domenica, ottobre 31, 2021

THE LAST DUEL

The Last Duel

di Ridley Scott

con Matt Damon, Adam Driver, Jodie Comer

USA, UK, 2021

genere: drammatico, storico

durata: 152’

Insieme a “House of Gucci” presto nelle sale, il maestro Ridley Scott ha pensato, alla sua veneranda età, di realizzare, quasi in parallelo anche un altro film. E il risultato è (stato) più che soddisfacente. “The Last Duel” racconta un fatto realmente accaduto verso la fine del 1300, più precisamente nel 1386. Ma potrebbe benissimo essere ambientato nel 2021 data la chiave moderna e la situazione non troppo lontana da quella odierna.

La storia è una, ma a intrecciarsi sono tre visioni della stessa che viene, così, sviscerata, durante tutta la narrazione che si suddivide in tre “capitoli”, coincidenti, appunto, con i tre punti di vista.

Ecco che conosciamo Jean de Carrouges, combattente di grande valore, ma al tempo stesso troppo incline alla rabbia che prende spesso il sopravvento. Oltre a lui c’è Jacques Le Gris, protetto del conte Pierre d’Alençon, parente diretto del re. Le Gris, abile combattente e persona colta, interessata all’arte e alle belle donne, è amico di Carrouge da sempre. Infine c’è la bella Marguerite, data in moglie a Carrouges che, così facendo ottiene il titolo di cavaliere. Quando anche Le Gris ha modo di vedere e conoscere Marguerite, il rapporto di amicizia tra i due si inasprisce e arriva al culmine quando la donna lo accusa di averle usato violenza. Per mettere le cose in chiaro e salvare l’onore della moglie Carrouges sfida a duello l’ex amico.

Una storia che, aiutata dai cartelli all’inizio di ogni capitolo, è raccontata per tre volte, ma nonostante ciò non annoia. Anche perché ogni volta ci sono delle novità. Ogni volta la storia prende una direzione diversa e si comprendono decisioni e affermazioni in base a delle sfumature che sono essenziali.

Una narrazione chiara che, attraverso una sceneggiatura divisa in tre parti, aiuta a comprendere ogni singolo istante e a entrare nella mente dei personaggi.

A differenza di altre narrazioni del genere, in questo caso, Scott fornisce la sua chiave di lettura. Ci dice chiaramente come stanno le cose. È vero che si intuisce la piega che prenderà il tutto dopo pochi istanti, ma il regista vuole comunque sottolineare la sua presa di posizione. E lo fa in due modi: sia attraverso l’ordine con il quale vengono raccontati i fatti e, di conseguenza, l’aggiunta dei dettagli che arrivano ad essere al completo solo al termine, sia ricorrendo alla didascalia.

Un film che mette in primo piano la figura femminile, interpretata da un’eccellente Jodie Comer, forse fin troppo all’avanguardia per l’epoca, ma sicuramente efficace per risvegliare anche animi contemporanei.

La violenza perpetrata e attorno alla quale ruota l’intero film non è solo la violenza subita in quegli istanti dalla donna, ma è una violenza che va oltre e che riguarda tutti i personaggi coinvolti nella storia, diretta sapientemente da Scott che cura tutto nei minimi dettagli. C’è violenza nelle parole utilizzate dai protagonisti in primis, ma anche dai personaggi secondari. C’è violenza negli atteggiamenti e nelle scelte. Una violenza dalla quale stare alla larga, adesso e sempre.

Oltre alla già citata Comer, convincono anche Matt Damon e Adam Driver, rispettivamente Jean de Carrouges e Jacques Le Gris, ma a emergere come personaggio “sopra le righe” è un irriconoscibile Ben Affleck nei panni del conte Pierre d’Alençon.


Veronica Ranocchi

sabato, ottobre 30, 2021

I'M YOUR MAN

I’m your man

di Maria Schrader

con Maren Eggert, Dan Stevens

Germania, 2021

genere: commedia

durata: 105’

Rappresenterà la Germania agli Oscar il nuovo film di Maria Schrader con protagonisti Maren Eggert e Dan Stevens, “I’m your man”.

Una nuova esplorazione del rapporto uomo-robot. Questo è il fulcro della storia che ruota intorno ad Alma, un'archeologa che lavora in un museo di Berlino, dedita solo ed esclusivamente al proprio lavoro, che accetta di aiutare una collega e si presta per collaudare in prima persona quello che è un androide-partner costruito su misura attorno al proprio padrone, in base ai desideri e alle richieste di quest’ultimo. Ecco, quindi, che entra in scena Tom, una macchina a tutti gli effetti, programmata per soddisfare Alma che, però, sembra non volerne sapere nulla di essere soddisfatta. Non cerca una relazione, non cerca conforto e non mostra né accetta sentimenti. Tom, al contrario, e trattandosi di una macchina, non comprende del tutto il comportamento schivo di Alma. Cerca di adattarsi, per quanto possibile alla propria “padrona-partner”, ma sembra che tutto quello che fa sia sbagliato, date le continue reazioni esasperate della protagonista. Riusciranno i due a trovare un punto di incontro e capire l’uno le esigenze dell’altro?

Sicuramente il confronto uomo-robot è un tema che si presta bene al mondo del cinema e, in generale, si presta anche a un approfondimento sotto vari aspetti. La settima arte ha già avuto ampiamente modo di svilupparlo, da “Ex Machina” a “Her”, il tentativo di sviscerare realtà e intelligenza artificiale è spesso all’ordine del giorno.

L’abilità della Schrader in “I’m your man” sta nell’aver cambiato i connotati classici di ciò. Non è la donna il robot, ma è colei che, in qualche modo “traina” l’azione. Alma non ne vuole sapere di impegnarsi o di lasciarsi trasportare da qualcosa che la distragga dal proprio lavoro e da quello che lei pensa sia il suo obiettivo primario.

L’analisi della “relazione” tra i due è interessante e mette l’accento sul rapporto della quotidianità con il progredire della tecnologia. Tom è davvero così distante da quello che oggi circonda noi ogni giorno? Sicuramente si tratta di un passaggio ancora superiore, ma non è così esageratamente lontano come poteva essere qualche anno fa.

