venerdì, dicembre 22, 2023

LA CHIMERA

La chimera

di Alice Rohrwacher

con Josh O’Connor, Isabella Rossellini, Carol Duarte

Italia, Francia, Svizzera, 2023

genere: drammatico

durata: 130’

"Il sole ci segue" dice la giovane donna al protagonista, mentre nella soggettiva che ne incornicia l'ovale la faccia della ragazza appare e scompare davanti ai nostri occhi. Ancora una volta per Alice Rohrwacher il cinematografo è un'autentica epifania: una questione di luce e oscurità, di sogno e realtà, di essere e non essere, come è sempre stato a partire dai fratelli Lumière. L'inizio e la fine delle sue storie sembrano fatte apposta per ricordarcelo, costruite come sono attraverso due movimenti opposti ma coerenti uno con l'altro.

Il primo è quello in cui l'introduzione al racconto coincide con il "venire alla luce" dei personaggi, come accade ne "Le meraviglie" alla famiglia di Gelsomina, colta nel momento del risveglio mattutino, quando ancora la vita è sospesa tra il giorno e la notte, e come succedeva in "Lazzaro felice", laddove il presepe contadino aveva inizio con un bagliore lontano destinato a spezzare il velo della notte.

Il secondo invece, sembra voler tornare alle origini del racconto perchè l'improvvisa assenza dei protagonisti - la casa vuota e disabita de "Le meraviglie", la metempsicosi di "Lazzaro felice" - pare restituirli alla stessa fantasia che li aveva messi al mondo: ancora una volta a quel buio che va oltre la morte, vera o apparente che sia, consegnandoli ai miti dell'immaginario collettivo.

Rispetto ai lungometraggi appena menzionati, "La chimera" si può considerare una sorta di chiusura del cerchio in quanto sintesi di temi (tra cui quello importante, ma sottovalutato dello sradicamento), personaggi, ambienti e forme cinematografiche. Anche qui, come negli altri frangenti, il finale, ricollegandosi alla sequenza d'apertura, ci restituisce l'immagine di un mondo dove tutto è possibile e in cui persino la morte è costretta a fare i conti con la forza delle passioni umane. Nel caso specifico quella di Arthur (Josh O'Connor) nei confronti dell'amata Beniamina (la Yile Yara Vianello di "Corpo celeste").

Se a prima vista gli avvenimenti del racconto si concentrano sulle vicissitudini di Arthur e del gruppo di tombaroli che trafugano con alterna fortuna i siti archeologici etruschi della costa laziale, in realtà "La chimera" altro non è (o è allo stesso tempo), che una storia "d'amor perduto", quello tra Arthur e la fuggiasca Beniamina di cui il ragazzo (e non solo lui) sembra aspettare il ritorno.

Stante le premesse fatte in apertura, e dunque per le caratteristiche intrinseche di tutto il cinema di Alice Rohrwacher, i due piani di lettura si equivalgono e si scambiano spesso le parti (l'Amore così come gli Etruschi sono entrambi affascinanti e misteriosi) nello sviluppo di un racconto in cui i confini tra gli opposti sono spesso labili o inesistenti (onirico e reale hanno lo stesso peso nell'economia del racconto), come lo è la scelta dell'autrice di allentare la consecutio narrativa e la densità dialogica per mettere lo spettatore nella condizione migliore per abbandonarsi alla poesia evocativa delle immagini, capaci come poche di "raccontare ciò che le parole non riescono a dire".

Non è un caso che il punto di svolta del film, quello della consapevolezza di Arthur, coincida con il gesto con cui il ragazzo si disfa della testa della statua etrusca, ovvero di quella parte del corpo in cui lo sguardo si crea per poi essere indirizzato. Così facendo è come se la Rohrwacher, e con lei il suo film, si appellasse a quella purezza di vedute che ne costituisce la visione per invitarci a sgombrare il quadro dal superfluo.

Ecco che allora, la rabdomanzia con cui Arthur individua i tesori nascosti sotto il terreno, e dunque il suo farsi tramite tra ciò che è vivo e ciò che è morto, tra il passato degli Etruschi e il presente del film (collocato negli anni Ottanta), diventa la modalità di una ricerca più importante, quella che deve portarlo a riunirsi con la donna che gli ha rubato il cuore.

Dunque, "La chimera" non deve essere letto in maniera letterale, sperando di trovarne le risposte in una logica narrativa classica, quella in cui i personaggi sono subordinati all'azione e il legame sequenziale retto da un ferreo rapporto di causa effetto. Al contrario, come nella lettura di strofe poetiche lo spettatore di fronte a "La chimera" è chiamato ad aprire il cuore agli infiniti rimandi e alle assonanze di cui sono piene le immagini, considerando che nel suo essere una favola contemporanea il film racconta anche attraverso situazioni ad alta valenza simbolica.

A esserlo sono le sequenze sulla riva del mare, da sempre spazio cerniera tra luoghi reali e immaginari, qui funzionali a esprimere un altro topos del cinema della Rohrwacher, quello della collisione tra società agricola e sistema industriale, individuabile nell'incombenza delle ciminiere sullo scorcio marino in cui si svolge l'ultima parte della storia. E ancora mediante la presenza di abitazioni vetuste e oramai in disuso (la villa in cui abita il personaggio interpretato da una bravissima Isabella Rossellini e la ex stazione ferroviaria in cui a un certo punto ritroviamo l'altrettanto strepitosa Carol Duarte, già protagonista per chi non lo ricordasse de "La vita invisibile di Eurídice Gusmão"), riadattate a spazio di vitalità famigliare, avvalorando in questo ancora una volta l'equazione tra opposti presente in tutto il film.

Partendo da una visione francescana del paesaggio e delle sue forme di vita "La chimera" così come a suo tempo fecero "Le meraviglie" e "Lazzaro felice" è solo l'ultimo esempio di una volontà di rinnovamento che, pur non rinnegando la tradizione del nostro cinema ma anzi partecipandovi, si fa promotrice di un realismo magico e poetico in fase di riscoperta. Dopo "Nuovomondo" di Emanuele Crialese, "Bella e perduta" di Pietro Marcello, "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, "La chimera" è la conferma di un filone sempre più prolifico di gioielli inaspettati.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, dicembre 21, 2023

WONKA

Wonka

di Paul King

con Timothée Chalamet, Olivia Colman, Hugh Grant

UK, USA, 2023

genere: fantastico, musicale

durata: 116’

E anche per il 2023 abbiamo il film perfetto per il periodo natalizio, adatto a tutta la famiglia. Non che ci fossero dubbi, viste le premesse: da Roal Dahl come “autore” a Timothée Chalamet come protagonista, passando per la scelta di ricorrere a un musical.

Festa, canzoni e tanto cioccolato sono gli ingredienti perfetti per portare il pubblico al cinema e divertirsi con la simpatica e microscopica versione di Hugh Grant nei panni di un Oompa Loompa.

La storia è quella che tutti conosciamo: Willy Wonka è un mago cioccolatiere con il sogno di aprire un suo negozio, una “fabbrica” di cioccolato, ma per farlo dovrà superare una serie di ostacoli che lo faranno “dubitare” più di una volta. Ad aiutarlo e spronarlo, infatti, sembra non bastare la voce della mamma scomparsa. Wonka ha bisogno anche di aiuti “concreti” che fortunatamente trova dopo essersi imbattuto in un bel guaio.

