suo uomo. Una
retorica dimessa e guardinga si perpetua in questa pellicola
imperfetta ma ricca di significato, dove le ombre e i loro silenzi
nascondono verità inespresse.
Tom Hanks si ritaglia una parte minore (o per meglio dire meno
visibile) in un contesto narrativo dove la moglie (una bravissima
Sandra Bullock), il noleggiatore (un Max Von Sydow di grande classe)
fanno da contorno alla convincente interpretazione del bambino Oskar
(Thomas Horn), in uno stile desichiano, che rimane impressa nella
memoria visiva. La regia di Stephen Daldry tiene bene la storia; da
menzionare, infine, le musiche di Alexandre Desplat (che ha
collaborato all’ultimo Malick e Polanski) e la fotografia nascosta e
lucente di Chris Menges (da “Urla del silenzio”, “Le tre sepolture”
fino a The Reader” dello stesso regista).
Voto: 7 ½.
(recensione di loz10cetkind)