E a questa riflessione la Schrader aggiunge anche dell’ironia, sempre pungente, che coinvolge sia l’essere umano che il robot.

Un’ambientazione, sia fisica che dal punto di vista di personaggi, un po’ asettica permette un maggiore coinvolgimento tra e con i due protagonisti. Il loro quotidiano si svolge entro le mura domestiche e in pochissimi altri luoghi che disegnano una Germania diversa dal solito e che punta sull’arte (anche grazie al lavoro della protagonista).

Menzioni doverose quelle agli attori. Se Maren Eggert crea un personaggio, solo all’apparenza, freddo con un continuo desiderio di capire, di scavare a fondo nella sua stessa mente, di interrogarsi su scelte, atteggiamenti e movimenti, Dan Stevens è forse la vera sorpresa. Con il suo praticamente perfetto tedesco riesce ad ammaliare e a dare dimostrazione della propria poliedricità e del suo non ancorarsi al classico “bello e buono”. I suoi movimenti che dovrebbero essere artificiali, in quanto robot, sono l’elemento comico e divertente dell’intero film.

Un film che aiuta a riflettere su tanti aspetti e che chissà che, sotto alcuni punti di vista, non si realizzi davvero.


Veronica Ranocchi

A CHIARA

A Chiara

di Jonas Carpignano

con Swamy Rotolo, Grecia Rotolo, Claudio Rotolo

Italia, 2021

genere: drammatico

durata: 121’

Finisce così la trilogia di Gioia Tauro d Jonas Carpignano. Con il suo “A Chiara” che con quella “a” vocativa sembra quasi essere una dedica. A chi lo ha seguito fin dall’inizio, con il primo film della trilogia, nonché primo lungometraggio in assoluto “Mediterranea”, al quale è succeduto “A Ciambra”.

“A Chiara” racconta la vita di Chiara, appunto, una giovane quindicenne che si trova in una fase particolare della vita: quella in cui vorrebbe sapere tutto, ma in cui non ottiene niente. È grande per stare dietro ai capricci, seppur minimi, della sorellina e per iniziare a fumare e a farsi considerare. Ma è piccola per sapere tutto della sua famiglia, per sapere tutti i segreti che si nascondono tra le mura di quella che lei ha sempre considerato la propria casa. Al diciottesimo compleanno della sorella Giulia, che coincide con l’apertura del film, Chiara fa capire allo spettatore di essere particolarmente legata al padre con il quale si sente sempre protetta. Ma, subito dopo la festa, nel momento in cui il padre fugge e non si fa più né trovare né vedere, Chiara inizia ad interrogarsi. Vuole sapere perché tutte le notizie dei tg parlano di suo padre come di un latitante, vuole sapere chi è veramente e vuole sapere come mai è stata tenuta all’oscuro di tutto. Ma le domande che fa sono troppe e troppo scomode. Per questo deciderà di cercare risposte da sola. Perché la sua caratteristica principale, oltre alla curiosità, è la tenacia e il fatto di non lasciarsi abbattere dalle difficoltà.

Un film che lascia tanto spazio a una ricerca della verità silenziosa. Soprattutto la prima parte del film, fatta eccezione per la festa e i rumori che essa si porta dietro, è prevalentemente muta, nel senso che la macchina da presa segue i personaggi e si lascia guidare da loro (e soprattutto da Chiara) senza dover dare o ricevere spiegazioni. È lo sguardo, quasi magnetico, della protagonista che, con quei profondi ed enormi occhi neri guarda la realtà che la circonda, cercando di scoprirla e svelarla a poco a poco.

Carpignano lascia la riflessione allo spettatore che cerca di indagare insieme alla stessa Chiara, costantemente dilaniata dalla scoperta e accettazione della verità e dall’amore per la propria famiglia. Lei sa, fin da subito, come stanno le cose e cosa è giusto e cosa no. Ma continua a sperare che non sia come lei pensa. Quando si trova di fronte alla cruda verità deve, prima di tutto capirla, e poi, una volta archiviata la “batosta”, accettarla e prendere la decisione giusta. Per il proprio bene e per quello delle persone che la circondano.

Oltre alla situazione che la circonda che rappresenta il fulcro dell’intero film premiato a Cannes, nella Quinzaine, a colpire particolarmente è il coraggio di Chiara. Un coraggio non scontato, soprattutto se si considera il fatto che ha solo 15 anni. Scopre una verità nascosta da chissà quanto tempo, si sente tradita da tutto e da tutti, da tutte le persone a cui lei voleva bene e nelle quali aveva riposto fiducia e inizia a interrogarsi. Fin da subito il suo comportamento e la sua reazione sono quelli di qualsiasi persona nella sua posizione. Pensa di poter affrontare la cosa “a muso duro”, ma la realtà intorno a lei le fa capire che non può permetterselo.

Lo sguardo sempre guardingo di Chiara, sottolineato dagli enormi occhi neri, già citati, è emblematico della situazione che lei vive. Si guarda attorno, aspettandosi, a ragione, che succeda chissà cosa da un momento all’altro. E, alla fine, posta di fronte a un bivio, è costretta a scegliere.

Una vera famiglia (Rotolo) anche nella realtà quella reclutata da Carpignano per il film che, quindi, per certi aspetti, non ha avuto difficoltà a rendere autentici e reali scambi di battute e situazioni all’ordine del giorno. La naturale confidenza di Chiara con la famiglia è la reale confidenza che Swamy Rotolo, interprete della giovane protagonista, ha con il resto della sua propria famiglia.

Una storia nella storia, insomma, quella raccontata dal regista italiano e statunitense che chiude in maniera efficace la sua trilogia.


Veronica Ranocchi

giovedì, ottobre 28, 2021

RON - UN AMICO FUORI PROGRAMMA

Ron -Un amico fuori programma

di Sarah Smith, Jean-Philippe Vine, Octavio E. Rodriguez

USA, 2021

genere: animazione, commedia

durata: 106’

Il nuovo film della 20th Century Fox, presentato come evento speciale ad Alice nella città, è un film d’animazione che fa riflettere sul quotidiano, sul presente, su ciò che ci circonda e, soprattutto, sull’amicizia.