La piccola Noodle, per certi versi ancora più determinata del protagonista, riuscirà a far leva sui punti di forza del giovane non spegnendo mai del tutto la sua speranza e il suo sogno.

Se il primo punto di forza sono le canzoni, mescolate agli effetti speciali riusciti e mai esagerati, l’altro elemento sul quale il film fa leva è indubbiamente la presenza di un nutrito cast di nomi importanti. Al protagonista Chalamet, perfetto per il ruolo, si affiancano, infatti, il già citato Hugh Grant, ma anche Olivia Colman, Rowan Atkinson, Sally Hawkins, tanto per citarne alcuni.

Una storia che, seppur conosciuta, è apprezzabile in questa nuova chiave, per certi versi, anche più moderna, che, senza cadere in stereotipi e banalità, racconta qualcosa di universale per tempo e spazio. Tematiche anche contemporanee sono affrontate nel giusto modo e con i giusti mezzi in modo da arrivare a grandi e piccoli.

Al centro c’è il sogno e la speranza di un giovane che, pur avendo le qualità e la bravura, non riesce a ottenere ciò che desidera perché la spietata concorrenza non vuole essere sostituita da qualcuno di più capace e competente. A spingere Willy, e di conseguenza l’intera storia, è però una grande forza di volontà.

Nonostante si conosca la storia, visto e considerato che si tratta di un prequel, “Wonka” di Paul King intrattiene e convince lo spettatore ad andare fino in fondo nella visione.

Forse, però, il pubblico al quale intende rivolgersi in maniera prevalente è quello dei bambini, ai quali il film regala magie continue, senza darne una reale spiegazione, come fossero parte integrante della storia (e quasi della realtà). Questo porta anche, inevitabilmente, a una mancanza di spiegazioni e contestualizzazioni legate alla figura di Willy Wonka stesso che, talvolta, sembra vagare privo di una reale meta e di una reale concretezza. Richiami e riferimenti ai suoi ricordi più profondi non bastano a delimitare a 360 gradi un protagonista che, invece, presenta varie sfaccettature e che si presterebbe a un’analisi che potrebbe andare ben al di là della creazione di una semplice tavoletta di cioccolata.

Musiche e magie che suscitano interesse e catturano l’attenzione, ma soprattutto quella dei più piccoli, incantati a osservare un mondo pieno di luccichii, leccornie e dolciumi, intervallati dalla simpatica e alternativa presenza dell’Oompa Loompa.

Un Oompa Loompa che, di fatto, è l’unica presenza cinica della storia. Lasciando da parte gli antagonisti, il personaggio di Hugh Grant è il solo in grado di suscitare emozioni contrastanti. Proprio ciò che manca al Willy Wonka di Chalamet che, fluttuando leggero tra le sue dolci creazioni, sembra animato da un intento e da uno spirito completamente puro e nobile senza nessuna “cattiva” sfumatura, tipica, invece, dell’originale racconto di Dahl.

Eppure è impossibile uscire dalla sala senza avere in testa almeno uno dei motivetti centrali, oltre agli indimenticabili dei film precedenti (“Pure Imagination” e “Oompa Loompa”), e tanta voglia di cioccolato!


Veronica Ranocchi

giovedì, dicembre 14, 2023

LA PASSION DE DODIN BOUFFANT

La passion de Dodin Bouffant

di Trần Anh Hùng

con Juliette Binoche, Benoit Magimel

Francia, 2023

genere: sentimentale

durata: 134’

A proposito di "Norwegian Wood", lo scrittore giapponese Murakami parlò del suo libro come di una storia d’amore molto personale, dedicata agli amici morti e a quelli che restano. Dopo aver visto "La passion de Dodin Bouffant" non si può non ripensare a parole che sembrano fatte apposta per introdurre lo spettatore al nuovo film del regista franco-vietnamita Trần Anh Hùng, che del romanzo di Murakami firmò nel 2010 la versione cinematografica. Che si tratti d'ispirazione artistica o semplicemente di una reminiscenza del passato, fatto sta che "La passion de Dodin Bouffant" prende a prestito la passione culinaria del suo protagonista e della donna che gli sta accanto per raccontare molto di più di un ménage lavorativo.

A dispetto di ciò che descrive il film, ovvero la ventennale collaborazione tra il rinomato chef (Benoît Magimel diventato oramai un attore universale) e la cuoca Eugénie (interpretata da un'incommensurabile Juliette Binoche) capace di vincere il tempo nella Francia del XIX secolo, il lungometraggio in questione diventa fin da subito qualcos’altro rispetto ai film sull’arte culinaria che lo hanno preceduto. Certo è che la lunga introduzione con cui il regista ci porta nel bel mezzo della storia, un "falso" piano sequenza in cui la macchina da presa diventa tutt'uno con la preparazioni di uno dei tanti menù preparati dai protagonisti, risulta fondante nello stabilire l'unità di tempo e di spazio della narrazione, rappresentata appunto dalla casa di Bouffant (con qualche scampolo di ripresa esterna ambientata nel bosco circostante ad essa), come pure la centralità dell’azione, legata alla filiera necessaria alla presentazione in tavola delle varie pietanze ma anche della filosofia che ne determina le scelte.

Lo sguardo del regista vi torna di continuo, ogni volta aggiungendo un particolare che però non riguarda solo il cibo, anche se così non sembra, ma piuttosto la personalità e i sentimenti di chi lo prepara. Come fosse la sinfonia del Bolero di Ravel, l’eterno ritorno a quella liturgia si colora come per magia di nuovi significati che un poco alla volta operano sulla materia una trasfigurazione capace di cambiarla fino a farla diventare una cosa nuova. Così facendo davanti agli occhi dello spettatore i gesti relativi alla preparazione di cene e pranzi si caricano di ulteriori accezioni, facendo corrispondere i gesti materiali all’afflato del corteggiamento amoroso fra Bouffant e la sua amata. Gli esempi di questo gioco di specchi non si contano, tanta è l’abilità del regista nel saper parlare contemporaneamente alla vista e al cuore.

Il collegamento fra cibo ed eros non è una scoperta dell'ultima ora ma ciò che conta in questo caso è il modo in cui il film è capace di metterlo in scena. Ma non basta, perché come aveva fatto Paul Thomas Anderson ne "Il filo nascosto" anche Trần lavora per astrazioni successive, sublimando la materia in spirito e la passione culinaria in desiderio amoroso. È in questo modo che la consistenza delle materie prime e la perfezione delle pietanze oggetto di una continua valutazione tattile rimandano alla bellezza e all'armonia del corpo femminile, in un gioco che diventa sempre più manifesto, ma, come si conviene al corteggiamento amoroso, mai esplicito. Un'equiparazione attestata da un particolare fugace ma decisivo, in cui l’immagine della pera sciroppata appoggiata sul piatto è seguita senza soluzione di continuità dal corpo nudo di Eugénie poggiata sul letto in una maniera che rimanda senza mezzi termini alla forma di quella precedente. Abituato a circoscrivere le storie in unico ambiente, facendole vivere sostituendo i sensi alle parole ("Il profumo della papaya verde", suo esordio registico, fu il primo esempio), Trần realizza un'opera che fonda la modernità di pensiero alla classicità delle forme. "La Passion de Dodin Bouffaunt" infatti arriva a chiamare in causa a modo suo la famosa mutazione della carne cronenberghiana, con la differenza che alla pari del Bertrand Bonello di "La Bête", anche Trần parla del futuro attraverso il passato, ricordandoci, se mai ce ne fosse bisogno, che il tempo così come lo conosciamo è solo una convenzione umana.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, dicembre 13, 2023

DIABOLIK - CHI SEI?