Al centro di tutto c’è Barney, un ragazzino delle medie che pensa di non avere amici e di non essere in grado di crearseli. Soprattutto considerando che vive in una società dove tutti i suoi coetanei hanno un Bi*bot, cioè un dispositivo digitale in grado di incamerare le informazioni di base di ognuno, memorizzare i principali interessi e associarli con le persone nel raggio di un determinato spazio in modo da trovare qualcuno con gli stessi punti in comune con il quale fare amicizia. Barney, purtroppo, non ha tale dispositivo e sembra essere l’unico. Questo finché il padre, super indaffarato col lavoro, ma stufo di vedere il figlio perennemente solo e triste, e la stravagante nonna non decidono di regalargliene uno per il compleanno. Peccato che si tratti di un esemplare caduto dal mezzo che lo stava trasportando e, quindi, “fuori programma”. Ron non è come tutti gli altri, ma ha quel qualcosa in più che riuscirà a conquistare Barney. E anche ogni singolo spettatore.

Con una strizzata d’occhio al “Big Hero 6” della Disney, “Ron – Un amico fuori programma” vuole aiutare a far riflettere sulla società odierna. I Bi*bot altro non sono che i social network di cui ormai chiunque fa uso e abuso, soprattutto i più piccoli. L’insegnamento di Barney e Ron è quello che si può fare amicizia anche senza ricorrere a questi apparecchi perché la cosa importante è la parola e la relazione diretta con un’altra persona. Per diventare amici bisogna conoscersi e per farlo bisogna farsi coraggio e buttarsi. Ed è proprio questo che fa Barney, inizialmente angosciata dalla ricreazione, per la quale arriva addirittura a coniare un nuovo termine. Lui è il diverso e quello additato dai compagni solo per il fatto di non essersi omologato alla massa. È vero, lui è il diverso. Ma lo è in senso positivo. Tutti dovremmo essere diversi come lui perché è proprio la diversità la caratteristica che ci contraddistingue e che ci permette di essere noi stessi.

Interessante, soprattutto per il pubblico dei più piccoli, il continuo dibattito tra i due protagonisti. Ognuno cerca di far valere la propria idea e la propria opinione, ma sempre cercando di arrivare a un punto di incontro, in modo tale da poter convivere serenamente proprio come due amici.

E, oltre al classico tema dell’amicizia e della crescita, c’è anche, come detto, quello sempre più attuale del sopravvento della tecnologia e di qualcosa che probabilmente presto non saremo più in grado di controllare o di gestire. Una riflessione che, in questo modo, si espande anche al pubblico più grande, mettendolo di fronte a quello che potrebbe essere un futuro neanche troppo lontano e utopistico.

Divertenti e curiosi, poi, i vari e famigerati “Easter Eggs”, cioè tutti quei riferimenti ad altri film della stessa casa di produzione, ma non solo. Uno su tutti, oltre ai social, indirettamente citati per tutta la durata del lungometraggio, è quello a Steve Jobs e all’origine della sua geniale idea. Così come il grande informatico ha creato la Apple, allo stesso modo sono stati ideati i Bi*bot dal suo inventore. Con lo stesso sguardo sognante e la speranza di aver creato qualcosa di bello da poter utilizzare solo a fin di bene e per far sì che l’umanità intera progredisca, i due geniali inventori realizzano, invece, qualcosa che, purtroppo, come spesso accade, verrà modificato per altri scopi.

L’importante, però, è arrivare alla stessa e unica soluzione: l’amicizia vince su tutto.


Veronica Ranocchi

mercoledì, ottobre 27, 2021

YUNI

Yuni

di Kamila Andini

con Arawinda Kirana, Kevin Ardilova, Dimas Aditya

Indonesia, Singapore, Francia, Australia, 2021

genere: drammatico

durata: 95’

Tante emozioni in “Yuni”, in concorso alla Festa del cinema di Roma.

Yuni, oltre ad essere il titolo del film, è anche una ragazza indonesiana, protagonista della vicenda e di una vita per lei troppo stretta, con troppe restrizioni e regole ferree da seguire.

Un’adolescente brillante e intelligente che sogna di poter frequentare l’università, ma che, per farlo, deve “combattere” contro la propria famiglia e le usanze del proprio paese. Quando due uomini che lei nemmeno conosce la chiedono in moglie, la giovane rifiuta le proposte innescando una serie di chiacchiere e maldicenze tra tutti coloro che la incontrano. Anche perché secondo una leggenda, la donna che rifiuta tre proposte di matrimonio non si sposerà mai. E tutto si complica ancora di più nel momento in cui arriva un terzo pretendente a chiedere nuovamente la mano di Yuni.

Non ci è dato sapere, per tutta la durata del film, se la giovane sia preoccupata più per il fatto di non poter entrare all’università se non si comporta secondo i rigidi dettami del paese o se per i continui rifiuti che la porteranno, probabilmente, a non riuscire mai, nemmeno in futuro, a crearsi una famiglia. In alcuni momenti la scelta sembra orientarsi in una direzione, in altri nell’altra. E la giovane interprete è molto brava a far percepire questo contrasto interno che non può mai veramente esternare del tutto. Non ha nessuno con cui parlarne, non ha nessuno con cui confidarsi e a cui chiedere consiglio. È e vuole essere sola. O meglio libera. Per Yuni l’essere sola e non essere obbligata a instaurare legami e relazioni è sinonimo di libertà. La stessa libertà che la potrebbe portare, senza alcuna difficoltà, all’università, date le sue grandi doti intellettive. E sono proprio quelle che la fanno emergere rispetto agli altri, rispetto alle sue amiche, ai suoi compagni e ai suoi conoscenti. Nessuno può comprenderla completamente perché nessuno sa abbastanza. Fatta eccezione solo per Yoga, l’unico in grado di capirla e accettarla. Yoga è innamorato di lei da sempre, di un amore sincero e autentico, tanto da impedirgli di proferire parola in sua presenza. Ed è lo stesso amore che permetterà ai due di diventare sé stessi, lasciando da parte tutto il resto.

Anche se tutto ruota intorno alla questione del matrimonio combinato, sono in realtà molte di più le tematiche affrontate in questa bella storia di formazione, di adolescenza, di crescita e di accettazione.

E oltre a questo c’è tutta una serie di simbologie che, se analizzate attentamente, possono far andare oltre la semplice comprensione della storia. Uno su tutti l’uso del colore viola al quale Yuni ricorre continuamente, quasi come via di fuga a tutto quello che la circonda. Ne è ossessionata, tanto da vestirsi con qualche accessorio viola quando possibile, ma anche portandolo via ai suoi compagni e compagne in una sorta di raptus morboso, come se da quello dipendesse la sua intera esistenza.

Esistenza che è costantemente in bilico e che spetta al pubblico osservare e comprendere, fino all’ultimo istante con l’ultima decisione presa da Yuni. Una decisione che decide di condividere con il pubblico che, a sua volta, è “libero” di interpretare a proprio piacimento.

Cosa sceglie veramente Yuni? E la scelta che fa è quella più giusta?

Un’indicazione di quello che rappresenta veramente questa scelta la si può ritrovare nell’ottima costruzione della storia e, più precisamente, della sequenza iniziale e di quella finale. La prima che va dal particolare al generale e la seconda al contrario. Ma soprattutto lo spettatore entra nella vicenda attraverso il personaggio di Yuni che, una delle tante mattine, si prepara per uscire di casa e andare a scuola. La prima immagine che vediamo è quella di una ragazza che si sta vestendo in camera sua e che la macchina da presa segue attentamente, senza mai andarsene. La scena finale è, invece, il contrario e fa da contraltare, appunto, alla primissima immagine che ci permette di conoscere Yuni. Alla fine, infatti, la giovane si spoglia di tutto ciò che è superfluo, di tutto ciò che non appartiene alla Yuni che vuole essere, di tutto ciò che non la rende libera.

Una liberazione in tutti i sensi, mitigata anche dall’acqua, vista come fonte di salvezza.

Un viaggio tra le emozioni di un’adolescente e di un intero popolo. Un viaggio di formazione e di conoscenza. Un viaggio da fare.


Veronica Ranocchi

UNA PELICULA SOBRE PAREJAS

Una pelicula sobre parejas

di Natalia Cabral e Oriol Estrada

con Natalia Cabral e Oriol Estrada

Repubblica Domenicana, 2021

genere: commedia

durata: 88’

Una pellicola sulle coppie dentro una pellicola sulle coppie. La traduzione italiana del film domenicano potrebbe essere “semplicemente” questa. 

Natalia Cabral e Oriol Estrada sono i registi, gli interpreti e i personaggi di un film confezionato ad hoc per emergere per innovazione tra tutti i titoli in gara alla Festa del Cinema di Roma. Una visione nuova (anche se non troppa) di quella che è ormai la settima arte. I due sono una coppia di registi trentenni (nella vita come nel film) con una figlia piccola di nome Lia. Quando, dopo l’ennesimo tentativo di realizzare un film che possa essere apprezzato da un vasto pubblico, arriva loro la proposta di realizzare un documentario si mettono d’impegno per creare un lavoro degno del loro nome. Dibattono sull’argomento fino a che non arrivano alla decisione di orientarsi sull’amore di coppia, intervistandone diverse e cercando di scavare a fondo nelle relazioni con le quali entrano in contatto. Indirettamente, però, cominciano a scavare, o meglio riscavare, nella propria. Il documentario diventa, quindi, l’occasione per capire che tipo di coppia sono Natalia e Oriol. Che tipo di coppia sono realmente e che tipo di coppia sono cinematograficamente.

Leggerezza e ironia sono alla base del film che riesce nell’intento di divertire il pubblico e farlo uscire dalla bolla del “classico film serio e serioso” da festival. “Una pelicula sobre parejas” non si prende troppo sul serio, ma, al tempo stesso, considerando che “Arlecchino si confessò burlando”, forse è proprio questo suo non prendersi sul serio che fa riflettere ancora di più chi guarda il film.

E all’apparente leggerezza della genesi del film fa da contraltare una riflessione anche sulla tecnica. Ecco perché ci sono spesso lunghe inquadrature che indugiano sulla piccola Lia, quasi a voler simulare quelle eccessivamente descrittive che, talvolta, nulla portano alla narrazione in generale. Si alternano spesso, nell’intero film, inquadrature statiche, fisse, anche su dettagli insignificanti (emblematica e divertente, a tal proposito, è il battibecco che i due hanno sul ruolo del cactus all’interno del documentario). Ma, in realtà, sembrano quasi voler dire che le loro idee si stanno, in qualche modo, affievolendo e i due hanno bisogno della ricerca di una continua via di fuga. Per questo motivo cercano e trovano escamotage, come quello del cactus. Esso diventa importante a livello simbolico, ma non tematico.

Si potrebbe considerare “Una pelicula sobre parejas” un film nel film, in grado di far entrare lo spettatore dentro il cosiddetto “making of” della storia.

Menzione speciale, poi, per la citazione e il riferimento ai social. I due protagonisti, inizialmente, dibattono sulla realizzazione di questo documentario, interrogandosi sia sul che cosa sia sul come. Ed è proprio in quel frangente che vengono citati i social network più famosi e utilizzati, affermando che ormai le persone preferiscono guardare Instagram, TikTok, Facebook piuttosto che gustarsi un bel film.

Una bella lezione, insomma, quella di Natalia Cabral e Oriol Estrada che giocano tra di loro e con loro stessi, come il simpatico siparietto sull’ordine finale dei nomi che viene poi messo in pratica, in maniera super autoironica, al termine effettivo del film.

“Una pelicula sobre parejas” è una boccata d’aria tra impegno e eccessiva dimostrazione di serietà. Un modo alternativo per non prendersi sul serio e, contemporaneamente, riflettere.