Diabolik - chi sei?

di Marco Manetti, Antonio Manetti

con Giacomo Giannotti, Valerio Mastandrea, Miriam Leone, Monica Bellucci, Lorenzo Zurzolo

Italia, 2023

genere: azione, thriller, giallo

durata: 124’

Smaltita la dipartita artistica di Luca Marinelli, interprete del primo Diabolik e prese le misure a un sostituto, Giacomo Giannotti, forse meno carismatico del suo collega ma più rispondente dal punto vista fisiognomico al personaggio creato dalle sorelle Giussani, la saga dei fratelli Manetti, come suggerisce il titolo, approfitta del vuoto narrativo lasciato aperto dalla misteriosa sparizione del protagonista, per fare luce sulle oscure origini del personaggio. Come negli omologhi prodotti americani la saga si premura di completare il percorso conoscitivo del personaggio. Dopo averne definito il campo d’azione (“Diabolik”) e approfondito la personalità del suo più acerrimo nemico (“Diabolik - Ginko all’attacco”), "Diabolik - Chi sei?" conclude il viaggio del suo antieroe non prima di averne svelato le origini, lasciando intendere come fin da giovane età e ancor prima di diventare il famigerato criminale in calzamaglia, il nostro possedesse l’intelligenza e la mancanza di scrupoli che permettono di trasformare lo svantaggio iniziale in una nuova possibilità di successo.

Sulla scia dell’episodio precedente “Diabolik - Chi sei?” conferma il cambio di rotta spostando definitivamente l’attenzione sulle vite dei personaggi e sulla capacità dei singoli di dominare il caos, dimostrando meno interesse verso quegli aspetti iconografici che nel primo episodio avevano trovato apoteosi nella rappresentazione stilizzata di Clerville, la città che fa da scenario alle imprese di Diabolik, sempre meno protagonista in senso estetico delle avventure del personaggio. Una svolta che riguarda anche una maggiore suddivisione del tempo a disposizione per ciascun personaggio, meno sbilanciato sul singolo anche a costo di dare minor spazio alla figura più riuscita della serie, Eva Kant/Miriam Leone, costretta a dividere la scena femminile con la contessa Altea di Vallenberg/Monica Bellucci.

D’altronde “Diabolik - Chi sei?” conferma la volontà di prendere le distanze dal modello delle sorelle Giussani operandone una rilettura che non mette in discussione la narrazione dei personaggi quanto la loro rappresentazione. In questo senso è come se le immagini si rendessero conto dell’impossibilità di leggere le pagine di quei fumetti come lo facevano le sue creatrici e che per questo decidesse di farlo con gli occhi di oggi. Così facendo i difetti più volte imputati all’intera operazione, e cioè il ritmo compassato dell’azione, la postura legnosa degli attori, la recitazione incerta e persino il trucco posticcio, altro non sarebbero che la reazione alla diversa prospettiva scelta dai registi per guardare alla materia del film. D’altronde per i Manetti il genere è stato sempre utilizzato come uno specchio deformante e divertito con cui rielaborare le coordinate del mondo contemporaneo. Nel bene e nel male, la saga di Diabolik ne ribadisce l’indipendenza artistica, qui mascherata da una produzione che è mainstream solo in apparenza (a cominciare dal budget) e che però conserva lo spirito anarchico delle origini. La prova lampante sta nel fatto di prendere attori di grande impatto e fascino popolare per poi normalizzarne le caratteristiche che li avevano imposti al nostro immaginario. Fatta eccezione per Mirian Leone, uscita rafforzata da un'interpretazione che ne ha levigato il carisma, infatti, gli altri interpreti sono come svuotati del loro armamentario e per questo sono quasi irriconoscibili, alle prese con dei ruoli che sembrano levare a loro e ai rispettivi personaggi l’appeal che il pubblico ha assegnato loro.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

martedì, dicembre 12, 2023

MI FANNO MALE I CAPELLI

Mi fanno male i capelli

di Roberta Torre

con Alba Rohrwacher, Filippo Timi

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 83’

Che quella di Monica sia un'esistenza alla deriva c'è lo dice la prima sequenza ambientata sulla spiaggia del litorale romano in cui la protagonista vaga a zonzo senza sapere bene dove andare. La solitudine generale e il senso di smarrimento della donna trova conferma nella natura di un contesto ambientale che rimanda a un approdo di fortuna e a un viaggio terminato nel peggiore dei modi. Naufraga della vita, Monica trova ristoro tra le braccia e le amorevoli cure del marito Edoardo, disposto a tutto, anche a sopportare le conseguenze di una malattia che stravolge la memoria e la reinventa a modo proprio, pur di restare con la sua amata. È questo il punto di partenza di "Mi fanno male i capelli", il nuovo film di Roberta Torre che ancora una volta torna a raccontare storie di donne fuori dagli schemi come lo è stata la vita artistica e personale di Monica Vitti, a cui il film rende omaggio immaginando che le visioni dei suoi film più celebri, passati in rassegna nei modi e nei contesti più impensabili, siano per la protagonista una sorta di specchio in cui la stessa può rivedere la propria vita.

L'idea della Torre è oltremodo originale perché nell'intenzione di rendere omaggio al celebre personaggio raccontandolo al di fuori dei soliti contenitori, e dunque evitando di celebrarla attraverso il ricordo di chi l'ha conosciuta e le immagini che ce l'hanno resa famosa, la regista milanese inventa un dispositivo che non rinuncia a farlo e che però si inventa una nuova maniera di presentarne le gesta. Differente dal documentario creativo e dalla docufiction e nello stesso tempo versione che li contiene entrambi, ridisegnandone le fondamenta, "Mi fanno male i capelli" evita di far morire Monica Vitti una seconda volta, immortalandola nel tempo che fu. Al contrario, reinterpretandola attraverso le vicissitudini di un personaggio corrispondente e allo stesso tempo altro, a cui si presta con la solita dedizione Alba Rohrwacher, ne riporta in vita il ricordo collocandolo in un contesto, quello di oggi, che indirettamente conferma l'attualità di un'arte, quella della Vitti, ancora oggi capace di dialogare con il nostro tempo attraverso l'eternità dei suoi personaggi.

Mentre racconta l'evolversi della vicenda patologica, trovando di volta in volta il modo di far corrispondere le parole e il contesto dei personaggi interpretati dalla Vitti a quello del suo alter ego (un lavoro d'archivio non indifferente e di certo meticoloso per l'efficacia dei vari accostamenti) la Torre fa procedere l'evoluzione narrativa a quella formale, eliminando per volte successive la distanza tra cinema e vita, per arrivare al punto in cui le due realtà, quella reale e quella di finzione si compenetrano dando vita a un unico universo che nel film corrisponde al sovrapposizione del destino che accomuna la persona al personaggio.