Veronica Ranocchi

lunedì, ottobre 25, 2021

ANIMA BELLA

Anima bella

di Dario Albertini

con Madalina Maria Jekal, Luciano Miele, Paola Lavini

Italia, 2021

genere: drammatico

durata: 95’

Vincitrice del premio Rb Casting, Madalina Maria Jekal è la giovanissima interprete protagonista di “Anima bella”, il nuovo film di Dario Albertini che torna a raccontare una storia dal punto di vista dei più giovani e dei più piccoli, dopo “Manuel”.

Al centro c’è Gioia, neo diciottenne che vive in un piccolo borgo rurale del centro Italia. Benvoluta da tutti, fa quello che le piace e si occupa delle persone a lei care. Una su tutti è il padre con il quale vorrebbe condividere tutto, anche perché unico membro della famiglia. A mettersi in mezzo ai due, però, c’è il gioco. E tutto quello che questa “malattia” porta con sé. Gioia fa di tutto per aiutarlo, stargli accanto e riportarlo sulla retta via, ma non è così semplice. La giovanissima dovrà fare tutta una serie di sacrifici per poter stare al fianco del padre.

Una storia di formazione, nella più classica delle accezioni. Ma, a differenza di altre, è una formazione al contrario. Non è il padre ad aiutare Gioia a compiere i passi necessari per affrontare il mondo esterno e la vita adulta. Ma è Gioia stessa che deve crescere da sola e in fretta per essere il supporto e il sostegno di cui il padre ha bisogno. Nella scena iniziale viene mostrata la festa che celebra il suo diciottesimo compleanno e la protagonista appare quasi come una bambina. Con tutta l’ingenuità, la spensieratezza e la libertà che quest’età si porta dietro. Poi, improvvisamente, si ritrova obbligata a crescere prima degli altri, prima del tempo.

E l’abilità di Albertini sta proprio in questo: nel realizzare un film del genere mettendosi nei panni della protagonista. Perché “Anima bella” è raccontato proprio da Gioia. La giovane non è solo al centro della vicenda, ma sembra essere anche colei che dirige l’azione, in tutti i sensi. In alcuni punti anche la stessa macchina da presa è posta al livello della protagonista, non solo fisicamente. È come se Gioia aprisse il proprio cuore e si mostrasse completamente allo spettatore.

Tutto questo e tutta la situazione, in qualche modo, “ribaltata” è aiutata anche dalla decontestualizzazione, temporale e spaziale. Sappiamo, solo da alcuni piccoli elementi, che la storia è ambientata nel contemporaneo in una zona dell’Italia centrale, ma potrebbe essere ambientata in qualsiasi altro luogo o momento e avrebbe la stessa valenza, lo stesso significato. Quello che Dario Albertini vuole dare è proprio questo: un impianto universale alla storia di Gioia. E, oltre che universale, anche documentaristico, a tratti. Con lunghe inquadrature che si soffermano sui dettagli di un determinato luogo, quasi a scoprirlo, a poco a poco.

Sicuramente la speranza gioca un ruolo fondamentale nella narrazione, così come il credere in sé stessi e l’avere fiducia negli altri. Una fiducia che può essere confermata, ma che può anche venire meno. L’importante, come ci insegna “Anima bella” è non arrendersi e sapersi rialzare sempre. Gioia affronta la situazione che si trova davanti con l’inesperienza della giovane età, ma anche con la maturità di una persona che capisce di dover prendere in mano tutto e tutti. Chiede aiuto talvolta alle persone a lei più vicine che cercano di indirizzarla e darle qualche dritta, come nel caso del personaggio interpretato da Paola Lavini. Ma sa che poi, in fondo, dovrà cavarsela da sola. È una ragazza maturata fin troppo presto perché tutto dipende da lei.

Interessanti, dal punto di vista tecnico, sono alcune scelte registiche e alcune inquadrature con la predilezione di zoom o tagli più bruschi del solito, come a voler nascondere o mascherare alcuni momenti. E poi c’è anche la sequenza nella quale Gioia incontra il giovane ragazzo che la accompagna, alla ricerca del padre, in una sala giochi. Emblematica è la scelta della musica e del forte rumore che contrasta con il “silenzio” precedente. E questo mette in contrapposizione due mondi e due visioni contrapposte, quella della giovane protagonista e quello del padre.

Ultima, ma non meno importante, la scena finale a suggello di quanto raccontato in un’ora e mezza, è la vera e propria accettazione e consapevolezza di una fiducia tradita che solo il tempo saprà dire se sarà possibile ricucire.


Veronica Ranocchi

domenica, ottobre 24, 2021

La foto della settimana

 

 Suzanna Son/Strawberry in Red Rocket di Sean Baker (USA, 2021)

Invisibili: Dene Wos Guet Geit

Dene wos guet geit


di: Cyril Schäublin

con: Sarah Stauffer, Fidel Morf, Nikolai Bosshardt, Liliane Amaut, Daniel Bachmann

- Svi 2017 -

70’



Aspettati veleno dalle acque immobili

— W.Blake —


Capita talvolta, e per nessuna particolare ragione, di essere portati ad assecondare lo strisciante sgomento che accompagna - tipo basso continuo - lo svolgersi dei nostri giorni frenetici e immemori. E ciò magari anche perché quella lata deficienza di senso che da essi traspare, quella subdola impressione di generica inconsistenza divenuta nei decenni così familiare - a dire la rivelazione della di lei consustanzialità al modo di vivere moderno - sembra per beffardo contrasto essere paragonabile solo alla sicumera con cui essa per contro reitera gli stranoti ritornelli a base di affermazione e appagamento.

Siffatto sentore sovente precede e segue lo svolgersi delle scabre vicende contenute in un’opera come “Dene wos guet geit” (pure titolare di una intestazione anglosassone, complice la maggiore fruibilità della medesima, ossia “Those who are fine”), di Cybil Schäublin, ambientata nella Zurigo contemporanea e centrata, a mo’ di non esplicita epitome, sui comportamenti di Alice/Stauffer, giovane addetta di un call center incaricata, secondo protocollo, di magnificare le virtù di una compagnia assicuratrice in campo sanitario, invero molto più interessata a carpire dati utili (pare che in Svizzera, e per via telefonica, un sostanziale sconosciuto possa chiedere al suo interlocutore anche l’ammontare del conto corrente bancario…) a confezionare successivamente, a danno di una clientela scremata di preferenza sul profilo di anziani abbienti-e-soli, sostanziose truffe consistenti per lo più nel collaudato schema in base al quale fingersi in prima battuta parenti in difficoltà economiche per contingenze impreviste e spacciarsi poi, al momento della consegna del denaro, per amici stretti del suddetto congiunto, guarda caso sempre impossibilitato a presentarsi di persona. La citata prassi si alterna narrativamente ai concomitanti controlli preventivi operati per le vie della città dalle forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa, causa un non meglio specificato allarme-bomba.


Messa così, ovvero per sommi capi, parrebbe di essersi imbattuti nell’ennesimo intreccio complottistico con addentellati criminali. Al contrario, l’autrice spoglia, da subito e senza reticenze, la progressione drammatica - e, di conseguenza, torce l’impostazione espressiva - di ogni residualità ascrivibile al genere e si orienta verso la costruzione di inquadrature protratte e quasi statiche, di una qual sinistra soavità (giocate come sono sulla finta arrendevolezza di talune tinte pastello: i grigi tenui, i bruni spansi, i chiari opachi; sulle geometrie essenziali quanto fredde delle architetture; sulla funzionalità accessibile ma scostante degli arredamenti), preferibilmente caratterizzate da un punto di vista che sbircia dall’alto verso il basso, paziente, impassibile, un che di furtivo, tipo l’occhio di un entomologo su un terrario. Ne scaturisce una significativa riduzione - o, volendo, il parziale annullamento - ad esempio del peso semantico dei già scarni dialoghi, con metodo circoscritto alla linearità anodina di un pacato intercalare quotidiano o alla fraseologia asettica dei ruoli e delle finalità spicciole, secondo i tempi e i ritmi delle transazioni bagatellarie e materiali. Allo stesso tempo e in curiosa discordanza, le immagini si snodano con una sorta di impalpabile sbadataggine intimamente affine alla resa, come a suggerire la perfetta intercambiabilità degli istanti consumati da una realtà sempre uguale a sé stessa, capace cioè solo di riproporsi trascinandosi assorta entro le inerzie irresistibili di una enigmatica coalescenza: sottotraccia, sottopelle, indifferente, nella razionalità sfinita della logica costi-benefici a sua volta tenuta in circolo a temperatura costante dalla placenta mistico-allucinatoria del Denaro, che tutto sovrintende, preordina e giustifica. Alice, per l’appunto, si appropria dei risparmi di persone in evidente stato di minorità senza la minima remora ma pure senza palese, perverso compiacimento; le banche - qui, la potente UBS - regolano e controllano in levigata souplesse i flussi di risorse che alimentano il meccanismo mondiale della domanda e dell’offerta. Parimenti, le aziende di servizi telefonici contribuiscono allo spaccio capillare della immensa mole di merci di cui nessuno sente il bisogno eppure di cui nessuno riesce a fare a meno; l’Autorità - nel caso, la Polizia - vigila sull’ordine pubblico e ribadisce la legittimità apparente del cosiddetto Sistema ciarlando imperterrita, tra una verifica di routine e l’altra, di film d’azione passati in tv di recente, come della giungla tariffaria che avvolge in un viluppo inestricabile l’accesso alla Rete e al sottomondo dei cellulari. L’insieme, impietoso e concorde, rassegnato nell’apatia soporifera di una catastrofe (psicologica, morale, sociale: a quando quella ambientale ?) già avvenuta, con i pochi che se ne sono accorti a languire nell’emarginazione e nel dileggio, mentre si profila, sempre più netta e desolante, tra una blanda esitazione e un silenzio prolungato, l’impossibilità persino teorica di una alternativa, di un modo di vivere diverso da quello che, con la complicità di ognuno di noi, via via ha assunto le fattezze falsamente amichevoli di un destino, il destino di quelli che stanno bene.

TFK

PASSING

Passing

di Rebecca Hall

con Tessa Thompson, Ruth Negga, André Holland

USA, 2021

genere: drammatico

durata: 98’

Esordio bomba dietro la macchina da presa per l’attrice Rebecca Hall che con il suo “Passing” realizza uno dei film più riusciti dell’intero concorso della Festa del cinema di Roma.

Un film complesso nel senso di un titolo in grado di generare spunti di riflessione per ogni singola inquadratura, ricca di significati, simbolici e non.

La storia è quella di due donne nell’America degli anni ’20 che cercano di nascondere la propria vera e reale identità. Clare e Irene sono due donne di colore, amiche da giovanissime, ma poi perse di vista nel corso degli anni. Si ritrovano, casualmente, ormai sposate e con figli e iniziano a instaurare una sorta di rapporto di amicizia che si evolve continuamente con l’andare avanti della storia.

Mentre Irene vive, a detta sua, una vita serena e tranquilla con il proprio marito, anche lui di colore, e i due figli piccoli, Clare sembra essersi “incastrata” in una relazione con un uomo bianco che la chiama scherzosamente “negraccia” per il fatto che, con l’andare avanti del tempo, la pelle della donna tende a “scurirsi” (anche se in realtà lo è sempre stata e il marito ignora ciò, così come ignora di avere un figlio meticcio). Sembra, appunto, incastrata in una vita che lei solo inizialmente desiderava. Ma nel momento in cui rivede l’amica d’infanzia si riaccende in lei il desiderio di tornare a provare le stesse emozioni di un tempo, quelle emozioni che solo essendo veramente sé stessa può tornare a sentire e percepire.

Irene, dal canto suo, inizialmente restia a far entrare l’amica nella sua vita, col passare del tempo ne è quasi costretta e capisce, troppo tardi, che Clare, secondo lei, la sta privando di tutta una serie di aspetti che le appartengono, dall’entusiasmo, alle relazioni con gli altri e soprattutto col marito.

Vista così Clare può risultare quella che, comunemente, in una classica storia, chiameremmo antagonista. Ma è veramente così? È davvero Clare la cattiva?