Scandito dai magnifici costumi di Massimo Cantini Parrini e illuminato dalla calda e nostalgica fotografia di Stefano Salemme, "Mi fanno male i capelli" riesce a trovare  un equilibrio tra la predisposizione ad arricchire  lo spettacolo attraverso il desiderio di sperimentare nuove soluzioni sceniche, e la necessità di rimanere in contatto con il suo pubblico cinematografico, meravigliandolo con infinite possibilità di intersecare il repertorio d'archivio con la camaleontica predisposizione della Rohrwacher, a cui fa da spalla un Filippo Timi mai così asciutto come questa volta.  Progetto ambizioso quello di confrontarsi con un nume tutelare del nostro cinema e allo stesso tempo di costruire una metafora sulla persuasione della Settimana arte e sulla sua capacità di influenzare il nostro immaginario, "Mi fanno male i capelli" regge il confronto con il dovuto rispetto e senza voyeurismo, evitando di farsi schiacciare dalla personalità della celebre attrice e dalle ambizioni poste a premessa del progetto. Certo è che una volta compreso il meccanismo con cui la regista costruisce la storia, lo stupore iniziale risulta in qualche modo attenuato da una ripetitività che non assopisce il sentimento di nostalgia e il fascino misterioso prodotto dalle immagini ma toglie qualcosa alla meraviglia che all'inizio accompagnava le epifanie del film. Presentato in concorso alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma, "Mi fanno male i capelli" è visibile nelle sale, distribuito da I Wonder Pictures.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, dicembre 11, 2023

HOLIDAY: INTERVISTA A EDOARDO GABBRIELLINI

Presentato alla Festa del Cinema di Roma nel concorso Progressive Cinema – Visioni del Mondo di Domani, Holiday di Edoardo Gabbriellini racconta la difficoltà della giovinezza attraverso il mistero di una storia d’amore e morte. Del film abbiamo parlato con Edoardo Gabbriellini.

Distribuito nelle sale da Europictures il 23, 24, 25 ottobre, Holiday è una produzione Vision Distribution, società del gruppo Sky, e CinemaUndici in collaborazione con The Apartment Pictures, società del gruppo Freemantle, e Frenesy Film.

I tuoi film partono sempre da un’idea di armonia del paesaggio che in qualche modo contraddici con immagini che un poco alla volta ne mostrano il lato inquietante. Così era l’appenino tosco romagnolo de I padroni di casa, così è la riviera ligure di Holiday, luogo ameno e allo stesso tempo scenario del presunto matricidio di cui è accusata Veronica, la protagonista del film.

Effettivamente è così, tra Padroni di casa e Holiday esiste un filo conduttore che secondo me è rintracciabile nella tensione che attraversa entrambi. Si tratta di una luce che porta con sé delle ombre.

La dicotomia del paesaggio appartiene alla natura delle immagini, sempre in bilico tra realtà e apparenza, tra un passato e un presente destinati a confondersi al punto di mettere in crisi il giudizio dello spettatore. Tema, questo, che Holiday affronta anche attraverso la lettera che Veronica immagina di leggere all’uditorio del tribunale. In essa la ragazza si lamenta di essere ritenuta colpevole dai media solo per il fatto di non corrispondere al modello dominante. Holiday ha il pregio di far riflettere lo spettatore su questo argomento, minandone continuamente le certezze che si è fatto.

Il discorso sull’apparenza c’era anche nel mio primo film e portava gradualmente allo scoppio della violenza. In Holiday quest’ultima è più sottesa ed esistenziale o, ancora meglio, antropologica. Il fatto di destrutturare la costruzione narrativa mi serviva proprio per esasperare il gioco di specchi e di ombre capaci di sparigliare le certezze dello spettatore che è spinto a rivedere continuamente la sua posizione rispetto al racconto dei fatti e alle intenzioni dei personaggi. Così funziona anche per le emozioni, sempre in bilico tra reazioni di segno opposto. Il mio intento era quello di mettere chi guarda nella posizione di chiedersi da che parte stare avendo dei dubbi sulla risposta da darsi.

Parlavi di un approccio antropologico. In Holiday questo riguarda soprattutto i corpi su cui tu ragioni presentandoci quelli delle due amiche, così diversi l’uno dall’altro da farci orientare il giudizio rispetto alle loro azioni. Nel film le considerazioni rischiano di essere condizionate dall’aspetto estetico.

Che ci piaccia o no siamo condizionati dai canoni estetici che di volta in volta ci vengono imposti. In taluni casi sono anche etici e morali. Basta guardare ciò che sta succedendo in Medio Oriente in cui ci sono tutta una serie di cose che non si possono dire proprio perché siamo condizionati da certi pregiudizi. Questo modo di pensare credo sia alla base della drammaturgia del film.

La sequenza iniziale è il risultato di una mescolanza di formati e di drammaturgie capaci di evocare un’altalena di sentimenti ed emozioni. Dal reale al surreale, dalla poesia alla tragedia, l’eterogeneità dei primi minuti è la stessa che incontriamo lungo tutto il film, di cui fanno parte certi movimenti di macchina che richiamano il cinema dei grandi autori.

Sono d’accordo con te e aggiungo che mai come oggi il cinema parla di se stesso. Nella sequenza menzionata c’è anche un intervento che potrei definire letterario in cui, per una volta, e solo per quella, ascoltiamo una musica extra diegetica, chiamata a fare da cappello a una storia molto più ruvida e frontale della sua premessa.

Non a caso la dolce nostalgia di quella musica e la poesia del paesaggio marino di colpo trascolorano nella freddezza entomologica delle fotografie dei cadaveri del massacro di cui è accusata Veronica.

La freddezza di cui parli deriva dal fatto che si tratta di fotografie scattate dalla polizia scientifica per coadiuvare le indagini degli inquirenti.

Holiday ha uno sguardo molto anticonformista anche nella scelta dei volti e dei corpi che mette in scena. Parlo soprattutto di quelli femminili la cui energia e vitalità in certi tratti mi ha ricordato quelli presenti nel cinema di Abdellatif Kechiche.

In qualche modo il mio tentativo era di avere una forma di discrezione nel modo di guardare queste ragazze. Ho pensato spesso al cinema francese degli anni ottanta che in mezzo a tanto altro è quello in cui mi sono formato. Da quei film ho voluto prendere la delicatezza. Spero che tutto questo traspaia. Dopodiché mi fa piacere che tu definisca il mio sguardo anticonformista perché è un aggettivo che mi piace. Da parte mia c’è stata la volontà di mantenere la giusta misura tra me che guardavo e le ragazze.

Soprattutto nella prima parte, quando descrivi l’amicizia tra Veronica e Giada, i primi piani su di loro sono davvero emozionanti perché i volti trasmettono come pochi l’acerba bellezza della giovinezza. Parliamo di immagini di una purezza infinita.

Wow, mi prendo questi complimenti e me li porto a casa con grande gioia. Le due ragazze mi hanno aiutato a restituire questo brutale candore. Sono state loro a farmi avvicinare quando dovevo. Suggerendomi il momento in cui dovevo spiarle da lontano o in altro modo. Su di me hanno avuto un impatto fondamentale per capire che registro linguistico dovevo usare.

Il piano sequenza che dalla spiaggia entrava nell’aula di tribunale passando per la finestra dell’edificio mi è sembrato un omaggio a Professione Reporter di Michelangelo Antonioni. Rispetto al linguaggio fin lì utilizzato lo scarto segnala un cambiamento importante, quello tra la giovinezza e l’età adulta.