Andiamo con ordine. Primo e interessantissimo aspetto, utilizzato nel migliore dei modi, è la scelta della Hall di ricorrere al bianco e nero per raccontare una storia del genere. Una storia dove i due colori sono in netta contrapposizione sotto tutti i punti di vista. Lo sono perché da sempre rappresentano due antipodi. Ma qui sono in netta contrapposizione perché vanno a indicare la differenza tra i vari personaggi e anche, se vogliamo, la differenza tra le due protagoniste. È vero che sono entrambe nere, ma lo sono in modo diverso. Una (Irene) lo è e sembra comportarsi in questo modo data la vita che conduce, anche se è colei che, più di tutti, si nasconde perché teme il giudizio degli altri e perché vuole cercare di apparire, agli occhi dei bianchi, in un modo diverso da quello che è veramente. L’altra (Clare) si comporta da bianca e si spaccia per tale (il matrimonio con bugia annessa ne è la chiara dimostrazione), ma, paradossalmente, non si nasconde, cammina a testa alta e cerca di trovare un punto di unione tra ciò che la circonda e, quindi, tornando al simbolismo dei colori iniziale, tra bianco e nero.

Dal punto di vista tematico, poi, si può spaziare dal “semplice” razzismo, all’accettazione di sé, alla paura e al giudizio degli altri.

Tornando, invece, al simbolismo sono tantissimi gli elementi degni di un’analisi approfondita e in grado di aprirne, a loro volta, ulteriori, come in una matrioska.

Uno su tutti la scala e la deliziosa inquadratura che ne è scaturita. Irene sale le scale, annaspando e inseguendo il marito e Clare che, al contrario, sono entusiasti e pieni di energia. E anche quando, poi, sul finire, Irene è costretta a scendere quelle stesse scale, la sensazione è la medesima: affaticamento, straniamento e vertigine. Il senso di cadere nel vuoto (non solo letterale, ma anche e soprattutto simbolico) è qualcosa che la protagonista riesce a trasmettere perfettamente avvalendosi anche dell’inquadratura ben congegnata.

Ma ci sono anche tanti elementi, gesti, oggetti. Atteggiamenti e situazioni che, fin dall’inizio, fanno presagire che qualcosa succederà e che quel qualcosa andrà in una determinata direzione. Il primo incontro delle due donne è emblematico a tal proposito: una la guarda imperterrita, l’altra si nasconde e fugge. Ma anche gli elementi che contraddistinguono le due protagoniste e il loro modo di vivere. Clare nasconde la verità al marito, ma è più sincera e autentica di Irene che, invece, pur non celando la propria vera natura, non accetta, per esempio, che il marito informi i figli sui terribili accadimenti che coinvolgono altre persone di colore e che riempiono la cronaca dell’epoca.

Interessante è anche la scelta dell’immagine iniziale e di quella finale con i colori (gli unici) che caratterizzano l’intero film.

Ultima, ma non meno importante immagine di “Passing” è quella relativa alla tragica sorte spettante a uno dei personaggi. La mancata accettazione della morte e la descrizione che Rebecca Hall ne fa sono forse il vero fiore all’occhiello del film che lascia spazio allo spettatore di immaginare come realmente sono accaduti i fatti. La mano fluttuante, il successivo e prolungato silenzio, l’incapacità di muoversi, di scendere e raggiungere gli altri cercando contatti umani dopo un avvenimento del genere sono sintomatici di tutto quello che lo spettatore ha avuto modo di vedere fino a quel momento. Ma possono anche essere intuiti grazie ad escamotage e piccole indicazioni disseminate lungo tutto il film.

Un esordio più che ottimo per quella che da attrice può già essere sulla strada di autrice vera e propria.

Deliziose le interpretazioni di Tessa Thompson e Ruth Negga per un film che passerà su Netflix e che forse non verrà apprezzato a dovere dal pubblico della piattaforma, ma che può regalare e regalarsi molto di più.


Veronica Ranocchi

venerdì, ottobre 22, 2021

ONE SECOND

One Second

di Zhang Yimou

con Zhang Yi, Liu Haocun, Fan Wei

Cina, 2021

genere: drammatico

durata: 104’

Un secondo è quello di cui ha bisogno il detenuto Zhang Jiusheng per tornare ad apprezzare la vita. Ma è anche quello che dovrebbe bastare a chiunque per sentirsi realizzato. Perché in un secondo si può capire se si può avere tutto o niente. Non solo possiamo avere e dare, ma possiamo anche essere privati di tutto. Sempre in un secondo.

Potrebbe essere questa una delle tante lezioni che Zhang Yimou dà con il suo “One second”, presentato in concorso alla Festa del cinema di Roma. Un film difficile da commentare per l’enorme quantità di significati, nascosti e non, di insegnamenti, tematiche e riferimenti. Un susseguirsi di immagini ed emozioni che si alternano in maniera efficace per tutta la durata della pellicola.

Non è tanto importante la storia in sé quanto tutto quello che essa si porta dietro.

Film in gran parte non parlato, almeno dai due protagonisti, riesce comunque a mostrare la stessa forza dirompente di un film con dialoghi impegnati. Ed è qui la vera maestria del regista cinese.

Zhang Jiusheng è un detenuto fuggito da un campo di lavoro forzato che, nella Cina della Rivoluzione Culturale, vuole semplicemente rivedere sua figlia. Per un secondo, all’interno del cinegiornale che viene proiettato prima del film che tutta la cittadina attende con impazienza. Fan è il miglior proiezionista in circolazione e ha il compito di far divertire, per tutta la durata di un film, i suoi spettatori, mostrando loro sul grande schermo, prima un breve cinegiornale, e dopo il film. Quando sembra che Zhang possa vedere senza problemi la figlia sullo schermo la pellicola del cinegiornale viene rubata dalla giovanissima orfana Liu. Tra i due ha vita un inseguimento continuo e quasi sempre silenzioso che li porta, poi, inevitabilmente, a instaurare una sorta di legame.