Ti ringrazio per le parole. In quel caso avevo l’esigenza di aumentare il contrasto tra la leggerezza di quattro ragazze che in spiaggia parlano di sesso in maniera ironica e conflittuale e poi di colpo si ritrovano dentro l’atmosfera claustrofobica di un drammatico processo. A essere messa all’angolo dalla vita è una ragazzina di solo diciannove anni.

Una giovinezza che tu racconti come uno stato d’assedio.

Perché quella è davvero così. Non c’è altro modo per descriverla. Credo che l’idea di raccontarla usando una cornice di genere thriller servisse per esasperare questo tipo di sentimento che peraltro condivido.

Le immagini lo esprimono con inquadrature che sfruttano le architetture per segnare la separazione tra la protagonista e il resto del mondo.

Perché è quello che mi ricordavo di quell’età lì. Per descriverla mi ha aiutato avere un figlio coetaneo di Veronica e Giada. Osservandolo ho ritrovato familiarità con quella dimensione che, se ti ricordi, è di quelle dove non son previste sfumature e in cui tutto è assoluto: i rapporti come le amicizie, con il migliore amico che è anche in qualche modo il tuo amante, quello nel cui sguardo riconosci la migliore versione di te. A lui si appoggiano le tue fragilità e l’altro fa altrettanto. Sono cose che sento nel profondo e mi sembrava interessante tentare di riprodurle.

Holiday è un film in cui i dettagli fanno la differenza. Penso per esempio all’importanza dei colori che oltre a una funzione premonitoria permettono di distinguere tra il passato e il presente del racconto.

Ovviamente i tuoi apprezzamenti riguardano tutte quelle cose che ho cercato di perseguire nel filmare la storia. Quando lo si fa speri sempre che il pubblico riesca a coglierle dunque mi fa piacere che tu te ne sia accorto.

Per la riuscita del film risulta fondamentale il montaggio emotivo di Walter Fasano che mescola senza soluzione di continuità spazio e tempo restituendo la vicenda come flusso di coscienza. 

Il montaggio è stato importantissimo. La struttura del film era già nella sceneggiatura prima di andare sul set ma come ben sai il montaggio è la terza e ultima scrittura del film. In questo la sensibilità di Walter ha arricchito ulteriormente il film.

Veronica e Giada sono interpretate da Margherita Corradi e Giorgia Frank che, al loro debutto sullo schermo, risultano brave e credibili. Per alcuni registi la mancanza di scuola è un vantaggio, per altri è vero il contrario. 

Veronica e Giorgia non avevano mai pensato di diventare attrici. Per rispondere alla tua domanda, penso che ogni volta dipenda dai progetti. Sai che ho lavorato con grandi interpreti. Qui, invece, mi confronto con attori non professionisti. Per l’età trattata dal film avevo bisogno di qualcosa di acerbo negli atteggiamenti: nel modo di muoversi e di toccarsi, come pure di occupare lo spazio filmico. Da qui l’idea di fare uno street casting di quel tipo, andando a pescare un talento ancora inconsapevole di esserlo. Dopo aver trovato Margherita abbiamo interpellato le sue amiche e tra queste abbiamo scelto Giorgia che conosce da sempre Margherita. La loro amicizia ha regalato al film l’amicizia e l’intimità che cercavamo e loro sono state veramente brave a renderlo per tutta la durata delle riprese.

Per concludere volevo chiederti che tipo di cinema piace a Edoardo Gabbriellini.

Mi piace quello che mi lascia un po’ di spazio a me che lo guardo.

Come il tuo film nei confronti dello spettatore. 

Così mi auguro.


Carlo Cerofolini

(intervista pubblicata su taxidrivers.it)

domenica, dicembre 10, 2023

HOLIDAY (2023)

Holiday

di Edoardo Gabbriellini

con Margherita Corradi, Giorgia Frank, Alessandro Tedeschi

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 102’

Che sia la traduzione inglese della parola vacanza, da intendersi sia come periodo di ferie e relax sia come evasione dai problemi della vita, o che sia il nome di un hotel, ha poca importanza.

Quell’ “holiday” di Edoardo Gabbriellini è, in realtà, molto di più. È la storia di Veronica e Giada. La prima, accusata dell’omicidio della madre e dell’amante di lei, ha scontato 22 mesi di prigione. La seconda è la sua migliore amica, pronta a starle vicina e sorreggerla in caso di bisogno.

Ma tornare alla vita di sempre in una situazione del genere è tutt’altro che facile. E anche quello che sembra semplicemente uno svago per una giovanissima si trasforma subito in un’esca che stampa e non solo sfruttano in maniera negativa. Se, quindi, uscire in discoteca con l’amica la sera in cui si ritrova finalmente in libertà non sembra essere una scelta indovinata per Veronica, sarà ancora peggio la reazione di Giada alle soffocanti pressioni da parte delle persone nei confronti dell’amica che si reca semplicemente al cimitero alla tomba della madre.

A essere soffocanti, però, non sono solo le pressioni dall’esterno (e dall’interno), ma anche la struttura e la visione della vita da parte delle due giovani. La sensazione, per lo spettatore, è quella di affogare continuamente e rimanere confinato nelle mura domestiche, anche simboliche, rappresentate dal modo di porsi della giovane quasi sempre chiusa in sé stessa e mai davvero in grado di dire la sua verità.

Anche i continui primi piani e l’insistenza nel cercare di carpire emozioni diverse da Veronica e Giada sono elementi che costringono lo spettatore a non distrarsi e a rimanere confinato, come le due protagoniste stesse, all’interno di questo hotel nel quale sembra essersi consumato l’efferato delitto. Ma è andata davvero così?

L’intento di Gabbriellini è quello di confinarci a osservare senza necessariamente capire. O meglio, senza necessariamente darci una spiegazione a ogni singola scena, ogni singola azione e ogni singolo pensiero. Non entriamo mai davvero nella mente di colei che è accusata da tutti di essere la responsabile del duplice omicidio. Allo stesso modo non abbiamo prove né in un senso né in un altro. Come il film stesso, anche la storia di Veronica è continuamente in bilico. Non abbiamo prove della sua innocenza né della sua colpevolezza. Anzi, nel momento del processo e delle testimonianze di amici e parenti sembriamo non riuscire a incastrare nel modo corretto i pezzi del puzzle. Qualcosa sembra sfuggire, continuamente.

Se nel primo istante ci troviamo ad accusare una persona, nell’istante immediatamente successivo ci troviamo costretti a cambiare idea. E l’abilità di Gabbriellini sta proprio in questo: porre il proprio pubblico davanti a un bivio senza tendergli la mano, senza aiutarlo a trovare la strada corretta. Seguendo questa logica (de)costruisce il suo stesso film, a metà tra un giallo e un processuale, nel quale, come nella migliore delle tradizioni, tutti sono innocenti e tutti sono colpevoli.

Addirittura arriva a trovare spazio per inserire anche una parentesi più onirica che, però, diventa un tutt’uno con la realtà, facendo dubitare i protagonisti stessi di ciò che vedono e ciò che fanno.

Infine, se c’è un’attenzione particolare, per ovvie ragioni, sul rapporto conflittuale che Veronica ha con la madre, evidenziato da differenze non solo caratteriali (e che è anche ciò che la incrimina inizialmente), non c’è purtroppo la stessa attenzione per altri personaggi della storia, come l’amante della madre o l’amica che testimonia al processo, forse volutamente non sviluppati per non distogliere l’attenzione dal focus della narrazione.