Lo spettatore si trova completamente spiazzato dalla narrazione che mette alla prova mostrando e dimostrando, ogni volta, che ogni personaggio può essere considerato il “buono”, ma anche il “cattivo”. Non c’è un vero e propria protagonista, così come non c’è un buono assoluto per il quale parteggiare. Zhang è un detenuto fuggitivo. Liu è una ladra. Nessuno dei due è il personaggio con il quale empatizzare immediatamente. Ma, con l’andare avanti della narrazione, si viene a scoprire che entrambi hanno le proprie buone ragioni per comportarsi in un determinato modo.

Un tuffo nel passato, ma anche nel presente perché “One second” racconta un periodo storico particolare, ma si lega molto anche al presente con riferimenti e metafore che sono un chiaro segnale del tempo che scorre.

Se da una parte c’è il deserto sconfinato simbolo di una libertà ormai da troppo tempo negata sia a Zhang che a Liu dall’altra parte c’è la condizione che entrambi vivono e che li accomuna. Nei loro difetti e nel loro egoismo riescono comunque a trovare un punto in comune, quel qualcosa che li fa percorrere un tratto di strada insieme e che li manterrà sempre, in qualche modo, uniti.

Sono comunque tante le tematiche che Zhang Yimou inserisce nel suo film e fa proprie con una delicatezza quasi unica. Dalla famiglia, a, come detto, l’attualità, arrivando passando per la vendetta e il riscatto umano.

Al centro, però, un amore sconfinato. C’è l’amore che il detenuto fuggitivo prova per la propria figlia per la quale è disposto veramente a tutto. C’è l’amore della piccola Liu per il fratellino. C’è l’”amore” tra i due che vedono nell’altro quello che non hanno (più). Zhang è il padre che Liu non ha mai conosciuto e Liu è la figlia che Zhang probabilmente non rivedrà più se non attraverso un fotogramma. E, ancora oltre, c’è l’amore per il cinema che il regista celebra e omaggia strizzando l’occhio a grandi nomi del passato. Da “Ladri di biciclette” a “Nuovo cinema paradiso”, anche “One Second” entra di diritto tra i film che omaggiano il grande schermo con una bellissima sequenza di recupero di una pellicola e un’altra che mostra, nei minimi particolari, il meccanismo che porta alla proiezione della stessa.

Un film che i cinefili apprezzeranno, ma che farà emozionare anche i “non addetti ai lavori”.

Un’immersione totale e completa nel cinema.


Veronica Ranocchi

mercoledì, ottobre 20, 2021

MOTHERING SUNDAY

Mothering Sunday

di Eva Husson

con Odessa Young, Josh O’Connor, Colin Firth

Gran Bretagna, 2021

genere: drammatico

durata: 110’

Una domenica molto particolare quella di Jane e Paul, amanti segreti e protagonisti di “Mothering Sunday” di Eva Husson, presentato alla Festa del cinema di Roma nella sezione “Tutti ne parlano”.

La storia, ambientata nell’Inghilterra 1924, vede al centro tre famiglie, unite sotto più punti di vista. Ci sono gli Sheringham, nobile famiglia della quale fa parte Paul, il giovane e unico figlio rimasto in vita alla coppia di genitori che attende le nozze con la giovane Emma. Ed ecco la seconda famiglia, quella di quest’ultima, giovane promessa in moglie a uno dei due fratelli di Paul, caduto in guerra, e, quindi, destinata a passare il resto della propria vita al fianco del gentile e premuroso protagonista che, con lei, condivide solo lo status sociale e nulla più. Infine ci sono i Niven, ricchi coniugi rimasti soli e senza figli, che hanno assunto la giovane orfana Jane Fairchild come domestica.

Durante una domenica di primavera, coincidente con la festa della mamma, Jane si accorda di nascosto con Paul per passare una giornata insieme, lontani dagli altri e vivere serenamente il loro amore proibito.

Peccato, però, che il destino abbia progetti particolari per i due amanti.

Il ricco cast di richiamo che vede, tra i vari nomi, Olivia Colman e Colin Firth, nei ruoli dei coniugi Niven, deve, in realtà, molto a Odessa Young e Josh O’Connor, rispettivamente Jane e Paul.

Un film che si ancora molto alle interpretazioni e alla fotografia, guidata da una regia (fin troppo) artistica. Attenzione fin troppo esagerata anche a un contesto che non aiuta e non si integra appieno con la narrazione.

“Mothering Sunday” è il “Downton Abbey” del 2021. Ambientazione temporale e spaziale praticamente identica. Avvenimenti praticamente identici. Personaggi che devono molto a quelli che tanti hanno conosciuto sul piccolo schermo grazie alla serie britannica.

A livello di tematiche sicuramente la perdita e l’elaborazione del lutto sono, dopo l’amore, quelle principali e funzionali allo sviluppo della vicenda. Ogni personaggio ha il proprio modo di vedere il mondo e la realtà dei fatti. Ognuno reagisce al distacco in maniera diversa. Ed è interessante apprezzarne le differenze, alcune quasi all’eccesso tanto da far pronunciare al personaggio di Olivia Colman una frase emblematica nei confronti di Jane. La donna si rivolge, infatti, alla propria domestica dicendole che può ritenersi fortunata di essere orfana perché non avendo conosciuto i propri genitori non dovrà provare dolore a differenza sua che, invece, ha perso un figlio.

Una chiave di lettura che poteva essere approfondita in maniera diversa e non limitandosi a dilatare il tempo di un pranzo che è la maschera dell’intera esistenza delle tre famiglie.

La spinta d’interesse che Eva Husson vuole dare e suggerire con il suo film va troppo oltre. È la nudità a prendere il sopravvento e a far dubitare lo spettatore che, invece di seguire linearmente lo sviluppo della narrazione, si concentra sui dettagli, tutt’altro che funzionali.

E anche l’escamotage utilizzato per raccontare gli avvenimenti sa di già visto, non integra e anzi risulta piuttosto banale.

Forse la direzione presa dalla Husson è quella di un riferimento a momenti d’altro tempo che, però, invece di essere solamente poetici e fini a sé stessi, avrebbero potuto osare e raccontare di più.

E poteva essere sfruttato maggiormente anche il cast, come detto, pieno di volti noti che tendono a perdersi e mimetizzarsi con il contorno.


Veronica Ranocchi