Veronica Ranocchi

domenica, novembre 12, 2023

TE L'AVEVO DETTO

Te l’avevo detto

di Ginevra Elkann

con Valeria Bruni Tedeschi, Valeria Golino, Alba Rohrwacher

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 100’

Uscito nel 2023, ambientato più o meno intorno a quest’anno, ma col sapore di qualcosa di ben più datato.

Alla sua seconda prova alla regia Ginevra Elkann con il suo “Te l’avevo detto” prova a ripartire più o meno da dove era rimasta con “Magari”.

Qui allarga la questione a più personaggi, trasformando il film in un dramma corale dove non c’è un protagonista assoluto, se non si considera l’agire in maniera scontata e prevedibile, come il titolo stesso anticipa. A intrecciarsi sono più storie e più dinamiche, tutte con lo stesso filo conduttore. Abbiamo la donna che vuole vendicarsi del tradimento del defunto marito con una pornostar, ma viene ostacolata dalla figlia bulimica. Abbiamo il sacerdote drogato che deve fare i conti con il suo passato che riaffiora quando la sorella americana arriva a Roma con le ceneri della madre. E abbiamo l’alcolizzata che ha perso la possibilità di prendersi cura del figlio, affidato al padre, che cerca di tenerli lontani.

Il tutto all’interno di una Roma che, pur preparandosi al Natale, soffre una condizione climatica estrema con picchi di calore mai percepiti prima. Ed è proprio in questo scenario apocalittico che si dipana la vicenda di tutti questi personaggi che si ritrovano quasi per inerzia ad agire come previsto e prevedibile. I colpi di scena sono solo quelli sulla modalità.

Come il titolo stesso (pre)annuncia, gli impliciti "te l'avevo detto" sono alla base dell'intera vicenda, o meglio del susseguirsi degli eventi che sembrano vagare al pari dei personaggi stessi.

Immersi (e persi) nella "nebbia" asfissiante di una Roma troppo calda, tutti i personaggi agiscono per il proprio interesse, senza tenere conto di ciò che succede loro intorno. L'egoismo è ciò che sembra prevalere e avere la meglio in un film che non racconta, ma semplicemente mostra una serie di avvenimenti che hanno il medesimo scenario e la medesima conclusione. Collegati soltanto da questo elemento, gli eventi scorrono sullo schermo cercando un guizzo che non arriva per non andare contro la logica nella quale è inserito il film stesso.

Modalità fin troppo prevedibili che non portano a una vera conclusione. O probabilmente cercano di suscitare nel pubblico una reazione, una riflessione, facendosi “aiutare” anche dall’incompletezza dei vari quadri “familiari”. Non c’è una vera connessione tra loro, fatta eccezione per il meteo e per lo sviluppo delle dinamiche.

Personaggi al limite del grottesco, del sopra le righe che, però, restano in superficie senza essere davvero approfonditi come, invece, avrebbero potuto.

Che Ginevra Elkann abbia voluto dirci che, comunque si agisca, si finisce sempre con il cadere nei "tranelli" che la vita ci confeziona? Nonostante i personaggi provino a trovare una via d'uscita e a evolvere, le strade sembrano senza sfondo. Come lo è la nebbia che li attanaglia e che li ingloba.

E che rischia di inglobare anche lo spettatore.


Veronica Ranocchi

sabato, novembre 11, 2023

LA ZONA DI INTERESSE

La zona di interesse

di Jonathan Glazer

con Christian Friedel, Sandra Huller

UK, Polonia, 2023

genere: drammatico

durata: 106’

In un'epoca in cui la crisi delle sale e la disaffezione delle generazioni più giovani ha spinto anche chi si professa cinefilo a rispolverare i discorsi sulla morte del cinema, dubitando sulla capacità di incidere nelle nostre esistenze rivelandone le complessità meno evidenti, un film come "La zona d'interesse" riporta indietro le lancette della Storia mettendo in qualche modo lo spettatore nella stessa condizione di quei fortunati che si trovarono ad assistere alle proiezioni dei primi cortometraggi dei Fratelli Lumière. In un tempo di sensi anestetizzati e coscienze sopite il film di Jonathan Glazer prende in contropiede la vista e lo stomaco, raccontando l'Olocausto come ancora non si era mai visto sullo schermo. Lungi dall'essere un esercizio di stile "La zona d'interesse" restituisce alla forma la sua caratteristica principale, ovvero quella di accrescere il senso del contenuto.

Abbracciando il concetto di indicibile relativo alla tragedia della Shoah, Glazer fa la cosa più semplice e allo stesso tempo più difficile, celando il misfatto agli occhi dello spettatore e in parte a quelli degli stessi personaggi, attraverso il muro di cinta che separa il campo di concentramento di Auschwitz dallo spazio famigliare in cui la famiglia del comandante della guarnigione vive come niente fosse, assorbita dalla bellezza bucolica del paesaggio e viziata dai privilegi di una posizione lavorativa di prestigio, quella del colonnello Rudolf Höss, in cui lo sterminio non implica nessuna questione morale e dove l'unico problema è quello di elevare al massimo l'efficienza dei carnefici e dello loro procedure logistico-matematiche.

Per mettere in scena l'orrore Glazer non spreca neanche un minuto dei 105 a sua disposizione. Prova ne siano i titoli di testa, rappresentati in toto dall'intestazione del film, destinata a scomparire un poco per volta dallo schermo, sopraffatta dai rumori della "morte al lavoro" e assorbita dal buio di una dissolvenza in nero che, insieme al finale altrettanto astratto, dominato com'è dall'improvviso presagio della fine che assale Höss, inchioda l'incoscienza dei personaggi all'abisso delle proprie anime.

La differenza fra bene e male diventa così una questione legata alla dicotomia dello sguardo, laddove l'invisibile smette di essere tale quando si rivolge alla vita del carnefice, immersa in una fotografia surreale, tanto nitida e pulita quanto monocorde e glaciale, capace com'è di far diventare la bellezza vuota e piatta della sua illuminazione sinonimo della crudele prosaicità di cui si colora il quotidiano della famiglia Höss predisposta per natura a non farsi toccare da quanto accade al di là del muro.

Scegliendo di raccontare gli aguzzini e non le loro vittime Glazer fa una scelta di campo che riguarda l'oggi, ragionando sulla banalità del male attraverso un identikit in cui il paradosso della famiglia tedesca, incurante dell'abominio che le sta accanto, moltiplica all'ennesima potenza quello dell'Occidente nei confronti delle guerre che del tutto o in parte ha contribuito ad accendere.

Come "Il figlio di Saul" anche il film di Glazer fa del fuoricampo un elemento fondante. A differenza di László Nemes, però, Glazer sceglie un punto di vista opposto. Tanto quello del regista ungherese era il risultato di una ricognizione interna al personaggio, tanto quello del regista inglese è il risultato di un'osservazione isolata ed esterna al contesto. Se "Il figlio di Saul" traeva forza da una narrazione febbrile e allucinatoria "La zona d'interesse" propone allo spettatore un'osservazione raggelata ed entomologica, capace di resistere all'impassibilità dei personaggi per cogliere l'attimo in cui la normalità diventa affezione patologica. Debitore nei temi e nella forma del Michael Haneke de "Il nastro bianco", "La zona d'interesse" deve parte della sua riuscita a un dispositivo che da qui in avanti potrebbe costituire un compendio pratico da mostrare agli studenti per far comprendere la bellezza e la potenza del linguaggio cinematografico. Valga per tutti il modo in cui Glazer restituisce dignità a campo e controcampo, altrove segnale di povertà registica (lo aveva già fatto Paul Thomas Anderson con "Licorice Pizza"), qui determinante nel restituire la vertigine derivata dall'orrore del quotidiano, quando, dopo una serie di sequenze girate secondo un unico punto di vista e volte a introdurci nell'ovattata quotidianità della famiglia Höss, a spalancare le porte dell'inferno è l'uso improvviso del campo opposto all'immagine precedente, mostrandoci la prospettiva della fornace del campo di concentramento, visibile in tutta la sua atroce abiezione dietro le spalle del padrone di casa. È la prima volta che succede e tanto basta a cambiare la storia del film che da quel momento non potrà più mondarsi dal peccato originale di quell'immagine.

Adattamento cinematografico del romanzo omonimo del 2014 scritto da Martin Amis, "La zona d'interesse" è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria. Prodotto dalla A24, il film di Glazer è atteso nelle sale il 25 gennaio 2024, distribuito da I Wonder Pictures. Da vedere e rivedere per non dimenticare.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, novembre 10, 2023

ERAVAMO BAMBINI

Eravamo bambini

di Marco Martani

con Alessio Lapice, Lucrezia Guidone, Giancarlo Commare

Italia, 2023

genere: drammatico, thriller

durata: 101’

Facendo leva sul riuscito scritto di Massimiliano Bruno, su un cast corale molto ben assortito e calibrato e su un montaggio che aiuta e dà un tocco ancora più “spaventoso” al tutto, il film di Marco Martani Eravamo bambini racconta una storia dove a prendere vita è il classico modo di dire “la vendetta è un piatto che va servito freddo”. Il film, presentato nell’ambito della Festa del Cinema di Roma ad Alice nella città, nella categoria Panorama Italia, è prodotto da Minerva Pictures, Wildside, Vision Distribution e distribuito da Europictures.

Tutto inizia la notte in cui un giovane trentenne viene arrestato dai carabinieri per essere stato trovato con un coltello con il quale intendeva minacciarli. L’interrogatorio è semplice: il giovane non intende pronunciare neanche una parola. Poi improvvisamente, facendo riferimento ai fuochi d’artificio, comincia lentamente a raccontare qualcosa che appartiene al passato. Un passato che riaffiora anche sullo schermo con un intreccio perfetto costruito e montato con particolare attenzione in modo da non rivelare niente prima del tempo.

Ed ecco che, tramite flashback e dialoghi dai quali trapelano tematiche e dinamiche che dal passato si ripercuotono nel presente, cominciamo a rimettere insieme i pezzi di un puzzle non di semplice “digestione”.

Inizialmente sbalzati da un personaggio all’altro e da una storia all’altra senza capire in che modo esse possano essere collegate, tutto appare chiaro quando i tasselli si avvicinano e ricompongono un insieme che da troppo tempo era rimasto inconcluso.

Eravamo bambini o, in qualche modo, lo siamo ancora?

In parte Martani sembra farci riflettere anche su questo e sulle conseguenze che un avvenimento possa portare nella vita delle persone, anche a distanza di tempo. Ne sono una dimostrazione Gianluca, celerino che non riesce a mantenere troppo autocontrollo soprattutto in situazioni in cui dovrebbe portare equilibrio; Walter, nascosto dietro la maschera del “cantante” Inferno, inglobato dai propri tatuaggi che gli coprono anche il volto e che dimostra di avere sentimenti solo quando è con la figlia; Margherita, l’unica ragazza del gruppo disposta a trovare uno svago dai propri pensieri passando da un uomo all’altro; Andrea, il fratellino di Margherita, con una forte dipendenza dalla droga che spesso lo mette nei guai; Cacasotto, che già dall’emblematico nome, è colui che più di tutti è rimasto ancorato al passato e ai ricordi di un passato fin troppo lontano solo per paura e, infine, Peppino, quello apparentemente più distante e lontano, ma che, come tutti gli altri, ha sofferto e soffre senza nemmeno rendersene conto.

A fare da cornice a questi 5 protagonisti, dei quali sappiamo qualcosa solo grazie ai brevissimi “capitoli” iniziali che li riguardano e alla ricostruzione di un passato che continua ad appartenere loro e a essere tatuato sulla loro pelle, ci sono i genitori. Quegli stessi genitori che sono base e conseguenza della vita e delle scelte di ognuno dei protagonisti, nel bene e nel male. Perché, seppur in maniera più nascosta, un altro tema importante del film di Martani è anche la famiglia e, con lei, le conseguenze che un buono o cattivo rapporto può portare. Continue sfaccettature dello stesso aspetto sono quelle che appaiono nel film, dalle famiglie con genitori e figli dei flashback alla famiglia formata soltanto da Margherita e Andrea, a quella formata da Walter e sua figlia, arrivando a quella che i cinque (sei) protagonisti hanno fatto nascere grazie alla loro amicizia. 

Un film cupo che lascia decidere allo spettatore se quella piccola stradina in mezzo al niente porti dritta all’oscurità o a una speranza che potrebbe sapere di redenzione. 


Veronica Ranocchi

venerdì, ottobre 06, 2023

NATA PER TE

Nata per te

di Fabio Mollo

con Pierluigi Gigante, Teresa Saponangelo, Barbora Bobulova

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 102’

Luca e Alba. Perché alla fine di tutto Fabio Mollo con il suo “Nata per te” vuole dirci proprio questo: Luca e Alba. Niente è più forte, niente è più importante del rapporto e del legame tra queste due anime, disposte a lottare, a sfidare le regole e le convenzioni, ad andare contro tutto e tutti.

Il nuovo film di Fabio Mollo, già dal titolo, ci presenta il fulcro della storia, ripetuto come un mantra durante il susseguirsi degli eventi: “Alba è nata per te”, per Luca, pronto ad accoglierla fin da subito. Ma andiamo con ordine.

“Nata per te” racconta la storia vera di Luca, giovane ragazzo omosessuale, e di Alba, bambina partorita in ospedale e lì abbandonata, pronta per essere data in affidamento e poi adottata. Apparentemente è una storia normale, se non fosse che Alba ha la sindrome di down, nessuna famiglia è disposta a prendersene cura e Luca, che sarebbe l’unico intenzionato a farlo, non può in quanto single (e omosessuale). O meglio può prenderla in affidamento, ma solo per poco, a discrezione del magistrato al quale è affidato il “caso”. Ma già dal primo, temporaneo, e fin troppo breve, affido scatta qualcosa tra Luca e Alba. I due sembrano destinati a dover vivere insieme.

Una storia che Fabio Mollo decide di raccontare in maniera naturale, lineare e senza pietismi. È veramente la reale e autentica storia di due anime che si incontrano, grazie a un destino che, in questo caso, cerca di fare il possibile per far allineare tutte le congiunzioni astrali. Ad alimentare questo potente legame contribuiscono, cinematograficamente parlando, degli efficaci flashback che il regista inserisce, intervallandoli al presente, anche per aiutarci a comprendere il personaggio di Luca, le sue paure, le sue scelte e la sua crescita nel tempo. Se all’inizio del film ha accanto il fidanzato Lorenzo che sembra intenzionato a diventare padre quasi quanto lui, nei flashback lo vediamo sempre in compagnia di un coetaneo, Rocco, che lo incita a scoprire il mondo e andare oltre. Lo invita a sognare, prendendo come riferimento la possibilità di arrivare su Marte.

Ed è proprio su questo punto che si sviluppa la storia e la crescita di Luca. Anche perché la speranza di riuscire ad arrivare su Marte è il perfetto parallelismo con la speranza di riuscire a ottenere l’affido di Alba. Se l’uomo è riuscito ad arrivare fino al pianeta rosso non sarà così impossibile per un ragazzo single e omosessuale ottenere l’affido di una bambina.

Se da una parte, quindi, Lorenzo cerca di far ragionare Luca, tenendolo con i piedi per terra, per quanto possibile, elencandogli tutta una serie di ostacoli e sottolineando che, a prescindere da tutto, non potranno mai essere una famiglia al pari delle altre, dall’altra parte il protagonista ha già preso il volo, conscio che niente e nessuno potrà fermarlo. Luca è determinato a ottenere ciò che vuole. Anche se Lorenzo continua a ripetergli che, una volta ottenuto l’eventuale affido, Alba, per la legge, sarà solo la figlia di Luca, lui non demorde e continua a testa bassa a puntare il suo obiettivo: quello di dare amore e affetto a una bambina momentaneamente abbandonata e sola al mondo.

Ad aiutare Pierluigi Gigante, che presta il volto a Luca, c’è Teresa Saponangelo nei panni di un’avvocata disposta a tutto pur di affermarsi e soprattutto affermare i diritti di chiunque.

Un film che parla a tutti, mostrando tanti modi per essere e diventare una famiglia. Andando oltre pregiudizi e leggi apparentemente insormontabili, ovunque si può creare un legame talmente forte da dare vita a una famiglia.

In “Nata per te” non c’è solo la famiglia “protagonista”, quella che vogliono formare Luca e Lorenzo insieme, non c’è solo quella che si forma tra Luca e Alba. Ce ne sono tantissime altre, da quella dell’avvocata, che, da sola, cresce i suoi due gemelli, a quella del fratello di Luca, pronta ad allargarsi nuovamente con l’arrivo di una nuova bambina, e tante altre.

Fondamentale, però, è che nessuna sia considerata o pensi di essere più importante dell’altra o con più valore. Perché se c’è una cosa che “Nata per te” vuole insegnare è proprio questo.


Veronica Ranocchi

martedì, ottobre 03, 2023

THE PALACE

The Palace

di Roman Polanski

con Oliver Masucci, Luca Barbareschi, Mickey Rourke

Svizzera, Italia, Polonia, Francia, 2023

genere: commedia

durata: 100’

Un hotel di lusso per celebrare nel migliore dei modi l’arrivo del nuovo millennio con personaggi che definire stravaganti è dire poco. Questa la premessa del nuovo film di Roman Polanski “The Palace”, già presentato a Venezia, fuori concorso.

Tante personalità di rilievo del cinema, dell’aristocrazia, del mondo dello spettacolo e della politica si incontrano (e scontrano) all’interno di questo enorme edificio posto apparentemente nel nulla e circondato solo e soltanto da neve.

Tutto ha inizio con il manager dell’hotel Hansueli, punto di riferimento per tutti coloro che lavorano e alloggiano nella struttura, che impartisce le ultime dritte e gli ultimi comandi ai suoi sottoposti poco prima che inizi la giornata (e la notte) più importante, e lunga, dell’anno. Tutto deve essere perfetto, tutto deve essere al meglio e tutto deve soddisfare i clienti. Ma ovviamente, come nella migliore delle tradizioni, non tutto andrà come previsto. E lo si capisce subito, non importa aspettare la direzione che prenderà il film. Si possono prendere, come esempio, gli “sberleffi” che i cuochi fanno non appena il manager e il cuoco sono lontani dalla cucina.

Tutto è portato al limite dell’assurdo e del paradossale: dai personaggi, esageratamente macchiettistici e stereotipati, alle assurde gag già viste.

Un film che, se si pensa al grande nome dietro la macchina da presa, fa quasi storcere il naso, ma che ha, indubbiamente e a prescindere da tutto, qualcosa da dire.

I personaggi, forse troppi, affollano l’hotel e il film, creando un effetto quasi dispersivo. Volutamente non troppo definiti, incompleti e a tratti sovrapposti tra loro, contribuiscono a rendere vero e autentico il caos tipico del Capodanno, quel Capodanno vissuto dallo stesso Polanski proprio in un hotel del genere e che, da più di 20 anni si è instillato nella sua mente pronto a venire fuori sotto forma di film.

Se gli unici personaggi che quantomeno provano a mantenere un po’ di dignità sono camerieri, inservienti e personale di servizio in generale, gli ospiti sono a metà strada tra bambini all’asilo e animali allo zoo. Basti pensare a tutta la serie di accadimenti che si susseguono per non fermare mai il ritmo costante e crescente della commedia.

Che l’intento di Polanski fosse (anche) quello di omaggiare i cinepanettoni vanziniani? Possibile, vista la struttura del film, ma è difficile pensare che lo scopo finale fosse soltanto questo. Anche perché di omaggi e riferimenti il film è pieno. Tra quelli più evidenti a quelli più nascosti Polanski non si tira indietro all’idea prima di tutto di divertirsi e far divertire e, poi, di presentare sullo schermo un mix di tanti titoli, più o meno noti. Dalle gemelline che arrivano in un hotel e che richiamano, nonostante la commedia, lo spaventoso capolavoro di Kubrick, alla dipartita improvvisa di uno degli ospiti che si trasforma nella perfetta occasione per mettere in scena alcuni dei più riusciti momenti dell’esilarante “Weekend col morto”. Insomma i richiami non mancano, nemmeno nei personaggi stessi, da un Barbareschi a metà strada tra il Christian De Sica dei cinepanettoni e Rocco Siffredi, a un Mickey Rourke che, estremizzato in tutto e per tutto, lotta contro chiunque, sfidando il millenium bug.

Ma la genialità del regista sta anche nel riuscire a inserire e bilanciare con la commedia fatti realmente accaduti. Ed ecco comparire sullo schermo di una tv la figura di Vladimir Putin, realmente salito al governo a cavallo del nuovo millennio, che, se inizialmente crea un minimo interesse da parte dei magnati russi in vacanza, viene, poi, immediatamente dimenticato, passando in secondo piano. E a far sorridere è il “legame” tra il suo discorso, che fa intendere privazioni di libertà e diritti, e la dissolutezza portata avanti dai giovani che lo stanno vedendo in tv che decidono di divertirsi, tra alcool e belle donne.

Il “The Palace” di Roman Polanski, dunque, regala leggerezza e divertimento in modo forse troppo “semplicistico” riuscendo quasi a far dimenticare per un’ora e mezzo che il regista dietro la macchina da presa è un premio Oscar.

L’omaggio, però, ai cinepanettoni italiani, e a uno scanzonato e sano divertimento, non solo per chi guarda, ma anche per chi crea l’opera, se questo era l’intento, è riuscito.


Veronica Ranocchi